L'ultima opzione dei palestinesi - una lotta per la parità dei diritti
AlJazeera
23.06.2013
http://www.aljazeera.com/indepth/opinion/2013/06/20136236557920902.html
La situazione attuale non potrebbe essere la migliore per Israele e i suoi alleati: una leadership palestinese docile, che crea l’illusione di un’equivalenza tra occupante e occupato.
L’ultima opzione dei palestinesi – una lotta per la parità dei diritti.
I palestinesi devono lasciar perdere l’illusione dell’attuale processo di pace e premere almeno per diritti equi.
di Ghada Karmi
C’era
una volta, la Palestina era la causa unificante del mondo arabo.
Giustizia per i palestinesi era considerato un prerequisito fondamentale
per la stabilità e la pace della regione, ed era un’idea che aveva
avuto una risonanza mondiale. Oggi il quadro è diverso e la causa
palestinese è caduta dall’agenda politica fin dall’inizio della
primavera araba, il conflitto siriano e il successo di Israele nel
mettere il programma del nucleare iraniano al centro della scena.Questo mese, uno studio del Centro Arabo per la Ricerca e gli Studi di Politica conferma questo tracollo. Un sondaggio di oltre 20.000 intervistati in 14 paesi arabi ha rivelato un impegno diffuso non con la Palestina, ma con le rivoluzioni arabe e il loro futuro, con la Siria e la necessità di sistemi democratici di governo. Solo un terzo ha citato Israele come la più grande minaccia regionale, circa la stessa percentuale dell’Iran per coloro che vivono in Iraq e nel Golfo.
Questo
cambiamento giunge al colmo di una graduale perdita di unità tra i
palestinesi dovuta alla frammentazione della società palestinese in
quelli che sono sotto occupazione, divisi tra West Bank, Gaza e
Gerusalemme, quelli che stanno in Israele, nei campi profughi e il resto
in esilio. Ne è risultata una sempre maggiore sostituzione di obiettivi
locali a quello nazionale. Ad esempio nel mese di novembre 2012, e di
nuovo la settimana scorsa, nella West Bank sono scoppiate manifestazioni
contro i sacrifici economici. L’Autorità Palestinese ha un debito di
4,2 miliardi di dollari e un rapporto di marzo della Banca Mondiale ha
constatato un rallentamento dell’economia, con un basso livello delle
esportazioni e una disoccupazione di lunga durata; Gaza è isolata e
assediata e sopravvive in gran parte grazie a un’economia di
contrabbando attraverso i tunnel. In tali circostanze, non sorprende che
in cima alle priorità della gente ci debba essere come sfamare le
proprie famiglie e che, altrove, le comunità palestinesi abbiano
parimenti sviluppato le loro particolari priorità locali.
Sarà
necessario che i palestinesi passino urgentemente all’azione se non
vogliono che la loro causa non sia sepolta definitivamente. Il fatto che
l’Occidente sia ancora impegnato nel tentativo di risolvere il
conflitto israelo-palestinese non è un motivo di ottimismo. Esso non
significa un rilancio della centralità della causa palestinese, ma una
spinta per porre fine al conflitto a condizioni più favorevoli per
Israele. Gli Stati Uniti e l’Europa, con la recente aggiunta della Cina,
stanno facendo pressione per una ripresa dei colloqui di pace tra
Israele e i palestinesi. A tale scopo, il Segretario di Stato degli
Stati Uniti, John Kerry, ha visitato la regione una mezza dozzina di
volte e ha promesso 4 miliardi di dollari per incoraggiare l’AP. In
aprile, una delegazione araba si è recata a Washington per presentare un
piano di pace arabo riveduto che offriva a Israele uno scambio di
territori con i palestinesi, nella speranza di coinvolgerlo nei colloqui
di pace. Più di recente, la Svezia, allo stesso fine, ha deciso di
punire i palestinesi per il fallimento dei negoziati con Israele
riducendo forse il sostegno loro concesso di 200 milioni di corone (30
milioni di dollari).
Ciò
per cui queste parti fanno pressione è la soluzione a due Stati che per
decenni ha dominato il dibattito politico e non è mai stata realizzata,
neppure parzialmente. Tuttavia, l’opinione internazionale ritiene che
questa soluzione rappresenti ancora l’unica strada percorribile. Eppure,
uno sguardo alla mappa mostrerebbe che non è possibile.
Attualmente,
nella West Bank e a Gerusalemme Est ci sono circa 500.000 coloni ebrei
che vivono in più di 130 insediamenti sparsi dappertutto in queste aree.
A Gerusalemme, molti gruppi di coloni si sono infiltrati nella Città
Vecchia e nei quartieri arabi rimasti non ancora occupati da Israele.
Per giugno, sono in progetto un altro migliaio di abitazioni per coloni.
Gaza, parte essenziale per un qualsiasi futuro Stato palestinese, è
assediata e separata dalla West Bank ed è retta da un governo di Hamas,
scisso da un’AP dominata nella West Bank da Fatah ed è probabile che
resti così.
Improbabile soluzione a due Stati
Dal momento che la realtà sul terreno preclude una soluzione a due Stati, come previsto dal piano di pace arabo, uno Stato palestinese sui territori del 1967 con Gerusalemme Est come sua capitale – qual è il fondamento per continuare a spingere per questa soluzione? Può essere solo che il piano reale sia una variazione che meglio si faccia il gioco di Israele. Questo gli permetterebbe di mantenere l’Area C, il 62 % della West Bank, come più volte auspicato dal ministro del commercio di Israele, Naftalie Bennett, lasciando uno “Stato” palestinese di enclave nella West Bank, separate dal territorio preso dagli israeliani, al quale Gaza potrebbe essere forse connessa.Dal momento che queste enclave nella West Bank non potrebbero sopravvivere per conto proprio, i loro legami economici e sociali e il loro accesso al mondo esterno sarebbero con la Giordania. Lo sviluppo di Gaza sarebbe verso l’Egitto, come Israele ha sempre voluto, e Gerusalemme rimarrebbe sotto il controllo totale di Israele. Molti rapporti hanno fatto riferimento a idee di questo genere, respinte con vigore dalla Giordania e dall’Egitto. Ma si deve presumere che gli Stati Uniti premano per una soluzione che tranquillizzi Israele e offra tuttavia qualcosa ai palestinesi, sperando così di concludere una volta per tutte la questione palestinese. Nessun altro scambio di territori è possibile se le colonie israeliane restano e non viene esercitata alcuna pressione per costringere Israele a rimuoverle.
La paura che hanno molti palestinesi è che la loro leadership, attualmente non eletta e non rappresentativa, e che sospettano desideri soltanto rimanere al potere qualsiasi sia il costo per la causa nazionale, potrebbe acconsentire a una versione di tal genere del piano qualunque sia la sua enunciazione patriottica. In tali circostanze, i palestinesi devono rendersi conto che il tempo non è dalla loro parte e il non far nulla di fronte a queste trame non è per loro un’alternativa possibile. La situazione attuale non potrebbe essere migliore per Israele e i suoi alleati: una leadership palestinese docile, che crea l’illusione di equivalenza tra occupante e occupato, solleva Israele dalle sue responsabilità legali come potenza occupante; un processo di pace senza fine che dà copertura alla colonizzazione israeliana; la passività internazionale; e un popolo palestinese frammentato incapace di resistere. In questo assetto, esso è il grande perdente e deve essere quello che lo fa cadere. Che cosa dovrebbe fare?
Uno stato di apartheid
Israele/Palestina oggi è uno Stato. Ma uno Stato di apartheid che discrimina i non ebrei a favore degli ebrei. Ora, il compito palestinese è quello di combattere contro questo apartheid e promuovere una lotta, non per uno Stato palestinese impossibile, ma per uguali diritti sotto il governo israeliano. Sarebbe necessario smantellare l’Autorità Palestinese, che al momento è solo un ostacolo che maschera la situazione vera, e poi confrontarsi direttamente con Israele, il suo attuale governante. In quanto popolo apolide sotto occupazione militare, deve esigere una parità di diritti civili e politici con i cittadini israeliani e, se necessario, fare richiesta della cittadinanza israeliana. Ciò mette Israele nell’obbligo di rispondere: o ignorare i cinque milioni di palestinesi che governa, o lasciare libera la loro terra, o garantire loro uguaglianza di diritti.
Israele respingerà tutte e tre le opzioni, ma qualsiasi cosa farà sarà contro il suo interesse. E, con un sol colpo, i palestinesi avranno spezzato il dominio egemonico di Israele sul dibattito politico e cambiate le regole del gioco funesto che viene giocato contro di loro.
Questa strategia non sarà popolare tra i palestinesi, né vorranno diventare cittadini israeliani di seconda classe, ma la loro vita sotto occupazione è forse migliore? E date le attuali condizioni, ci sono altre alternative? Direi che con l’adozione di questo piano, non perderanno nulla se non le loro illusioni, e in questo grave frangente della storia palestinese può essere l’unico modo per evitare l’annichilamento della loro causa. Sarà una strada difficile, ma la sola occasione per costruire uno Stato democratico che si sostituisca all’Israele dell’apartheid e renda, infine, possibile il ritorno dei profughi nella loro patria ancestrale.
Ghada Karmi è autrice del libro “Sposata con un altro uomo: il dilemma di Israele in Palestina”
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