Paola Caridi: la Terra Santa attende uomini nuovi

Il nuovo libro di Paola Caridi.


Nel suo nuovo libro, "Gerusalemme senza Dio", Paola Caridi racconta la città santa a tre religioni fuori dagli stereotipi. E...
21 ottobre 2013
Paola Caridi.
Ci ha vissuto per dieci anni, giornalista appassionata e curiosa, tra le migliori nel nostro mestiere, perché mai contenta di studiare e di conoscere i libri, i luoghi e le persone. Paola Caridi ha scritto di Medio Oriente e dei suoi popoli, degli uomini del bene e di quelli del male, e ha cercato di scogliere i nodi dei quell’intreccio, spesso feroce e funesto, che da quelle parti stringe mito e realtà in un orizzonte evanescente, dove tutto si perde.

Gerusalemme è il centro del mito e dei rimpianti per gli uomini, la politica, le religioni e la fede. Adesso che ha lasciato la città Paola Caridi ha messo in fila quello che ha imparato e quello che ha pensato in un libro magnifico, che colpisce per la sua provocazione benigna, che solo chi mastica parole e cammina per strade con gli occhi fissi nei volti delle persone sa proporre. Si intitola Gerusalemme senza Dio, ritratto di una città crudele (Feltrinelli, pag. 202, 16 euro). Dovrebbero leggerlo tutti quelli che ci vanno, ci sono stati o ci andranno.

- Paola Caridi, devi spiegarci: che vuol dire senza Dio? Proprio a Gerusalemme dove le fedi e i tanti Dio sono spalmati su ogni pietra e su ogni tensione?
“Non è una provocazione. Alla fine è la realtà. Perché bisogna vedere se l’uomo rispecchia Dio o piuttosto il Dio declinato in vari modi nasconde l’umanità di Gerusalemme, fa sparire i suoi abitanti e uccide se stesso”.

- Cosa significa vivere a Gerusalemme?
“Aspettare, fare i turni di guardi, vedere passare anni in attesa che accada qualcosa, che ancora non è successo e possa cambiare la storia. Come il tenente Drogo alla Fortezza Bastiani nel Deserto dei Tartari di Dino Buzzati. Non è uno scherzo vivere a Gerusalemme e nel libro ho cercato di raccontarlo”.

- Si aspetta la pace?
“Anche, e ogni volta si pensa che sia la volta buona”

- Adesso può essere la volta buona? Abu Mazen, il leader palestinese pochi giorni fa uscendo dall’udienza con papa Francesco ha mostrato la penna regalo del Papa con la quale spera di firmare la pace.
“Non credo. Ho visto troppo non della pace, ma dell’uso della parola pace. Tutte le guerre finiscono e forse è finita anche quella tra israeliani e palestinesi, ma la pace ancora non c’è. E il problema sono gli uomini, quelli di buona volontà. Non credo che ci siano nelle attuali leadership politiche, né credo alla retorica dei popoli che sono sempre migliori di chi li guida e quindi prima o poi le cose cambieranno. Oggi la situazione è bloccata, c’è uno status quo, che può durare anche per un tempo indeterminato, ma che non porta né pace, né pacificazione, né giustizia”.

- E la soluzione dei due Stati?
“Non ci credo più e non ci crede ormai nessuno. Tutti concordano sulla morte per agonia del processo di Oslo, dopo vent’anni. Se quella era la soluzione doveva essere implementata subito. Invece a Oslo è stato fissato un recinto per la pace, tanto affascinante quanto irrealizzabile”.
                                                                
- E dunque?
“Paradossalmente la morte del processo di Oslo apre la strada a nuova riflessione. Si è rimosso l’impedimento principale e ora ci sono intellettuali che stanno pensando insieme su come condividere una terra che non può essere divisa. Qui sta il problema: la terra prima che i due Stati. E oggi, per la prima volta, non si stanno preparando due documenti paralleli, uno degli israeliani e l’altro dei palestinesi, ma un documento condiviso sulla terra comune, forse potremmo dire, con un po’ di rischio, sulla terra promessa. Ad entrambi”.

- Ma poi bisogna tradurre tutto in politica e in diplomazia.
“Vero e occorrono uomini forti, cioè saldi dal punto di vista etico e morale. Uomini buoni. E qui Gerusalemme aiuta, perché è ancora il laboratorio di idee singolari e innovative su sovranità, cittadinanza, identità nazionale e sul senso di condivisione della stessa terra, che negli uomini di dirittura morale va oltre in senso e il limite della frontiera, di ciò che è mio e di ciò che è tuo. A Gerusalemme si sta pensando e questo è, soprattutto per chi ci ha vissuto, un segno di grande speranza. Ma sono persone lontane dall’establishment e anche da quella sorta di industria della pace, che ha disegnato negli ultimi vent’anni il nostro rigido immaginario collettivo sul Medio Oriente”.

- Tu, però, la descrivi come città crudele e io sono d’accordo, ma ciò non significa che sia cattiva.
“Condivido. La crudeltà di Gerusalemme sta nei muri invisibili, quando si sa che Gerusalemme mai potrà essere divisa. Ogni giorno, nelle sue strade, la vita quotidiana lo dice. Per questo da tremila anni Gerusalemme è un laboratorio di ogni sorta di idee. E qualcuna vincerà, prima o poi. E’ la convivenza che, come un goccia sulla roccia, a poco a poco buca la pietra della crudeltà di chi non riconosce all’altro dignità. E vale per tutti, israeliani e palestinesi in egual misura. Poi, certamente, vi sono stati periodi storici dove essa si è manifestata più da una parte che dall’altra”.

- In dieci anni a Gerusalemme c’è un episodio che ti è rimasto inchiodato nel cuore?
“No. C’è un esperienza e cioè tutte le volte che ho percorso la strada tra Gerusalemme e Gerico e sono passata davanti a quella che si chiama la Locanda del Buon Samaritano. Chi cammina su quella strada capisce che l’amore è l’elemento che può fare la differenza. Padre Michele Piccirillo, il grande archeologo di Terra Santa, il compagno di strada di chi ha cercato di capire Gerusalemme, morto nel 2008, non ha voluto essere seppellito a Gerusalemme, ma sul Monte Nebo in Giordania, da cui Mosè vide la Valle del Giordano. E’ una scelta che deve farci riflettere sul destino degli uomini di qui e anche sul processo di pace: Gerusalemme non è quello che abbiamo tentato finora di farla diventare. Resta Terra Promessa, in attesa di uomini nuovi”.
21 ottobre 2013
 
da Famiglia Cristiana : articolo

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