Il Natale invisibile dei cristiani di Gaza






 
 
 
 
 
 
 
Hart Nasara, il quartiere dei cristiani a Gaza city, è poco più di una stradina nella zona di via Nasser. In una casa, a pochi metri dalla sede della Caritas, una trentina di…
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Hart Nasara, il quartiere dei cristiani a Gaza city, è poco più di una stradina nella zona di via Nasser. In una casa, a pochi metri dalla sede della Caritas, una trentina di fedeli partecipano alla messa officiata da padre Vittorio Moreira, un giovane prete giunto dall’Argentina. Un rito semplice in attesa della messa di Natale che si terrà nella chiesa latina (cattolica) della Sacra Famiglia, non lontano da Piazza Palestina. Si conoscono tutti nella piccola sala e al termine della funzione si chiacchiera solo del Natale. «Cosa cucinerò per queste feste? Riso e pollo, come sempre, cosa che volete che prepari?», chiede la signora Nisrin rivolgendosi alle sue amiche. «Quest’anno è tutto più caro. Il pollo costa di più, anche al mercato di via Omar al Mukhtar», si lamenta Nisrin attribuendo i rincari al blocco della Striscia di Gaza che attuano Israele e l’Egitto. Da quando il presidente egiziano al Sisi ha ordinato la distruzione dei tunnel sotterranei tra Gaza e il Sinai e di allagare i 12 km di territorio lungo il confine, nella Striscia abbondano i costosi prodotti israeliani. Quelli egiziani di contrabbando sono (quasi) spariti e quelli “legali” hanno prezzi elevati per le tasche vuote di gran parte degli abitanti di Gaza. Ad appesantire il costo della vita sono arrivate le nuove tasse decise dal governo del movimento islamico Hamas. Un pacchetto di bionde ora costa quasi cinque euro ma si può sempre smettere di fumare. Compensano in parte le difficoltà della vita quotidiana i lavori pubblici in corso, pagati dal Qatar alleato di Hamas, che hanno rimesso a posto un bel po’ di strade e infrastrutture civili. Un progresso di cui non possono ancora godere gli abitanti di Beit Hanoun, Shajayea, Kuzaa e delle tante altre località orientali ridotte in macerie dai bombardamenti israeliani del 2014. Lì è cambiato ben poco e decine di migliaia di persone passeranno il loro secondo inverno senza casa.
Nisrin quest’anno non parteciperà alla messa di Natale a Gaza, sarà a quella di mezzanotte a Betlemme, in Cisgiordania dove vive la figlia. Approfittando dei permessi temporanei concessi da Israele, non pochi palestinesi cristiani lasceranno Gaza per visitare Betlemme, Nazareth e altre città. Dietro questo allentamento del blocco si nasconde il divieto di viaggiare per i più giovani. I palestinesi, inclusi quelli cristiani, con una età tra i 16 e i 35 anni, fanno i conti con le restrizioni imposte dalle autorità militari israeliane dopo l’inizio dell’Intifada di Gerusalemme. «Sono stati concessi centinaia di permessi per andare in Cisgiordania, molti di noi però non potranno usarli», ci spiega un’altra signora, Mariam, «un padre e una madre non riuscirebbero a godersi il Natale a Betlemme sapendo che i figli sono tristi e delusi proprio nel giorno più bello dell’anno, perchè sono obbligati a restare a Gaza».
E’ un Natale quasi invisibile quello che si preparano a festeggiare i cristiani di Gaza, una piccola e antica comunità che ora conta appena 1.300 persone su una popolazione vicina a 1,9 milioni. Le forti tensioni nella regione, l’inizio della nuova Intifada con i suoi tanti lutti, la disoccupazione, le distruzioni causate l’anno scorso dall’offensiva israeliana “Margine Protettivo”, spingono i cristiani locali a limitare il Natale ai riti religiosi. Nei negozi vicini alla Chiesa della Sacra Famiglia e quella greco ortodossa di San Porfirio, non c’è alcuna decorazione natalizia. L’albero di Natale è presente solo nelle case e in un paio di hotel frequentati dagli occidentali. «Sono tempi duri per tutti qui a Gaza, siamo palestinesi anche noi cristiani e dobbiano fare i conti con le politiche di Israele. I bombardamenti del 2014 hanno colpito tutti, musulmani e cristiani, e tutta la nostra gente è in grande difficoltà», spiega Ghattas, proprietario di una piccola oreficeria in via Omar al Mukhtar. «In queste circostanze – aggiunge — non si può far festa, siamo un unico popolo e dobbiamo rispettare il dolore di chi ha perduto un figlio». Altri cristiani hanno una spiegazione meno nazionalistica. R.T. (ci permette di usare solo iniziali del suo nome) non nasconde il timore di azioni violente da parte di quelli che descrive come «musulmani fanatici». Il governo di Hamas, ci dice, «garantisce la sicurezza della nostra comunità, sappiamo che le forze di sicurezza vigilano su di noi. Temiamo però possibili attacchi individuali, di musulmani che non rispettano neanche Hamas. Ci sono piccoli gruppi armati che dicono di essere alleati dello Stato islamico, che diffondono volontani minacciosi. I miei amici musulmani mi dicono di stare tranquillo, che sono solo parole ma noi cristiani cominciamo ad avere paura. Anche per questo il Natale è così nascosto quest’anno a Gaza».
Nel 1997 i cristiani di Gaza erano 1.688, nel 2014, meno di venti anni dopo, solo 1.313. L’89 per cento è di rito greco-ortodosso. Il 9 per cento è formato da cattolici, il restante 2 per cento include copti, anglicani e protestanti vari. Le famiglie, meno di 400, sono composte in prevalenza da persone con una età tra 40 e 50 anni. I giovani, quando possono, emigrano verso l’Europa o gli Usa, spinti dalla mancanza di lavoro e dal sogno di una vita senza guerra. Restare a Gaza è una scelta difficile. «Quando penso a questa piccola comunità di cristiani provo tanta ammirazione», ci dice Padre Moreira, «sono qui da pochi mesi e la vita a Gaza è molto dura. C’è l’embargo, la guerra, la crisi economica, eppure queste persone si sentono legate alla loro terra, fanno di tutto per superare le difficoltà sapendo che spesso possono solo aggrapparsi solo alla loro fede e sperare nell’aiuto di Dio».

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