Fabio Scuto: " L'intifada dei coltelli, 150 morti in tre mesi"

 La Repubblica
 27 dicembre 2015



L’Intifada dei coltelli ha raggiunto quota 150 morti senza che si intravveda la fine di questa scia di sangue in Israele e in Palestina. Tre mesi di attacchi a colpi di forbice, violenze e scontri nelle strade della Cisgiordania e lungo il confine di Gaza hanno scavato una trincea di guerra difficilmente colmabile, nonostante gli appelli e le pressioni della comunità internazionale. Non passa giorno senza un tentativo di accoltellamento o l’uso dell’auto come ariete per investire passanti o soldati israeliani di guardia ai check-point e ai principali incroci stradali. L’Intifada dei coltelli non ha leader e non ha strategia, libera la rabbia del “cane sciolto” che non ha legami con gruppi politici o religiosi. Prevenire questi attacchi è il “rompicapo” dello Shin Bet, la sicurezza interna israeliana, sono sconosciuti e giovani,e ci sono anche ragazze. Lo scenario spesso scelto è Gerusalemme, la Città Santa percorsa sempre da tensioni e un odio carsico destinato ciclicamente a esplodere. Come ieri pomeriggio quando due agenti di guardia all’ingresso della Porta di Jaffa hanno notato nel gran via vai, che c’è sempre a uno degli ingressi più affollati della Old City, un giovane palestinese che li ha insospettiti perché sembrava pedinare due fedeli ebrei che tornavano dalle preghiere al Muro del Pianto. All’avvicinarsi degli agenti, il giovane 26enne palestinese ha tirato fuori un coltello e ha cercato di pugnalare il poliziotto più vicino. Ma è stato ucciso dal suo collega. Nel pomeriggio un altro palestinese, che aveva cercato di investire dei militari a un posto di blocco nei pressi di Nablus, è stato ferito dai soldati ed è morto in serata. Dalla seconda metà settembre, 20 israeliani (e un americano) sono stati uccisi in attacchi con il coltello e quasi un centinaio feriti. E almeno 128 palestinesi (e un eritreo per errore) sono morti nello stesso periodo. Secondo la polizia 88 di loro stavano attaccando o tentando di attaccare israeliani, mentre il resto è morto in scontri con l’esercito in Cisgiordania e a Gerusalemme. La Città santa è da tempo “blindata” perché gli attacchi all’arma bianca sono avvenuti pressoché ovunque: alla fermata del tram, sui bus pubblici, per strada, all’uscita del supermarket o del ristorante. Un’ondata di terrore che ne ha profondamente mutato il volto, modificando abitudini e sistema di vita della gente. Bar e ristoranti, la sera sono semi-deserti, i cinema hanno cancellato l’ultimo spettacolo. Ci sono i marshals sugli autobus, i vigilantes fuori di scuole e negozi, militari in divisa quasi in ogni angolo di strada. Ma il senso di insicurezza è un virus che si è diffuso rapidamente. Nei quartieri arabi della città quasi ogni notte ci sono cassonetti in fiamme e sassaiole dei giovani palestinesi contro la polizia che risponde con gas lacrimogeni e pallottole di gomma. Il governo israeliano attribuisce la responsabilità di questa ondata di terrore all’incitamento degli estremisti palestinesi, attraverso radio e stazioni tv (che sono state chiuse) ma anche con i social network più popolari. L’Anp e i palestinesi sostengono che la violenza nasce dalla frustrazione per quasi cinque decenni di occupazione, per la totale mancanza di una prospettiva di vita migliore e per la fine nelle speranze di un accordo di pace. Vent’anni dopo, l’accordo di Oslo è stato dichiarato morto dal premier Benjamin Netanyahu e dal presidente palestinese Abu Mazen. Nella soluzione dei “due Stati” Usa, Ue e Onu sono rimasti senza i partner principali.

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