L'Italia e i palestinesi: cosa è andato storto?

 

Per decenni l’Italia è stata considerata il paese europeo più solidale con il popolo palestinese e la sua causa. Poi le cose sono cambiate. Nell'ultimo decennio media e dibattiti pubblici hanno de-politicizzato o demonizzato la catastrofe palestinese. Nell'immaginario comune Israele è diventato “noi” e i palestinesi “gli altri”. Cosa è andato storto? L'analisi di Mjriam Abu Samra.


Nel mese di luglio 2014 a Roma, alcuni gruppi sionisti hanno portato a termine una serie di attacchi contro attivisti solidali con la Palestina e istituzioni palestinesi in Italia, picchiando e ferendo 7 giovani italiani.
Una delle vittime è stata aggredita solo per il fatto di indossare una kufiya mentre era in corso la prima giornata di operazioni militari israeliane contro la Striscia di Gaza (l’operazione “Barriera difensiva”, ndt). Alcuni colpi di pistola sono stati esplosi contro la sede diplomatica palestinese a Roma.
Le istituzioni politiche italiane e i media non hanno condannato ne’ commentato questi preoccupanti eventi, che rappresentano solo gli ultimi episodi di un crescente sentimento anti-palestinese e di azioni aggressive che hanno avuto luogo nella capitale negli ultimi anni.
Come è possibile che questi episodi restino impuniti, e che si consumino senza alcuna denuncia o reazione politica? Quando e perché le istituzioni italiane sono divenute così compiacenti e accomodanti?
Questa indifferenza tradisce quella lunga storia di solidarietà che ha unito l’Italia alla lotta di liberazione palestinese. Per comprendere gli accadimenti che hanno avuto luogo a Roma, dobbiamo riflettere sulla storia delle relazioni tra Italia e Palestina e sul suo triste deterioramento.
Nel corso degli ultimi 60 anni, le relazioni tra Italia e Palestina sono cambiate, in linea con i mutamenti nelle politiche tanto italiane quanto palestinesi. Per decenni l’Italia è stata considerata il paese dell’Europa occidentale più solidale con il popolo palestinese e la sua causa.
Un approccio che non era solo il risultato di interessi politici ed economici nazionali nella regione araba, ma anche dell’impegno dei movimenti popolari italiani di solidarietà con la Palestina e del attivismo politico palestinese, in particolar modo quello del Unione Generale degli Studenti Palestinesi (General Union of Palestinian Students – Gups).
A partire dalla fine degli anni Ottanta, il sostegno italiano alla Palestina ha subito un graduale ma consistente mutamento: ad oggi l’Italia è uno dei migliori “amici” di Israele nel contesto dei paesi europei.
Ci sono due principali fattori alla base di questo riposizionamento politico.
Il primo riguarda la trasformazione politica e sociale dell’Italia, il suo lungo processo di “integrazione” culturale, economica e politica nell’arena delle politiche neoliberiste globali, strettamente legate a un’agenda neo-imperialista che ha causato una radicale riconsiderazione delle politiche estere italiane. Si tratta essenzialmente di un fenomeno post-guerra fredda. Per quanto sia legato ad un più vasto e sostanziale mutamento culturale, a questo si affianca l’emergere di una potente lobby mediatica che ha lavorato per minare il sostegno globale alla causa palestinese.
Il secondo fattore è il lento e costante cambiamento nella visione politica e strategica palestinese, cristallizzato dagli Accordi di Oslo, che hanno comportato una frammentazione politica e sociale capace di marginalizzare il ruolo dei palestinesi nella shatat (1) nel quadro della lotta di liberazione nazionale.
Non solo l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) da movimento rivoluzionario è passato ad essere un apparato semi-statale che ha privilegiato l’aspetto diplomatico a discapito dell’attivismo popolare; ma la frammentazione politica dell’Organizzazione ha avuto un impatto negativo anche sulla resistenza palestinese, causando una paralisi senza precedenti dell’attivismo sociale, culturale e politico dei palestinesi in Italia.

L’approccio italiano alla questione palestinese: uno sguardo d’insieme
Dopo la fine della II Guerra mondiale, l’Italia ha riservato grande attenzione al mondo arabo. Il governo dell’epoca cercò di giocare un ruolo attivo nella regione, ben consapevole della necessità di costruire solide e stabili relazioni, sfruttando la sua posizione geografica di “ponte” tra il Medio Oriente e l’Europa.
L’Italia ha sempre cercato di trarre beneficio dalla prossimità geografica con la regione, per gettare le basi di una presenza economica stabile nell’area del Mediterraneo, come dimostrano i ripetuti tentativi di espansione coloniale diretta.
Nonostante  la politica estera italiana si sia notevolmente ridotta con l’inasprirsi della polarizzazione tra Stati Uniti e Unione Sovietica nel corso degli anni Cinquanta, l’interesse nel Mediterraneo è rimasto stabile. Dopo aver perso le sue colonie in Africa, l’Italia è stata costretta ad elaborare nuove strategie per mantenere una presenza regionale. Nel corso della II Guerra mondiale il suo approccio al Medio Oriente è stato incisivo e dinamico (2): ciò non significa, tuttavia, che la politica italiana nel mondo arabo, e in particolare verso la causa palestinese, sia stata consistente o sempre coerente.
Nonostante il suo chiaro interesse politico ed economico nell’area, l’attenzione italiana in questi anni si focalizzerà quasi esclusivamente sull’Atlantico e l’Europa. L’Italia, consapevole della rilevanza del “vecchio continente” per la politica estera statunitense, intravedeva i vantaggi di un’integrazione europea capace di riposizionarla nell’alveo delle maggiori potenze nella sfera delle priorità degli Stati Uniti (3).  
Nel 1950 l’Italia era troppo impegnata nel raggiungere stabilità e misurarsi con le proprie dinamiche interne per poter ideare una strategia politica consistente verso il Medio Oriente. Perduta la guerra e in pieno processo di ricostruzione nazionale, il paese doveva ricostruire la propria credibilità di solido alleato per gli interessi strategici statunitensi all’interno del trattato NATO (4).
Allo stesso tempo, l’Italia rappresentava una pedina fondamentale per gli interessi politici dell’Unione Sovietica e il blocco comunista: il Partito Comunista Italiano, incoraggiato e fortificato dall’esperienza della Resistenza partigiana, era il più grande e forte d’Europa. La coesistenza di questi due estremi opposti avrà un forte impatto sulle scelte politiche italiane nel corso della Guerra Fredda (5).
Da una parte la Democrazia Cristiana - il maggior partito italiano che aveva guidato il governo all’indomani della II Guerra mondiale - aveva interesse a rendere prioritarie le politiche pro-Europee e la politica estera basata sugli interessi del Patto Atlantico. D’altra parte, diversi attori politici, economici e sociali premevano per un ruolo attivo nell’area del Mediterraneo. In particolare le forze socialiste, i partiti laici e anche la sinistra interna alla Dc erano convinti che il ruolo italiano nel mondo arabo avrebbe potuto contribuire all’emergere di una “terza via” alla dicotomia imposta dalla Guerra fredda.
Queste dinamiche – l’esigenza di garantire stabilità interna in una fase delicata della ricostruzione nazionale, e il desiderio di riemergere come forza politica ed economica nel Mediterraneo – hanno influenzato le politiche italiane verso la causa palestinese, talvolta con risultati controversi.
Sin dalla creazione dello Stato di Israele (nel 1948, ndt) l’Italia ha tentato di allinearsi con la maggior parte della Comunità internazionale – in altre parole l’Occidente – costruendo legami di amicizia con il neonato Stato. Ad ogni modo, l’approccio filo-arabo del Partito Comunista Italiano vedeva la lotta palestinese per la liberazione nazionale non solo come una lotta anti-coloniale, ma anche come parte della rivoluzione anti-capitalista e anti-imperialista.
Una polarizzazione che ha influito sulla diplomazia italiana, nel tentativo di preservare tanto il suo ruolo di interprete del mondo arabo quanto quello di amica di Israele (6).  
Il tentativo di perseguire una politica di equidistanza ha caratterizzato in modo particolare gli anni ’50 e ’60, portando a risultati incostanti. Ad esempio, durante la crisi di Suez del 1956 l’Italia giocò un ruolo fondamentale nella risoluzione del conflitto: nonostante gli sforzi iniziali per rimanere neutrale, non solo finì per condannare l’invasione francese, britannica e israeliana, ma si impegnò in sforzi diplomatici per portare alla fine delle tensioni (7).
Undici anni dopo, durante la Guerra del 1967, il tentativo italiano di mantenere una certa distanza dalla questione arabo-israeliana portò ad un risultato abbastanza inatteso. Il governo fu diviso da un duro dibattito interno tra chi simpatizzava con Israele e chi invece sosteneva la controparte araba. Mentre inizialmente l’Italia si rifiutò di condannare l’Egitto e gli Stati arabi, alla fine si trovò costretta a convergere con il piano di “pace” statunitense, che portò a ripercussioni (8) piuttosto negative per le relazioni economiche italiane con gli Stati arabi.
Mentre il 1950 e il 1960 hanno visto prevalentemente timidi tentativi di perseguire un ruolo attivo nella questione arabo-israeliana, nel corso degli anni Settanta l’Italia virò su una posizione decisamente più filo-palestinese.
Il paese, allora guidato dal governo di Aldo Moro, promosse un certo numero di iniziative a favore della causa palestinese. Fece pressione ad esempio, insieme alla Francia, per la partecipazione di Yasser Arafat all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1974. Il governo espresse anche simpatia per la causa palestinese non solo con dichiarazioni ma fino al punto di consentire la presenza ufficiale di una delegazione dell’OLP già nello stesso anno sul suo territorio (9).
Si impegnò anche nella Dichiarazione di Venezia della CEE (Comunità Economica Europea. Con questa dichiarazione gli allora 9 membri dell’Unione Europea riconoscevano ufficialmente l’OLP come interlocutore politico, ndt), decisione che gli Stati Uniti criticarono duramente, e che fu invece caldamente accolta dagli Stati arabi e dai palestinesi.
Questo sostegno crebbe nel corso degli anni Ottanta, quando la politica italiana, guidata dal Partito Socialista di Bettino Craxi e dalla Democrazia Cristiana di Giulio Andreotti, divenne aperta sostenitrice della Palestina, talvolta al punto da mettere a rischio l’alleanza con gli Stati Uniti e Israele (10).  
Fu questo il caso, ad esempio, nel 1985, quando l’Italia rifiutò di estradare i dirottatori palestinesi della nave da crociera “Achille Lauro”.  Durante gli anni ’70 e ’80, ad ogni modo, l’Italia ebbe anche a che fare con l’intensificarsi delle attività delle forze palestinesi sul suo territorio: la diplomazia tentava di assicurare che le tensioni tra i militanti palestinesi e i servizi segreti israeliani non degenerassero in scontri aperti in Italia.
Attraverso un accordo non ufficiale conosciuto come il “Lodo Moro”, l’Italia garantiva ad alcuni gruppi palestinesi la libertà di coordinare e organizzare il proprio lavoro su territorio italiano, in cambio della garanzia che non sarebbero state compiute azioni terroristiche in Italia. 
Nel corso degli anni seguenti emergerà però come la stessa “politica del chiudere un occhio” fosse stata applicata anche verso il Mossad (i servizi segreti israeliani, ndt) (11).  
Sforzi che, tuttavia, non impediranno azioni armate e l’omicidio di persone innocenti sul territorio italiano: tra il 1970 e il 1980 quattro palestinesi verranno assassinati a Roma: l’intellettuale Wael Zwaiter (1972), Majed Abu Sharar, ufficiale dell’OLP (1981), Kamal Hussein, vice rappresentante dell’OLP (1982) e Nazih Matar, medico (1982). Il tecnico nucleare israeliano pacifista Mordechai Vanunu verrà invece rapito dal Mossad a Roma nel 1986.
Il gruppo militante “Abu Nidal”, inoltre, eseguirà in questi anni una serie di attacchi armati nella capitale che alzeranno la tensione, fortemente condannati dall’OLP. 
La politica pro-palestinese degli anni Ottanta poté contare su un forte sostegno e solidarietà popolare, in modo particolare dopo il massacro di Sabra e Shatila del 1982. Quell’evento scioccò l’opinione pubblica italiana, ed ebbe forti ripercussioni politiche nel paese.
L’allora presidente della Repubblica, Sandro Pertini, condannò la strage durante il tradizionale Discorso alla Nazione di fine anno, nel 1983. Questa ondata di sostegno diplomatico e popolare senza precedenti raggiunse l’apice con lo scoppio della prima Intifada nel 1987.
Ma durante gli anni Novanta iniziò il declino, sostituito da una graduale ma radicale inversione di marcia: la fine della Guerra Fredda causò una lunga e irreparabile crisi all’interno del Partito Comunista, che finì per avere ripercussioni anche nella politica estera italiana.
La sinistra si trasformò radicalmente, in linea con l’ascesa del neoliberismo globale sviluppatosi in seguito alla Guerra Fredda. Negli anni 1990 la sinistra italiana ha convenuto che"al di fuori dei principi democratici liberali tutto è vuoto, o peggio demagogia. E considerando che i paesi capitalisti avanzati sono governati da coalizioni di centro, hanno scelto di orientarsi verso una collaborazione neo-centrista".
Questo  cambiamento politico interno andò di pari passo con un diverso approccio italiano verso la questione palestinese. 
L’Italia controbilanciò la sua tradizionale empatia con la causa araba con la costruzione di relazioni forti con Israele, e con un sostegno pressoché incondizionato alle politiche statunitensi filo-israeliane, al punto che alcuni studiosi hanno sostenuto che la politica estera italiana fu, in questo senso, fondamentalmente delegata gli Stati Uniti.
In anni recenti, e in modo particolare dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, con l’emergere e il diffondersi della retorica orientalista che identificava gli arabi e l’Islam con il terrorismo (il cosiddetto “scontro di civiltà”, ndt) l’approccio italiano verso il Medio Oriente e la Palestina in particolare è completamente cambiato.
I governi guidati da Silvio Berlusconi così come la coalizione di sinistra hanno rafforzato i legami economici e politici con Israele: la scelta è stata giustificata in termini di interessi strategici, ma si è anche espressa nella tipica retorica del “debito morale” verso gli ebrei così come sulla presunta affinità culturale esistente con Israele, considerata “l’unica democrazia del Medio Oriente”.
Negli ultimi 10 anni nei media, nei dibattiti pubblici e anche nelle dichiarazioni politiche, la catastrofe palestinese è stata spesso de-politicizzata o demonizzata. I palestinesi sono stati presentati come un caso umanitario, e il sistema mediatico mainstream si è reso complice dell’assimilazione tra manifestazioni di solidarietà per i palestinesi e antisemitismo. 
Inoltre, questo dibattito è stato appositamente posizionato nell’alveo dello “scontro di civiltà”, il modo migliore per giustificare il sostegno italiano a politiche di stampo neo-coloniale. Anche la dicotomia tra “noi” (i buoni) e “gli altri” (i cattivi) è un framework che ha avallato il perseguimento di politiche neo-coloniali verso aree non-occidentali.
L’Italia ha pienamente abbracciato il quadro di riferimento neo-imperialista sulla base del quale queste politiche sono state concepite, così come il meccanismo culturale attraverso cui Israele è diventato “noi” e i palestinesi “gli altri”.
La vittoria elettorale di Hamas nel 2006, democraticamente eletto alle elezioni legislative palestinesi, si è inserita in questo contesto, e l’identificazione tra palestinesi e “terrorismo islamico” è diventata sempre più forte man mano che la lotta palestinese veniva rappresentata con una fuorviante conrice religiosa. Una distorsione durata a lungo, anche a causa dell’incapacità da parte della comunità palestinese in Italia di respingerla con strumenti efficaci.
Se durante gli anni Sessanta e Settanta i palestinesi in Italia furono capaci di costruire un solido network politico, negli ultimi due decenni questo attivismo è andato in crisi, segnato da una frammentazione che ha paralizzato la sua capacità di avere un impattosulla società italiana e mobilitare il sostegno popolare.

L’impegno politico palestinese in Italia 
Quella palestinese è tra le comunità straniere più integrate nel tessuto sociale italiano. La prima ondata migratoria arrivò in Italia durante gli anni Cinquanta, mentre gran parte degli studenti arrivarono tra gli anni Sessanta e Settanta.
Provenendo da un secondo esilio in seguito alla Guerra del 1967 e all’occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, gli studenti palestinesi presero subito parte all’attivismo politico, in particolar modo attraverso la creazione dell’Unione Generale degli Studenti Palestinesi (Gups) nel 1969.
Il Gups fu l’organizzazione palestinese pioniera in Italia, e gettò le basi per la costruzione di altri sindacati popolari e di settore. Raggruppava studenti di tutte le fazioni e movimenti, che arrivavano da tutta la regione araba. L’obiettivo dell’organizzazione non era solo di sostenere gli studenti, ma anche di giocare un importante ruolo politico costruendo relazioni con i movimenti popolari italiani e le organizzazioni di base, tra cui il movimento studentesco guidato dal filosofo Mario Capanna, partiti di sinistra come Unità Proletaria e il PCI, forze extra-parlamentari come “Lotta Continua” e “Potere Operaio”, e altri gruppi marxisti, leninisti e maoisti.
Nel corso degli anni Settanta gli studenti furono il motore del sostegno italiano alla causa palestinese: organizzarono manifestazioni e pubblicarono costantemente materiale informativo, libri, manifesti. Un lavoro intenso, che aprì la strada ai futuri successi dell’OLP nella costruzione di legami stabili con i partiti italiani, utili a rafforzare le relazioni diplomatiche OLP-Italia. 
Ma se gli studenti furono capaci di mantenere un ruolo  centrale di “produttori” di solidarietà tra le masse italiane fino alla fine degli anni Settanta, negli anni seguenti loro come tutti i settori della società palestinese in esilio furono costretti a riorganizzare e ripensare il proprio attivismo e il loro ruolo alla luce di due eventi cruciali: l’abbandono forzato del Libano da parte dell’OLP nel 1982, e la firma degli Accordi di Oslo nel 1993.
Entrambi questi eventi rappresentarono infatti un punto di svolta fondamentale per i palestinesi dell’esilio.
Quando l’OLP fu costretta a lasciare Beirut le sue istituzioni principali persero coesione ed efficacia, e si avviò un processo di burocratizzazione che ebbe un impatto negativo sulle organizzazioni popolari e sui sindacati, specialmente quelli in esilio: il loro ruolo diminuì progressivamente a partire da quel periodo (12).
Queste dinamiche divennero evidenti anche in Italia alla fine degli anni Ottanta: l’impegno politico delle organizzazioni di base palestinesi si allentò lentamente, e la causa palestinese fu sempre più rappresentata dall’azione diplomatica della delegazione dell’OLP.
La frammentazione della società palestinese e la paralisi dei movimenti fu cristallizzata con la firma degli Accordi di Oslo. Questi accordi formalizzavano infatti il cambiamento nella natura dell’OLP, che da movimento rivoluzionario che si batteva per la liberazione e la giustizia diventava un semi-apparato statale che tentava di creare un mini-Stato, preoccupato esclusivamente confini e di diritti alla rappresentanza politica (13).
Una trasformazione che ha privato la lotta dei suoi principi fondanti, e ha progressivamente indebolito le sue strategie.
Inoltre, Oslo accelerò il processo di frammentazione della società palestinese dividendola in gruppi distinti, con agende politiche apparentemente diverse, escludendo di fatto le rivendicazioni della maggioranza del popolo palestinese dal “processo di pace”. I palestinesi dell’esilio furono progressivamente marginalizzati e isolati dalla loro stessa lotta. Quando divenne chiaro che, nonostante la retorica, la “pace” non sarebbe stata raggiunta, i palestinesi dell’esilio si ritrovarono disconnessi dalla loro stessa società, strappati dal loro stesso movimento, e incapaci di trovare il modo per riorganizzarsi.
In Italia, una delle conseguenze più preoccupanti di questo processo di frammentazione e mancanza di una visione comune fu l’incapacità da parte dei quadri politici di formare e preparare le nuove generazioni di palestinesi nate in Italia a comprendere e contribuire attivamente alla loro causa, così come a coltivare i loro legami originari con la Palestina.
Queste dinamiche, insieme ai cambiamenti politici e culturali che hanno caratterizzato la politica e la società italiana negli ultimi 30 anni, spiegano in gran parte la svolta filo-israeliana dell’Italia, e l’incapacità da parte palestinese di contrastarla.
Nonostante la crisi politica palestinese e le sempre crescenti relazioni politiche, economiche e militari tra Italia e Israele però, una nuova ondata di attivismo palestinese e di sostegno italiano alla causa sta emergendo.
Alcuni dei recenti e drammatici eventi nell’ambito della colonizzazione sionista della Palestina hanno toccato sia la società italiana che la comunità palestinese in Italia: il massacro di Gaza del 2008-2009, “Piombo Fuso”, ha scioccato l’opinione pubblica. Migliaia di italiani e arabi-musulmani all’epoca sono scesi in strada, e in tanti hanno lentamente avviato un nuovo processo di mobilitazione lanciando una sfida alla macchina della propaganda israeliana.
L’emozione generale suscitata poi dall’assassinio dell’attivista italiano Vittorio Arrigoni nel 2011 ed il silenzio imbarazzante delle istituzioni su questo evento è stato un altro momento fondamentale per riattivare in Italia gruppi di solidarietà e movimenti politici.
La campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele, ndt) ad esempio, ha ottenuto un vasto sostegno popolare, contribuendo ampiamente alla diffusione di consapevolezza presso l’opinione pubblica italiana, ed è incoraggiante anche la mobilitazione che c’è stata in seguito all’ultimo attacco contro la Striscia di Gaza (l’operazione “Barriera Difensiva”, luglio-agosto 2014, ndt).
Alcuni recenti sviluppi all’interno della comunità palestinese sono altresì cruciali: negli ultimi anni una nuova generazione di palestinesi ha tentato di riorganizzarsi e riunirsi, in un primo momento solo sulla base del desiderio di rafforzare i legami culturali e identitari con la terra d’origine. Ma queste formazioni hanno poi sviluppato una forte coscienza critica e un’agenda politica credibile, basata sulla volontà di ottenere “giustizia, liberazione e diritto al ritorno”.
Questo gruppo di giovani include palestinesi-italiani così come studenti palestinesi che provengono dalla regione araba e dalla Palestina storica. L’inizio della loro mobilitazione può essere rintracciata nel 2005, quando hanno deciso di dare vita all’Associazione giovanile “Wael Zwaiter”, attraverso la quale sono stati capaci di far conoscere la loro lotta di liberazione.
Per quanto l’associazione sia stata capace di ottenere ottimi risultati e coordinarsi con diversi movimenti italiani, soprattutto a Roma ma anche a livello nazionale, le sue attività si sono interrotte nel 2010. L’impegno politico giovanile, ad ogni modo, è proseguito basandosi su un approccio più informale e decentralizzato.
Nonostante le evidenti difficoltà, i giovani palestinesi in Italia si sono nuovamente organizzati negli ultimi anni. A livello generale, sono impegnati nell’elaborazione di nuove strategie politiche e una nuova concezione della lotta palestinese su due diversi livelli: nella società civile italiana e in quella palestinese della Palestina storica e in esilio.
La loro visione mette in evidenza la rilevanza della causa palestinese a livello regionale e internazionale, situandola all’interno della lunga storia delle rivoluzioni anti-coloniali. I giovani vedono la lotta palestinese legata e non isolata da battaglie più ampie, enfatizzandone lo spirito anti-coloniale e denunciando la trasformazione del movimento di liberazione nazionale in un apparato burocratico concentrato su logiche di state-building.
Fanno inoltre appello alla “riunificazione” del popolo palestinese intorno ai principi condivisi di giustizia, diritto al ritorno e liberazione. In questo senso i giovani palestinesi in Italia hanno coordinato le loro azioni ed elaborato la propria visione in chiave trans-nazionale, tentando di organizzarsi con altri palestinesi nel mondo che ne condividano la lettura.
Tra i loro maggiori meriti spicca quello di contribuire al dibattito interno alla comunità, ai gruppi e alle associazioni palestinesi, a Roma. Gli sforzi per riattivare l’attivismo politico in Italia hanno anche interessato le generazioni più anziane, che hanno tentato di rafforzare le loro strategie e strutture partecipando in modo più diretto a tutte le forme di mobilitazione legate alla Palestina.
L’approccio politico della vecchia generazione, e in modo particolare la mancanza di un’analisi critica dell’attuale quadro politico nazionale, talvolta ha impedito una cooperazione più costruttiva con i giovani, in questo senso riflettendo le dinamiche che hanno caratterizzato la società palestinese nel periodo post-Oslo. 
Nonostante queste contraddizioni, tuttavia, il sostegno governativo ad Israele è stato recentemente controbilanciato da una più consistente mobilitazione palestinese e da una più forte organizzazione dei movimenti di solidarietà con la Palestina.
Mentre le istituzioni italiane hanno rafforzato le loro relazioni economiche, culturali e anche militari con Israele, riflettendo il loro sostegno acritico ed accondiscendenza anche verso i recenti attacchi contro cittadini italiani a Roma, l’opinione pubblica si è ancora una volta mobilitata. 
La strada da percorrere è ancora lunga. Ma il ruolo che una nuova generazione di palestinesi in esilio sta giocando all’interno della società italiana, per quanto ancora in nuce, sta apportando nuovo vigore allo scenario politico pro-palestinese.
Con i giovani finalmente pronti ad assumersi la responsabilità della lotta nazionale palestinese in Italia, forse il futuro appare un po’ meno triste.

* La versione originale di questo paper è stata pubblicata da Jadaliyya, ed è disponibile qui. La traduzione dall’inglese è a cura di Cecilia Dalla Negra. La foto pubblicata è di Nasmia Mia Mallah. 

Note:
(1) La traduzione più simile del termine arabo al-Shatat è “diaspora”. Tuttavia l’uso di questo termine in riferimento al caso palestinese è inadeguato. Non definisce con precisione infatti lo status dei palestinesi, e oltretutto “sembra implicare un’accettazione che astrae il tema del diritto al ritorno. Qualificare quella palestinese come una ‘diaspora’ equivale ad eliminare il linguaggio necessario per cambiare la loro condizione” (Kudmani citato di Tareq Arrar, “Palestinians exiled in Europe”, in Al Majdal, Sping 2006, pp. 41-45). 
(2) Francesco Perfetti, “Mediterraneo e Medioriente nella Politica Estera Italiana,” La Comunità Internazionale Fasc. 2 (2011): 186.
(3) Antonio Varsori, Europeismo e mediterraneità nella politica estera italiana, in Il Mediterraneo nella politica estera italiana del dopoguerra, ed. Massimo De Leonardis, (Bologna: Il Mulino, 2003), 27-28.
(4) Pietro Pastorelli, Il ritorno dell’Italia nell’Occidente. Racconto della Politica Estera Italiana dal Settembre 1947 al Novembre 1949, (Milano: LED, 2009), 237-319
(5) Perfetti, “Medioriente nella Politica Estera Italiana".
(6) Perfetti, “Medioriente nella Politica Estera Italiana".
(7) Luca Riccardi, Il “problema Israele”. Diplomazia italiana e Pci di fronte allo stato ebraico (1948 – 1973), (Milano: Guerini Studio) 2006.
(8) Sulla guerra dei Sei Giorni e la diplomazia italiana si veda per esempio Daniele Caviglia e Massimiliano Cricco, La diplomazia italiana e gli equilibri mediterranei. La politica mediorientale dell’Italia dalla Guerra dei Sei Giorni al conflitto dello Yom Kippur (1967-1973), Soveria Mannelli, 2006,
(9) Francesco Perfetti, "Mediterraneo e Medio Oriente nella Politica Estera italiana”, La Comunità Internazionale, Fasc.. 2 2011, pp. 185-202; Palestine International Institute The Palestinian Community In Italy (Palestine International Institute), 2008.
(10) Perfetti, “Medioriente nella Politica Estera Italiana”.
(11) Si veda per esempio Eric Salerno, Mossad base Italia. Le azioni, gli intrighi, le verità nascoste (Milano: Il Saggiatore), 2010.
(12) Jamil Hilal, "The Challenge Ahead”, Journal of Palestine Studies, Vol. 23, No. 1 (Autumn, 1993), pp. 46-60.
(13) Alain Gresh, “The Palestinian Dream On”, Le Monde Diplomatique, 149, Paris, Jul/Sept 1998.

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