Giorgio Gomel : Israele: stato ebraico e democratico o stato etico?
Israele: stato ebraico e democratico
o stato etico?
di Giorgio Gomel
Anna Segre ci interroga sull’ultimo numero
di HK circa il dilemma irrisolto se Israele sia lo stato del
popolo ebraico o lo stato di (tutti) i suoi cittadini. Argomento
dibattuto da anni, ma anche avviluppato nell’ambiguità
concettuale e pratica, perché complesso, perché attiene alle
radici del sionismo e della nascita dello stato, al rapporto fra
ebrei e arabi e anche a quello, appeso al compromesso raggiunto
fra Ben Gurion e i partiti religiosi negli anni ’50, fra stato e
religione.
Ironicamente in questi ultimi giorni di
novembre un disegno di legge, formulato in diverse versioni da
deputati del Likud e di Habayit Hayeudit, ma con un lungo
pedigree alle spalle (nel 2009 propose un testo Avi Dichter, ex
capo dello Shin Bet e allora deputato del partito Kadima fondato
da Sharon, Peres e Livni) e detto “legge della nazione” riporta
il tema dalla sfera dell’accademia e della giurisprudenza nonché
della riflessione filosofica all’agone politico. Il testo,
riformulato dal Primo ministro, è stato approvato dal governo
(15 voti contro 7), diviso radicalmente fra destra e
centro-sinistra. Il Parlamento lo dovrà discutere; ad oggi il
dibattito è rinviato per l’opposizione anche del Presidente
Rivlin, del Procuratore dello stato Weinstein, di molti
giuristi.
Negli ultimi anni il radicalismo di destra
è all’offensiva in Israele, anche nel Parlamento, con leggi
volte a limitare la democrazia e l’indipendenza del sistema
giudiziario. Dalle leggi contro il boicottaggio che consentono
di agire in via giudiziaria contro coloro che in Israele
propugnano il boicottaggio delle produzioni degli insediamenti a
quelle che limitano i finanziamenti a ONG da parte di governi
esteri o istituzioni internazionali. Leggi che trovano alimento
in larghi strati della società indifferenti o anche ostili allo
stato di diritto e alla democrazia e in pulsioni verso il
tribalismo, l’intolleranza.
Come scrissi tempo fa in un articolo su HK
(Il sogno di Herzl : lo stato democratico degli ebrei) il
come assicurare che Israele resti lo “stato degli ebrei”, nel
senso del sionismo liberale di Herzl o del sionismo socialista,
che affermarono nei fatti con la fondazione dell’Yishuv e poi
dello stato, il diritto all’autodeterminazione del popolo
ebraico , ma anche una democrazia piena per tutti i suoi
cittadini, non è cosa banale.
Alcuni anzi lo ritengono impossibile.
Comunque, come si concilia tale diritto fondamentale sancito
dalla Dichiarazione di indipendenza del ’48 e anche dal piano di
spartizione della Palestina del ’47, che prefigurava uno stato
ebraico ed uno arabo, con i diritti degli altri, arabi
soprattutto (oggi circa il 20% della popolazione) e immigrati da
altri paesi del mondo, che soffrono di disparità e
discriminazione nell’istruzione, nell’allocazione della terra a
fini di abitazioni, nelle infrastrutture, nel mercato del
lavoro?
Il dualismo fra “ebraico” e “democratico”
esiste fin dall’inizio; basti pensare alla Legge del ritorno.
Che Israele sia uno stato “ebraico” non solo perché luogo di
rifugio dalla persecuzioni di un popolo disperso, ma perché
l’identità collettiva del paese è impregnata di cultura ebraica
(la lingua, le feste, i simboli pubblici) è legittimo. Ma non è
accettabile che lo stato favorisca il gruppo ebraico rispetto ad
altre etnie. La novità dell’oggi è che la legge codifica questa
discriminazione. Qualora vi sia conflitto fra i due l’ebraicità
avrebbe precedenza sulla democrazia.
Porre l’ebraicità prima e al di sopra della
democrazia e attribuire alla legge ebraica (quale?) uno status
privilegiato come ispirazione del sistema legale e declassare lo
status dell’arabo da seconda lingua ufficiale del paese
comportano limitare i diritti dei non ebrei a diritti
individuali, non quelli collettivi di una minoranza nazionale.
Ciò significa disconoscere il fatto che vi è in Israele un’altra
nazione o etnia che nulla potrà dire circa il carattere dello
stato di cui i suoi membri - gli arabi - sono cittadini con pari
diritti. Affermare come nell’art. 3 che Israele “sarà fondato
sui principi di giustizia, libertà e pace alla luce della
visione dei profeti di Israele e garantirà i diritti individuali
di tutti i cittadini conformemente alla legge” significa
qualcosa di diverso dal testo della Dichiarazione del ’48 che
prescrive “.. completa eguaglianza di diritti sociali e politici
a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o
sesso …”.
Ci sono due tesi divergenti fra coloro che
si oppongono alla legge. Molti ne interpretano il contenuto e il
timing come qualcosa di strumentale, nella battaglia politica
per le primarie del Likud e in vista di elezioni anticipate, in
cui i partiti di destra cercano di attrarre il voto
dell’opinione pubblica nazionalista. Altri - come Gideon Levy -
sono assai più pessimisti: la legge sarebbe una prova che
prepara il terreno per quando con l’annessione della
Cisgiordania e la fine dell’illusione della soluzione “a due
stati” si giungerà anche formalmente ad uno stato binazionale,
non egualitario, non democratico, con diritti solo per ebrei.
Certamente, a mio avviso, è un passo verso
l’istituire nel paese un sistema di democrazia “etnica”, in cui
l’identità dello stato è ebraica. Hegel chiamava ciò lo “stato
etico”.
In un articolo La legge dello
stato-nazione: gli ebrei dovrebbero sapere esattamente a cosa
porta (Haaretz, 27.11.2014), Daniel Blatman, docente di
storia dell’Olocausto all’Università ebraica di Gerusalemme,
assimila l’ideologia ispiratrice della legge a quella che portò
nell’Europa degli anni ’30, per esempio in Polonia e Romania,
alle “leggi sulle nazionalità”; leggi approvate in stati “che
affermavano un’unica identità etnica, definita in contrasto con
l’identità dell’altro fino alla discriminazione codificata e
alla persecuzione delle minoranze. Gli ebrei furono le vittime
prime di questi regimi, in cui xenofobia e sospetto sostituirono
i principi del pluralismo politico e sociale”.
Giorgio Gomel
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