P. Neuhaus: «In Sud Africa, ho imparato a resistere all’ingiustizia»



davidneuhaus2GERUSALEMME – Gesuita di nazionalità israeliana, vicario del Patriarcato di Gerusalemme per la comunità ebraica e per i migranti, padre David Neuhaus, 51 anni, è cresciuto in Sud Africa e invita oggi alla riconciliazione tra israeliani e palestinesi. Intervista sul giornale La Croix.
Pur essendo al tempo stesso di origine ebraica e vivendo nell’ambiente israeliano, lei è molto impegnato a favore dei palestinesi. E’ stato influenzato dalla sua infanzia in Sud Africa?
P. David Neuhaus: Sono stato preparato, non c’è dubbio. Durante la mia adolescenza, nel 1970, Nelson Mandela era ancora in prigione. Era vietato di parlare con lui. Nella mia famiglia, si parlava di lui a voce bassa. E’ stato soprattutto al momento del suo rilascio che abbiamo scoperto la grandezza di questo uomo. La mia famiglia, di origine ebrea tedesca, che fuggì il nazismo e si stabilì in Sud Africa, era assai coinvolta nella lotta contro l’apartheid. Mia madre si rifiutò di prendere a suo servizio persone di colore. La mia scuola, una scuola privata ebraica, era anche un luogo di resistenza contro il sistema. Mi ricordo, allor quando abbiamo dovuto compilare un modulo per lo Stato – nome, cognome, razza, colore, «bianco», «nero» o «mulatto» -, il nostro insegnante ci ha detto di scrivere semplicemente «umano».
È stato il contesto sudafricano che ha portato i suoi genitori a mandarLa in Israele per proseguire gli studi, all’età di 15 anni?
P.D.N.: Sì. Nel 1976, centinaia di scolari e studenti neri furono uccisi durante una manifestazione. Un po’ di tempo dopo, nel 1977, l’attivista nero Steve Biko veniva assassinato. I miei genitori hanno poi considerato che non ci sarebbe stato futuro per questo paese.
Lei stesso è stato imprigionato a causa delle vostre convinzioni…
P.D.N.: Al momento di fare il servizio militare in Israele, ho rifiutato di prendere le armi contro uomini e donne che hanno lo stesso diritto che ho io di vivere in questa terra. E come obiettore di coscienza, sono stato detenuto per diverse settimane in un carcere militare. Era il 1988. Mandela era ancora imprigionato. Ma di fronte a uomini come lui, che si sono sacrificati per tanti anni in carcere dietro le sbarre in nome delle loro convinzioni, il prezzo che ho pagato io è minimo… Detto questo, sono convinto che la mia eredità sudafricana ha fortemente influenzato la mia scelta qui in Israele e, più che le mie scelte, la sensibilità all’ingiustizia, e l’imperativo a resistere.
Diversi incontri sono stati inoltre determinanti al mio arrivo: innanzitutto la mia conversione a Cristo, e circa nello stesso tempo, il mio incontro con una religiosa palestinese e un giovane palestinese che sarebbe diventato il mio migliore amico. Sapevo l’ebraico, e ho cominciato a imparare l’arabo, e a seguire le vicende di questa famiglia che è diventata la mia seconda famiglia, e a comprendere che qui esiste un’altra versione dei fatti, di cui non avevo mai sentito parlare. Così, quando ho dovuto fare il servizio militare, mi era impossibile immaginare di prendere le armi contro i miei amici.
Ci sono dei legami, secondo lei, voi tra apartheid e quello che si vive in Israele?
P.D.N.: Non mi piace applicare una terminologia che può essere giusta per un paese ad un altro: dal mio punto di vista è pigrizia intellettuale. Il legame che io sempre provo a stabilire è questo: in Sud Africa, tutto sembrava completamente nero, eppure l’orizzonte si è aperto. Attualmente in Israele, la situazione sembra senza speranza, ma dico sempre che Dio può aprire le porte, lui che ha mandato in Sud Africa un certo Mandela… l’apartheid è stato sconfitto e la mia più grande speranza è che anche noi saremo capaci di superare il conflitto tra israeliani e palestinesi.
Che cosa di Nelson Mandela ispira il suo lavoro?
P.D.N.: Il linguaggio della riconciliazione che ha usato formulare, senza alcuna traccia di vendetta, nonostante quello che lui e il suo popolo hanno sofferto. Ma abbiamo bisogno di rendersi conto a quale punto il nostro linguaggio qui è impregnato di disprezzo per l’altro, da entrambe le parti. Cambiare questo discorso è per me la prima condizione per un vero dialogo, senza il quale rimarrà superficiale e non porterà da nessuna parte. Il sogno di Nelson Mandela fu quello di un Sud Africa, dove non si guarda più all’uomo in base al suo colore della pelle. La mia speranza è quella di convincere la popolazione di questa terra a non giudicare un uomo dal fatto che è musulmano, ebreo, israeliano o palestinese. Mandela ha potuto vedere nella sua vita realizzato il suo sogno. Speriamo che anche noi…
Il muro di separazione tra israeliani e palestinesi è quello che c’è stato tra neri e bianchi… È vostro dovere superarlo?
P.D.N.: Questo non è un dovere, ma un privilegio: in tanto come un uomo di Chiesa, io ho la possibilità di attraversare le barriere. Le lacerazioni fanno parte della nostra realtà. Ma i cristiani devono agire come se queste barriere non esistessero. Sto lavorando a tempo pieno nella società israeliana, come nella società palestinese – io insegno Sacra Scrittura al Seminario di Beit Jala. Io attraverso questo strappo, ogni volta, ma mi sento totalmente integro. E’ il ruolo della Chiesa di essere con, e non di essere contro. Essere contro la menzogna, contro l’ingiustizia, il razzismo, l’antisemitismo, e parlare un linguaggio di rispetto per tutti.
Intervista di Celine Hoyeau


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