Kafka si è fermato a Hebron di Manuel Disegni


 


Hebron è il maggiore centro urbano della West Bank nonché una delle città più antiche del Medio Oriente. Si tratta di una località venerata sia dagli ebrei che dai musulmani in quanto, secondo la tradizione biblica, vi sono sepolti i corpi dei patriarchi e delle matriarche. Le spoglie di Abramo, progenitore di tutti i monoteismi e padre di Ismaele e di Isacco, non hanno tuttavia reso Hebron un luogo simbolo della fratellanza dei popoli che da lui discendono. La lunga storia di convivenza arabo-ebraica che la città ha alle sue spalle è infatti segnata da capitoli sanguinosi che vivono ancora nella memoria dei suoi abitanti.
Oggi a Hebron abitano oltre 200.000 palestinesi e, nel quartiere più antico e centrale, a presidiare il sepolcro dei patriarchi, 800 ebrei. La zona è completamente militarizzata, inaccessibile ai palestinesi. È forse qui che si può vedere la separazione etnica nella sua forma più cruda. Riportando qui alcuni momenti della nostra visita non vogliamo offrire al lettore un’immagine che rispecchia fedelmente la complessa situazione generale dei territori palestinesi, quanto piuttosto la descrizione di un apice di violenza raggiunta nel contesto dell’occupazione di quella regione. Una situazione invero eccezionale, non nella norma, un caso limite che va inteso come monito relativo alle potenziali degenerazioni di quella situazione, non come una sua descrizione esaustiva.
Appena arriviamo in città e scendiamo dall’autobus un giovane cerca di avvicinarci, vuole parlarci: “Non puoi scendere dal marciapiede”, gli dice un soldato. “Va bene, sto qui, qui va bene?”, polemizza il giovane esasperato, e poi, rivolgendosi alla nostra comitiva, non riesco a capire con quanto sarcasmo: “benvenuti in Palestina”. Un bambino sui cinque, sei anni prende la situazione più sul ridere e, quasi canzonatorio, si diverte a far ammattire un soldato saltellando su è giù dal marciapiede. I più grandi lo guardano preoccupati (anche un po’ ammirati) e gli dicono di smetterla.
A Hebron ci sono sbarramenti a ogni angolo. Ne ho attraversato uno per andare a parlare con Mohammed, un quindicenne che sa bene l’inglese e vuole vendermi dei bracciali. Per poter passare devo negare, al soldato che me lo chiede, di essere ebreo; non è previsto che gli ebrei vadano sul lato della strada palestinese (grazie alle carreggiate preferenziali non hanno problemi di mobilità). “Sai che quel che hai appena fatto tu io non l’ho mai potuto fare?”, mi dice Mohammed. “Vivo in questa strada da quando sono nato e non l’ho mai potuta attraversare”.
Anche a Katie è concesso passare da una parte all’altra: è una studentessa tedesca di vent’anni, vive in Cisgiordania da un anno e da alcuni mesi a Hebron, indossa il velo. In quanto non palestinese le è concesso addentrarsi nella zona ebraica ma non lo fa volentieri: “Vengo regolarmente picchiata, soprattutto dalle donne. Mi lanciano uova, pietre, mi sputano, atterrano, tirano calci”. Come possono capitare cose del genere in uno dei quartieri più controllati del mondo? “I soldati non fanno niente, non possono intervenire, non hanno potere sui coloni, mi dicono di chiamare la polizia locale”. Quegli stessi soldati armati fino ai denti che mettono in fuga un bambino palestinese che ci avvicina in cerca di cibo non possono impedire che la giovane Katie venga malmenata.
Gli abitanti ebrei di Hebron esercitano nella più totale impunità il loro dominio. Con arroganza, sfrecciano per le strade insistendo sul clacson. Escogitano fantasiosi modi di esternare il loro disprezzo per gli altri (turisti compresi, senza neanche sapere che sono di JCall). Negli isolati contigui alla zona ebraica non può più abitare né lavorare nessuno, a meno che non voglia rischiare di beccarsi una pietra in testa. Tuttavia non hanno perso del tutto la pietas religiosa: si sono perfino dotati di metal detector speciali, che, per qualche ragione tecnica che ci sfugge, non violano lo Shabbat.
Cerco di parlare un po’ con i alcuni dei molti soldati che presidiano i blocchi e camminano per le strade. Sono tutti giovanissimi. Katie mi ha detto che sono appena arrivati, sono a Hebron da due giorni soltanto. “Il primo periodo, quando arriva una nuova squadra, è sempre il peggiore. Per i primi giorni i soldati sono più nervosi, credo anche un po’ impauriti, di conseguenza anche più rudi. Poi col tempo diventano più tranquilli e affabili, alcuni di loro sono molto gentili con me e si comportano sempre correttamente”. Di fronte alle mie domande sono generalmente molto schivi ma Daniel, ventun anni, è divertito dall’intervista e ha voglia di scambiare qualche parola. Gli chiedo le sue impressioni. Ride, non risponde, mi chiede cosa ne penso io: “è terribile, non trovi?”. Ride di nuovo, è in imbarazzo. “Sì, è vero, ma io non posso farci nulla, è complicato”.
Manuel Disegni

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