La tregua tra Israele e Hamas, all’ombra del califfato




di Lucio Caracciolo
RUBRICA IL PUNTO Il movimento islamista esce vittorioso ai punti dalla guerra di Gaza, che è solo un atto della tragedia regionale. Netanyahu non ha raggiunto i suoi obiettivi, mentre gli Usa si smarcano. La chiave è il negoziato con l'Iran.

La guerra tra Israele e Hamas a Gaza, nel contesto


[Carta di Laura Canali, per ingrandire clicca qui]
È presto per stabilire se la tregua “a tempo indeterminato” fra israeliani e palestinesi mediata dall’Egitto, entrata formalmente in vigore alle 19 di ieri, abbia davvero terminato questo round del conflitto per Gaza.


Se così fosse, sarebbe un risultato importante dal punto di vista umanitario, ma solo un intermezzo sotto il profilo strategico.


Dopo cinquanta giorni di lanci di razzi palestinesi (3.700 circa) e raid aerei israeliani (4.870), oltre a qualche limitata incursione di Tsahal nella Striscia, per un bilancio di 2.138 morti fra i palestinesi (di cui il 70% civili, secondo stime Onu) e 67 fra gli israeliani (64 militari e 3 civili), è comunque possibile tracciare un provvisorio bilancio della terza guerra di Gaza.


Non si è trattato dell’ennesimo, periodico scontro israelo-palestinese, ma di un atto della vasta tragedia che sta incendiando Nordafrica, Levante e Medio Oriente, dalla Libia all’Iraq passando per ciò che resta della Siria. Un conflitto regionale che vede schierati in singolare quanto stretta alleanza Israele e Arabia Saudita - con la sua costellazione di sceiccati sunniti del Golfo, cui si è aggiunto l’Egitto del generale al Sisi, mediatore non certo super partes - contro l’Iran e i suoi riferimenti nell’area, lungo l’asse che dalla Gaza di Hamas e della Jihad islamica passa per il Libano di Hezbollah, Damasco e il ridotto alauita in Siria, per sfociare a Baghdad e nel suo retroterra sciita in Mesopotamia.


Tutto nel contesto dell’accelerata liquefazione delle già labili strutture statuali nell’area, che ha fra l’altro favorito l’emergere del sedicente “califfato” islamico a cavallo della teorica frontiera fra Siria e Iraq.


Su questa scala, la nuova partita di Gaza, in sé minore, assume un senso più vasto.



Ad oggi, possiamo assegnare a Hamas una vittoria ai punti. Anzitutto perché il movimento islamista si è rafforzato in ambito palestinese, di fronte al sempre più pallido e stanco Abu Mazen. La leadership di Hamas, per quanto tutt’altro che unanime, può vantarsi di fronte alla sua gente di aver resistito alla pressione di Israele e di averne ottenuto qualche concessione. Il cessate-il-fuoco prevede infatti l’allentamento della morsa israeliana (ed egiziana) sulla Striscia, in modo da consentire il passaggio di aiuti umanitari e di avviarne la ricostruzione. Inoltre, lo spazio di mare entro cui ai palestinesi è abilitata la pesca dovrebbe estendersi fino a sei miglia [carta].


Soprattutto, entro un mese ci si propone di affrontare, in un nuovo giro di trattative, la fondamentale questione del porto e dell’aeroporto, per riaprire Gaza al mondo. I negoziati al Cairo, sia pure indiretti, hanno confermato che Gerusalemme, quando costretta, è pronta a trattare con Hamas. Giacché non lo può annientare.


Per le ragioni uguali e contrarie Israele esce perdente da questa fase. Costretto a uno sforzo prolungato, nel quale ha subito perdite non indifferenti, lo Stato ebraico non è riuscito a raggiungere gli obiettivi proclamati. Il sistema di tunnel palestinesi non è stato annientato e le scorte di razzi disponibili a Gaza si sono rivelate più consistenti del previsto - saranno comunque rapidamente rinnovate dall’Iran.


Più in generale, la questione palestinese, che Netanyahu continua a considerare non strategica, solo un cronico fastidio - dato che di Palestina sovrana il premier non intende discutere - acquista valore nel nuovo contesto regionale, se non altro grazie alle manipolazioni iraniane. Il governo israeliano è scosso dalle polemiche intestine. La destra radicale ha puntato l’indice contro la mollezza di Netanyahu, senza peraltro indicare una strategia alternativa (la rioccupazione di Gaza non può essere spacciata per tale).


In prospettiva, l’aspetto che dovrebbe maggiormente preoccupare gli israeliani è lo smarcamento degli Stati Uniti. Obama ha adottato un profilo molto basso in questa crisi. Ad accentuare il suo disimpegno dal Medio Oriente, nelle cui dispute intende farsi coinvolgere il meno possibile. I rapporti fra Gerusalemme e Washington non sono mai stati peggiori dai tempi di Eisenhower.


Mentre attorno allo Stato ebraico nulla è più tranquillo, e il paradossale alleato saudita è alle prese con una difficile successione al trono gestita da una real casa senile e autoreferenziale, il rischio per Netanyahu è che la mala gestione della partita di Gaza, superficialmente trattata da vicenda tattica, locale, avvicini lo spettro di un compromesso fra Stati Uniti e Iran.


Capace, quello sì, di stravolgere la carta geopolitica del Medio Oriente e il mercato energetico globale. Ne siamo ancora lontani. E Obama, nell’ostentato nichilismo degli ultimi mesi, sembra incapace di scelte davvero strategiche. Ma quando questioni di tanto momento non sono governate da nessuno, ogni risultato è possibile.


Soprattutto quello che non vorresti.


Per approfondire: Una certa idea d'Israele


Articolo originariamente pubblicato su la Repubblica il 27/8/2014

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