La nuova vita di Kufr Bi'rim di Chiara Cruciati
Ciò che resta del villaggio palestinese di Kufr Bi'rim, in Alta Galilea, Israele.
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Thomas si avvicina alla corda e suona la vecchia campana, una due tre volte. Il caffè è già pronto. Un lieve tepore, quasi primaverile, scalda le prime ore di una mattina di metà febbraio. Sono passati ormai sei mesi dal ritorno dei profughi a Kufr Bi’rim, villaggio palestinese raso al suolo dalle bombe dell’aviazione israeliana nel 1953.
Nell'estremo nord della Galilea, a tre chilometri dal confine con il Libano, gli ex abitanti di Kufr Bi’rim hanno trascorso gli ultimi 66 anni nel tentativo di tornare nelle proprie terre. Una battaglia che non si è mai fermata, legando con un filo invisibile le tante generazioni che si sono susseguite. E che oggi siedono insieme nel cortile della chiesa della Vergine Maria: anziani che hanno vissuto l’espulsione dal villaggio, i loro figli che di Kufr Bi’rim hanno solo sentito parlare e i nipoti. Thomas è uno di loro: oggi è tornato a vivere tra le rovine del villaggio distrutto, insieme a centinaia di altri rifugiati.
Ci raccontano di Kufr Bi’rim, con una tazza di caffè arabo in mano. Poco più avanti Wassim spacca la legna per le stufe che scaldano le rigide notti invernali. La recente vita di Kufr Bi’rim, villaggio con alle spalle una storia di 300 anni, passato da feudo a comunità libera di contadini sotto l’impero ottomano, è cominciata nel novembre 1948. Sei mesi dopo la creazione dello Stato di Israele e la Nakba (la «catastrofe») palestinese, il neonato governo israeliano il 29 ottobre 1948 lancia l’operazione Hiram. Obiettivo, occupare i villaggi della Galilea del Nord. Massacri di civili e fosse comuni permettono alle quattro brigate dell’esercito israeliano di occupare in 60 ore l’intera area al confine con il Libano. Dei 60 mila palestinesi residenti all’epoca nei villaggi del distretto di Salfat, 45 mila vengono costretti a lasciare le proprie comunità e a rifugiarsi in Libano. Solo 15 mila restano nel territorio del neonato Stato israeliano.
Tra i villaggi presi di mira, c’è Kufr Bi’rim. Villaggio cristiano maronita, contava all’epoca una popolazione di 1.050 persone: «Il 29 ottobre 1948 le truppe israeliane entrarono nel villaggio – ci racconta Peter Ghantous, giovane attivista del villaggio –. Le truppe rimasero per qualche giorno e il 13 novembre convinsero la popolazione ad allontanarsi, dicendo loro che si sarebbe trattato solo di due settimane e che era necessario per garantire la loro sicurezza vista la possibilità di un attacco dal Libano. Gli abitanti si fidarono e lasciarono Kufr Bi’rim senza portarsi dietro nulla. Due settimane dopo, quando provarono a tornare, l’esercito glielo impedì. Da allora siamo diventati profughi: alcuni fuggirono in Libano, altri nel vicino villaggio di Jish, altri ancora ad Haifa e Akko. Oggi i discendenti degli sfollati del 1948 sono circa seimila, di cui tremila vivono all’estero».
«Ciò che rende questo villaggio speciale è l’incredibile forza di volontà dei suoi residenti – continua Peter –. Da subito misero in piedi una vera e propria campagna per il ritorno, fatta di appelli alla Corte Suprema israeliana, sit-in, manifestazioni di protesta. La prima petizione alla magistratura israeliana risale al 1949. La Corte Suprema rispose nel 1951, stabilendo il diritto dei profughi a tornare a Kufr Bi’rim vista la totale mancanza di ragioni legali per impedirne il ritorno. Una sentenza inaccettabile per il governo israeliano che ordinò il bombardamento del villaggio. Non avevamo più case dove tornare. Nello stesso periodo cominciava l’occupazione delle nostre terre: vennero costruiti tre kibbutz, ancora oggi presenti, e dieci anni dopo, nel 1965, l’area del villaggio venne dichiarata parco nazionale, sotto la gestione del Fondo nazionale ebraico (il Keren Kayemet LeYisrael, Kkl) e dell’Autorità per la terra».
La distruzione di Kufr Bi’rim e delle sue 250 abitazioni, della clinica, dei quattro quartieri rientra nel più ampio piano israeliano di trasferimento forzato della popolazione palestinese dal Nord di Israele: un programma adottato dall’ufficio del primo ministro già nel giugno 1948 e basato sul cosiddetto Smith Plan che prevedeva «un trasferimento retroattivo» della popolazione palestinese. Ovvero, una volta allontanati i residenti, i villaggi venivano rasi al suolo per impedire il ritorno dei profughi.
Camminiamo tra le rovine delle case di Kufr Bi’rim: tra i cespugli spuntano gli archi in pietra, i pozzi, le colonne, i gradini. Oggi del villaggio originario restano solo la chiesa e la scuola, divenuti il punto di riferimento della campagna Al Awda («Il ritorno»). Una campagna iniziata negli anni Ottanta, quando i rifugiati cominciarono a tornare a Kufr Bi’rim per celebrare insieme feste religiose e, ogni estate, per organizzare campi per bambini e giovani. Fino all’agosto 2013, quando, alla fine del campo estivo, i residenti di Kufr Bi’rim decisero di restare, senza più andarsene.
«Siamo rimasti. Abbiamo iniziato a lavorare con metodo: abbiamo istituito un comitato che gestisce i fondi, raccolti tra le famiglie originarie di Kufr Bi’rim e che organizza i turni per mantenere costante la presenza, soprattutto di notte – ci spiega Abu George, 60enne da sempre attivo per Kufr Bi’rim –. Abbiamo ristrutturato la scuola e la chiesa, costruito una piccola cucina e una stanza dove dormono i più giovani. Ci siamo divisi in quattro gruppi, ognuno responsabile di ripulire un quartiere di Kufr Bi’rim dalle sterpaglie. Festeggiamo ogni ricorrenza religiosa e ogni domenica diciamo messa nella chiesa della Vergine Maria. A Natale abbiamo addobbato il nostro albero e celebrato la messa qui e poi mangiato tutti insieme dentro la scuola. Siamo tanti, di ogni età».
La sera prima, appena arrivati a Kufr Bi’rim, eravamo stati accolti nella piccola calda stanza dei giovani. Quattro uomini controllavano la mappa catastale del villaggio, una bambina piccola imparava a tessere un braccialetto di spago, due giovani universitarie chiacchieravano tra loro. Tutte le generazioni sono tornate oggi a Kufr Bi’rim, intenzionate a sfidare l’ultimo ostacolo posto da Israele.
«Abbiamo ricevuto un ordine di evacuazione, emesso dal governo israeliano – continua Abu George –. Dicono che non possiamo restare perché si tratta di un parco nazionale e hanno indicato le strutture nuove sotto ordine di demolizione. Anche il nostro piccolo orticello è nella lista. Abbiamo già fatto appello alla Corte Suprema, ci vorranno almeno due anni prima che venga presa una decisione. Nel frattempo restiamo qua, l’importante è mantenere viva la presenza nel villaggio».
«Sai che c’è? Se la Corte stabilirà che dobbiamo andarcene, noi torneremo comunque». Yousef Issa, 80 anni, muove il bastone in aria, sotto gli occhi teneri della moglie. «Avevo 13 anni quando ci costrinsero con l’inganno a lasciare le nostre terre. La nostra era una vita così serena: lavoravamo la terra e allevavamo gli animali. Prima, al posto dei pini piantati dal Kkl, c’erano mandorli, ulivi, fichi. Abbiamo sofferto tanto in questi anni: arresti, demolizioni, umiliazioni. Non ce lo meritiamo, siamo un villaggio pacifico che vuole solo una cosa. Tornare».di Chiara Cruciati | 26 marzo 2014
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