Noi non siamo dei pervertiti”: il coming out di massa di 40 ebrei ultraortodossi
All’ennesima
dichiarazione omofoba non ce l’hanno fatta. Hanno aspettato, invano, un
paio d’ore nella speranza che qualche altro leader replicasse. Che
smentisse....
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All’ennesima
dichiarazione omofoba non ce l’hanno fatta. Hanno aspettato, invano, un
paio d’ore nella speranza che qualche altro leader replicasse. Che
smentisse. Che criticasse. Quando attorno a quelle parole hanno notato
solo il silenzio hanno aperto un file Word, hanno scritto alcune frasi.
Poi hanno messo – uno dopo l’altro – nomi e cognomi. «Eccoci qui, con le
nostre vere identità. Non ci vogliamo nascondere più. Siamo tutti gay.
Quei gay che il rabbino Elyakim Levanon proprio non accetta».
E
omosessuali lo sono davvero tutti e quaranta quelli dell’elenco
diventato pubblico e che continua ad allungarsi. Un coming out di massa,
mai avvenuto nella storia d’Israele, che vede protagonisti tutti ex
studenti delle yeshiva, le scuole religiose ebraiche, che per la prima
volta hanno detto chi sono davvero. Stufi di sentire il rabbino di
ultradestra Levanon aggredire la comunità Lgbt. «L’omosessualità è una
perversione, è un peccato», aveva detto pochi giorni prima il religioso.
«Non è la prima volta che sentiamo frasi del genere, ma quando è troppo è troppo», spiega al sito informativo Nrg Daniel Jonas, religioso, attivista Lgbt dell’associazione «Havruta»
e promotore della lettera pubblica. «Il miglior modo per combattere
l’omofobia è mostrare alle persone che tu esisti». Ed eccola la lettera.
Indirizzata proprio a lui, Levanon.
Ma genitori,
fratelli e sorelle, parenti e amici sapevano dell’omosessualità dei
quaranta? «I famigliari più stretti sì – chiarisce Jonas – ma non gli
altri». E invita il religioso a confrontarsi con loro, ad ascoltare le
loro ragioni, a mettere da parte la convinzione che basti una «terapia»
per la conversione in eterosessuali. Una mano tesa a lui ma anche alle
altre guide spirituali di quelle comunità ultraortodosse dove essere gay
è considerato ancora un tabù e qualcosa da tenere confinato tra le mura
di casa.
© Leonard Berberi
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