Jim Crow in Terra Santa
Di Phyllis Bennis
25 marzo 2015
Gli ultimi giorni della campagna elettorale sembravano molto simile al Jim Crow South, *quando gli afro-americani avevano ottenuto il diritto di voto ma dovevano ancora affrontare una massiccia discriminazione.
La mattina delle elezioni un potente funzionario bianco che si è candidato per essere ri-eletto, esortava i suo seguaci a uscire e votare, avvertendo che gli elettori della minoranza stavano affluendo alle urne in moltissimi – e si lamentava che quegli agitatori dei diritti civili che provocavano , li portavano a votare con degli autobus.
Ma non era il Mississippi o l’Alabama nel 1965 circa. Era Israele nel 2015.
E il candidato non era qualche protetto di Bull Connor o di George Wallace che gridava in un corno di bue. Era il primo ministro di Israele che ha scritto su Facebook.
Puro razzismo
Il capo del paese più stretto alleato di Washington in Medio Oriente – la mitica “sola democrazia in Medio Oriente” – spingeva i suoi sostenitori di destra a uscire e votare. “Il governo di destra è in pericolo,” lo avvertiva, perché – sono le sue parole -
“gli elettori arabi stanno uscendo a frotte per votare. Le organizzazioni di sinistra li portano con gli autobus.”
Il razzismo puro della propaganda dell’ultimo minuto del primo ministro Benjamin Netanyahu è stato repellente.ma più orribile è stato il fatto che abbia funzionato.
Il tipo di linguaggio usato mirava a spaventare gli elettori israeliani ebrei con lo spettro di una grande affluenza di palestinesi che costituiscono il 20% dei cittadini israeliani. Lo strattagemma ha restituito al partito Likud di Netanyahu gli elettori di estrema destra che altrimenti avrebbero forse votato per uno dei partiti ancora più di destra.
Ha funzionato. Il Likud ha sconfitto i suoi sfidanti della destra e anche della sinistra, e Netanyahu ha vinto con una maggioranza schiacciante.
Naturalmente ci sono stati altri piani per raggiungere anche gli elettori di estrema destra. La promessa fatta all’ultimo minuto da Netanyahu che si sarebbe opposto alla creazione di uno stato palestinese – ribaltando apparentemente una posizione che aveva esposto vari anni prima – può forse essere stata sconvolgente per molte persone negli Stati Uniti. Era però realmente coerente con il comportamento di lunga data del primo ministro.
Nel 2001, Netanyahu si è vantato di avere “in realtà fermato l’Accordo di Oslo,” cioè la struttura diplomatica che si ipotizzava avrebbe dato origine a uno stato palestinese. Negli scorsi 6 anni, con un breve e inefficace raffreddamento, Netanyahu ha portato una serie di governi israeliani a costruire insediamenti in Cisgiordania, “giudaizzando” Gerusalemme est araba che è occupata, e attaccando Gaza con forze brutali e illegali con l’effetto di sviare qualsiasi possibilità di uno stato palestinese
anche soltanto tipo “appendice”, non parliamo poi di uno stato che sarebbe indipendente, funzionante e contiguo.
Netanyahu, dopo le elezioni ha provato a tirarsi indietro rispetto al suo cambiamento di posizione, ma data la costante opposizione del primo ministro a porre fine all’occupazione, il Presidente Obama dovrebbe rifiutare quella bugia.
Ripensare a vecchie supposizioni
In effetti, ora la sfida per l’amministrazione Obama non consiste nel ricostruire la sua logora relazione con Netanyahu o anche quella con Israele scritta in grande. Quella relazione è stata troppo speciale per troppo tempo e deve essere riporta alle sue dimensioni normali.
In anni recenti, abbiamo visto Israele continuare ad agire in violazione dei diritti umani, in violazione della legge internazionale e violando proprio quei valori che sostiene di condividere con gli Stati Uniti – a meno che per caso quei valori riguardino una prolungata eredità di razzismo verso i popoli indigeni e altri, al di fuori della maggioranza demografica.
Sfortunatamente, quelle violazioni sono state appena ratificate – di nuovo- dagli elettori israeliani.
La sfida di Obama è, quindi, di costruire un approccio completamente nuovo per trattare con Tel Aviv. E’ ora di riconsiderare i vecchi presupposti, favoriti dalle lobbie filo-israeliane e dalle obsolete strategia da Guerra Fredda che chiedevano di fornire a Israele appoggio acritico, impunità diplomatica, protezione militare garantita, e miliardi di dollari di aiuti militari forniti dai contribuenti statunitensi.
Quelle sono state le caratteristiche della relazione tra Stati Uniti e Israele da almeno48 anni, e sono fallite.
Non sono riuscite a fare in modo che l’arsenale nucleare di Israele fosse sottoposto a un’ispezione internazionale o che Israele firmasse il Trattato di Non Proliferazione Nucleare. Non sono riuscite a causare le fine dell’occupazione di Israele della terra palestinese, il suo rifiuto del diritto di ritorno dei palestinesi, garantito a livello internazionale, o la sua discriminazione contro i cittadini palestinesi di Israele. Non sono riuscite a incoraggiare un Israele che rispetti i diritti umani che accetti l’uguaglianza per tutti come obiettivo nazionale fondamentale.
Mentre Obama considera la possibilità – che ci mette così tanto ad arrivare – di ridurre la sua protezione diplomatica per Israele alle Nazioni Unite e altrove, la sua amministrazione dovrebbe tenere a mente quella litania di fallimenti.
Il tipo di rapporti degli Stati Uniti con Israele hanno sostenuto e coccolato un stato ultra armato e nuclearizzato che non soltanto espropria e occupa le terre di altri popoli e priva il 20% di suoi stessi cittadini die fondamentali diritti nazionali, ma ha anche operato deliberatamente per far deragliare i negoziati statunitensi e internazionali con l’Iran.
Gli Stati Uniti non possono accogliere i leader israeliani che contano su provocazioni apertamente razziste per ottenere voti a sostegno delle loro politiche di apartheid o delle loro folli guerre.
Una relazione normale
È’ arrivata l’ora di un rapporto completamente nuovo, basato non su una “relazione speciale” ma sui normali legami Washington condivide con la maggior parte degli altri paesi.
Relazione normale vuol dire riconsiderare il motivo per cui i contribuenti statunitensi mandano Israele 3,1 miliardi di dollari ogni anno – cioè il 55% di tutti gli aiuti americani – quando Israele, secondo il Fondo Monetario Internazionale, è il 25% paese più ricco del mondo.
Significa chiedere perché non mettiamo in atto la legge Leahy che proibisce di inviare armi a qualsiasi unità militare che nota per commettere violazioni dei diritti umani, quando perfino i rapporti annuali del Dipartimento di Stato documentano modelli di violazioni commesse da Israele. Significa sostituire la nostra attuale strategia di “proteggeremo Israele indipendentemente da quello che fa” con un nuovo impegno a per raggiungere una soluzione tra israeliani e palestinesi basata sui diritti umani, la legge internazionale, e l’uguaglianza per tutti.
In breve, una relazione normale significa porre fine alla complicità degli Stati Uniti nelle violazioni commesse da Israele.
Il nostro progresso contro il razzismo negli Stati Uniti è troppo recente, troppo fragile, e troppo incompleto per permettere al nostro governo di fornire appoggio a coloro che contano su appelli razzisti per vincere le elezioni all’estero – specialmente quando questi includono il leader della “unica democrazia” del Medio Oriente, armata dagli Stati Uniti, finanziata dagli Stati Uniti e protetta dagli Stati Uniti.
*http://it.wikipedia.org/wiki/Leggi_Jim_Crow
Phyllis Bennis dirige il progetto Nuovo Internazionalismo presso l’Istituto per gli Studi di Politica
Nella foto: Phyllis Bennis
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