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L’Iran fantasma di Gabriele Basilico

 
 
Se si volesse dare alla rap­pre­sen­ta­zione del mondo un cen­tro, per sto­ria e geo­gra­fia, forse una rispo­sta potrebbe essere l’Iran, cuore di tene­bra di un Occi­dente che ieri come oggi fatica a sta­bi­lire con que­sta Repub­blica Isla­mica una qual­siasi rela­zione che non sia cri­tica, incerta, non facil­mente leg­gi­bile. Per una con­di­zione del genere, c’è da noi l’immagine di un Paese spesso occul­tata da cli­chés, tra eso­ti­smo e orien­ta­li­smo, anche se certe ecce­zioni ne hanno resti­tuito molte par­ti­co­la­rità: si pensi per esem­pio al cinema, e per­ciò sem­pre a un qual­cosa che sot­to­li­nea una cono­scenza per via ottica – in que­sto caso i rischi pos­sono sem­mai essere quelli di una per­ce­zione, alle volte, atem­po­rale. Ora, rima­nendo nell’ambito visivo, spo­stan­doci però nel campo foto­gra­fico, vale la pena segna­lare l’uscita di un libro, bello per idea e rea­liz­za­zione. Hum­boldt Books di Gio­vanna Silva e Alberto Sai­bene (www​.hum​boldt​books​.com) ha da poco pub­bli­cato Iran 1970 (18 euro), viag­gio foto­gra­fico verso e attra­verso un Iran visto, nel 1970, dal cele­bre foto­grafo Gabriele Basi­lico (1944–2013), parte di un pro­getto mai por­tato a ter­mine ma, come si legge, «nell’archivio per­so­nale que­gli scatti furono accu­ra­ta­mente custo­diti e il foto­grafo mila­nese pensò qual­che volta di farci un libro». La cosa si con­cre­tizza oggi. Il libro pre­senta pre­fa­zione e post­fa­zione rispet­ti­va­mente dello scrit­tore e gior­na­li­sta Luca Doni­nelli e di Gio­vanna Cal­venzi, «com­pa­gna di Gabriele e testi­mone di quel viag­gio». Più c’è un breve appunto del foto­grafo, prima della post­fa­zione. I primi due scritti citati sono a loro modo testi­mo­nianze affet­tive e uti­lis­sime per pro­vare a entrare un minimo nel mondo del libro – di Basi­lico di que­gli anni – con un certo cri­te­rio. Ma è chiaro che in rela­zione al tema può risul­tare imme­dia­ta­mente più inte­res­sante quanto si legge nella post­fa­zione, sapere che – Cal­venzi scrive – «l’idea del viag­gio nasceva da una media­zione fra il mio desi­de­rio di andare a Samar­canda e quello degli altri di andare in Afgha­ni­stan» (gli «altri», oltre a Basi­lico, saranno i com­pa­gni di viag­gio in attesa della cop­pia in Jugo­sla­via: aspet­te­ranno lì la cop­pia arri­vare su una Fiat 124, per poi con­ti­nuare tutti assieme, con due auto, attra­verso peri­pe­zie che non li faranno andare oltre l’Iran).
Quanto scrive Doni­nelli, invece, pre­senta subito il motivo – il valore – di que­sto libro: «Basi­lico prima di Basi­lico. Prima di essere Basi­lico. Prima che ogni scatto, ogni libro o mostra o ser­vi­zio ci rac­con­tas­sero di que­sta pie­nezza. Prima che Gabriele c’insegnasse che le cose non sono «fatte bene» o «fatte male», ma o sono fatte o non lo sono». Un qual­cosa, se si vuole, di ben espri­mi­bile nella meta­fora del viag­gio verso un altrove, un altrove come l’Iran – per un foto­grafo ita­liano nel 1970, per noi ancora oggi. E poi ci sono le imma­gini. Al cen­tro, a cor­re­dare in modi diversi gli ultimi due testi, a deli­neare un per­corso che ha toc­cato Croa­zia, Tur­chia, il con­fine tra Tur­chia e Iran, certe città ira­niane (Per­se­po­lis, Isfa­han, Tehe­ran, Shi­raz, Qom). La dispo­si­zione delle imma­gini nella sezione prin­ci­pale – quella cen­trale – le pone sia su tutta pagina sia a metà, in que­sto caso nella parte alta. La varia­zione – imma­gini a tutta pagina, imma­gini a metà – si svi­luppa su un ritmo, diciamo, irre­go­lare (i rife­ri­menti geo­gra­fici degli scatti sono poi posti alla fine della sezione, con rimando nume­rico). Nello sfo­gliare le pagine, le foto di Basi­lico sem­brano esi­stere – il più di que­ste, è chiaro – tra ricerca della ver­ti­ca­lità (natu­rale, archi­tet­to­nica) e ciò che non si può che stig­ma­tiz­zare come mistero (pro­viamo a tra­durre: nel rap­porto tra geo­me­trie di forme e linee con invi­si­bi­lità par­ziali qua e là pre­senti, in alcune foto di archi­tet­ture e in alcune foto di persone).
Certo, il bianco e nero aiuta molto nel resti­tuire que­sta sen­sa­zione, ma da buon non spe­cia­li­sta della foto­gra­fia – e di con­se­guenza, della foto­gra­fia di Basi­lico – mi chiedo: cos’è che mi sug­ge­stiona di que­ste imma­gini, come fosse qual­cosa – a suo modo – di per­tur­bante? Ripenso alla cita­zione da Doni­nelli: «Basi­lico prima di Basi­lico». Provo a tra­durre: qual­cosa al di qua/al di là di uno stile, di un modo di essere autore, qual­cosa che si sot­trae a un senso. Soprav­vi­venza di impres­sioni che non tor­nano. Phan­ta­sma. Fisso due imma­gini, su tutte: due gruppi di donne in cha­dor che attra­ver­sano la strada in senso oppo­sto e una bam­bina, nel muc­chio, che guarda fuori campo, quasi mi fissa (pag. 52); un monu­mento di Shi­raz, cen­trale, a distanza, visto da uno spa­zio, nel buio (pag. 54). In que­sti due momenti il pas­sato di allora come alcuni ele­menti storico-culturali cor­renti della cul­tura ira­niana incon­trano il mio pre­sente, tra­mite lo sguardo della bam­bina e il nero dell’altra imma­gine, un legame attra­verso cui – forse – qual­cosa irrompe, come da altrove, e arriva lon­tano. Ma a ben vedere, come dire, è già tutto lì. E qui, men­tre vedo. Così, osser­vando que­ste foto, ho la ten­ta­zione di dire alla fine come la pre­ci­sione mas­sima può forse essere un ten­ta­tivo di arri­vare alla con­di­zione dove non sono più pos­si­bili nette distin­zioni tra vedere e imma­gi­nare, per­ché tutto – da una certa oscu­rità – può diven­tare fami­liare. Come la poe­tessa e film­ma­ker Forough Far­ro­kh­zad – prima di Basi­lico – ha indi­cato, the house is black.

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