Ida Dominijanni
Fu
durante un convegno sul quarantennale del Sessantotto, più di cinque
anni fa, che Margarethe Von Trotta mi anticipò che stava lavorando a un
film sulla vita di Hannah Arendt. Ardua scommessa, pensai e le risposi
provando a immaginare come si potesse restituire la complessità della
vita, del pensiero e della persona di Arendt in un film di due ore. Ma
Margarethe le scommesse, se non sono ardue, non le prende nemmeno in
considerazione; e fino a quel momento le aveva vinte tutte: con Anni di piombo (Leone d’oro a Venezia 1981), con Rosa Luxemburg (1986), con Rosenstrasse (20013).
Ha
vinto anche questa. Presentato al festival di Toronto del 2012, Hannah
Arendt (coproduzione Germania-Lussemburgo-Francia-Israele) è uscito nel
frattempo con acclamazione di critica e di pubblico negli Stati uniti
(uno dei dieci film migliori del 2013 secondo il New York Times) e in
tutta Europa salvo che in Italia, dove pare che le sale non ritengano
commestibile la storia di una ignota filosofa: un bel sintomo dello
stato dell’arte nel nostro paese. La distribuzione (Ripley’s film e Nexo
Digital) approfitta dunque della Giornata della memoria per mandarlo in
70 sale e 19 città il 27 e 28 febbraio prossimi, e della
ripubblicazione per Feltrinelli de La banalità del male per diffonderlo in formato digitale. Il resto lo faranno scuole, università e circuiti culturali interessati.
In
coppia con la cosceneggiatrice americana Pam Katz (ma sono donne anche
la produttrice Bettina Brokemper, la direttrice della fotografia
Caroline Champetier, la montatrice Bettina Böler), Von Trotta sceglie
gli anni fra il 1960 e il 1964 per condensare vita e pensiero di una
delle protagoniste assolute del Novecento. Reincarnata in una strepitosa
Barbara Sukowa, Hannah vive a New York dal 1941, dopo la fuga in
Francia dalla Germania di Hitler nel ’33, l’internamento nel campo di
detenzione di Gurs e l’esodo oltreoceano con la madre e il secondo
marito, Heinrich Blücher, il comunista tedesco autodidatta incontrato a
Parigi e sposato nel ’40.
Sfondando –
giustamente – il confine fra privato e pubblico che Arendt mantenne come
un punto fermo della sua filosofia, il film restituisce assieme la
dimensione personale e politica di Hannah, le amicizie e l’insegnamento,
gli amori e il pensiero, incastonati fra la decisione di andare a
Gerusalemme per seguire il processo a Eichmann e il discorso tagliente
tenuto alla New School per rispondere agli attacchi suscitati dal suo
reportage del processo sul New Yorker, con le tesi esplosive
sulla ”banalità del male” perpetrato da Eichmann nonché sulla
”cooperazione” dei vertici della comunità ebraica tedesca con le
deportazioni.
Esplosive allora e dopo
(Von Trotta: «io stessa ho potuto recepirle appieno solo dopo la caduta
del Muro di Berlino»), perché insopportabili tanto per la cultura
antinazista, rassicurata dall’idea della mostruosità eccezionale di quel
male di cui Arendt svelava invece la banale normalità, tanto per la
comunità ebraica, rassicurata dalla certezza dell’innocenza assoluta
delle vittime. Non solo la comunità intellettuale newyorkese ma tutto il
mondo affettivo di Hannah ne resta terremotato: i colleghi che la
invitano a dimettersi dall’insegnamento, gli amici ebrei che le voltano
le spalle, Hans Jonas, il più antico fra loro, che l’accusa di far
prevalere in lei l’arroganza dell’intelligenza tedesca sulle radici
ebraiche.
È il nocciolo
anti-identitario e ”non allineato” del pensiero di Arendt che ci convoca
e ci parla tutt’ora, ogni giorno e in ogni circostanza in cui la
certezza dell’appartenenza va a discapito della comprensione dei fatti.
Così come tutt’ora ci parla la battaglia di Hannah per non rinunciare
alla pubblicazione del suo reportage sul New Yorker: allora come
oggi, c’è sempre un caporedattore o una caporedattrice zelante (per
inciso, uno dei personaggi più vivi del film) che ti dice che pensi
troppo liberamente per vendere, o che sei troppo filosofa per fare del
buon giornalismo.
C’è nel film questo
nocciolo, che si forma nella testa di Hannah durante il processo al
criminale nazista che «siede nella gabbia di vetro come un fantasma e
non è per niente terribile»; ma non c’è solo questo. C’è l’amicizia di
Hannah con Mary Mc Carthy (Janet McTeer) e Lotte Köhler (fonte diretta
della sceneggiatura), quell’amicizia femminile che fu un filo d’acciaio
della «non femminista» Arendt ed è un filo d’acciaio della filmografia
di Von Trotta, da Sorelle a Anni di piombo a Rosenstrasse.
C’è il controverso rapporto d’amore fra Hannah e il suo maestro Martin
Heidegger, una sorta di passato che non passa e che non cessa di
tornare, fra la gratitudine e l’incubo, nei ricordi e nel sonno,
irrinunciabile malgrado e contro l’adesione di Heidegger al nazismo.
C’è,
ancor più irrinunciabile, il rapporto con la lingua materna, che
s’impone negli esuli contro l’inglese ogni volta che c’è da discutere di
qualcosa in cui ne va di se stessi (il film alterna infatti le due
lingue, e per fortuna non sarà doppiato in italiano). C’è infine e
soprattutto, come ha notato il NYT, non solo il pensiero ma il pensare
di Arendt, quella sua peculiare capacità di fare la spola fra i fatti e
la teoria, fra l’evento e il concetto, che ne ha fatto la grandezza e
che Barbara Sukova lascia srotolare fra una sigaretta e l’altra, fra una
nottata alla macchina da scrivere e un riposino diurno sul divano, vita activa senza soste e missione senza tempo.
Erano
i favolosi anni Sessanta, quando a New York si poteva ancora fumare
perfino in un’aula della New School, e chissà se pure per questo il
pensiero volava più libero.
http://www.alfabeta2.it/?p=5994
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