Hannah Arendt : il Film
Arendt - il film
di
Manuel Disegni
Non è
semplice fare un film biografico su un pensatore: occorre
guardarsi attentamente dal rischio di appiattire la personalità
sulle sue vicende private. A Margarethe von Trotta è riuscito,
va detto, quasi sempre bene. La regista tedesca e la sua attrice
preferita, Barbara Sukowa, chiudono con Hannah Arendt -
uscito in Germania all’inizio del 2013, presto anche nelle sale
italiane - una fortunata trilogia di ritratti femminili. Dopo
Rosa L. (Luxemburg), la rivoluzionaria spartachista, e
Vision - aus dem Leben der Hildegard von Bingen, la mistica
benedettina del XII secolo, la collaudata coppia del cinema
teutonico si è rivolta alla filosofa ebrea tedesca, fra i
maggiori pensatori politici del ventesimo secolo, il cui nome è
stato ritenuto sufficiente a titolare il film.
Hannah Arendt
non è una vera e propria biografia completa, si concentra
piuttosto sugli anni del processo ad Eichmann a Gerusalemme e
della stesura del libro La banalità del male (1961-1964).
Il film inizia con la notizia, data dal New York Times, della
cattura di Eichmann in Argentina da parte del Mossad e della
decisione di Ben Gurion - decisione oggetto, fra gli altri,
delle contestazioni arendtiane - di farlo processare da una
corte israeliana. Dal suo appartamento di Manhattan la
professoressa Arendt, intellettuale già affermata per Le
origini del totalitarismo, non ci pensa due volte. Vano ogni
tentativo degli amici e del marito di dissuaderla. Hannah alza
la cornetta, compone il numero della redazione di The New Yorker
e si fa passare il direttore William Shawn: “Direttore
buongiorno, il processo di Gerusalemme lo seguo io”. Come a
dire: “La questione è grossa, tenga pure i suoi cronisti a casa,
ghe pensi mi”. Ubi maior... Il New Yorker non può che accettare
la prestigiosa proposta di collaborazione. Arendt non è una
giornalista professionista - “dannati filosofi europei”,
commenta la redattrice capo - la sua puntualità non è affidabile
e la sua notoria propensione alla polemica, alla provocazione,
alla conflittualità rischiano di procurare grane serie a un
periodico di tale diffusione. Shawn tuttavia fiuta
l’opportunità, intuisce che si troverà fra le mani un documento
d’importanza storica e decide di fidarsi. Fa un buon affare:
pagherà, come previsto, uno scotto politico non indifferente,
disporrà degli articoli con ampio ritardo - “il pensiero vuole
il suo tempo” - ma avrà l’onore di pubblicare fra le sue colonne
una cronaca giudiziaria che oggi è considerata un grande
classico della riflessione filosofica sul male politico.
Allora invece fu accolto con accanita ostilità, suscitò reazioni
isteriche, un polverone di polemiche anche violente, rotture di
rapporti personali. La società benpensante americana,
l’accademia, le autorità israeliane, la comunità ebraica
americana e gli stessi amici di Hannah, un circolo di
intellettuali ebrei tedeschi emigrati a New York - realtà di cui
il film restituisce un’immagine interessante e viva - non erano
pronti ad accettare le tesi assai forti di Arendt. Tesi
inaudite. Due in particolare sono al centro del dibattito, o per
meglio dire, del tentativo di linciaggio intellettuale: la
banalità del male - ovvero Eichmann non è da considerarsi un
feroce antisemita, non mente quando al processo risponde:
“Eseguivo soltanto degli ordini”; è solo un uomo mediocre il
quale, inserito in un meccanismo burocratico moderno, ha perso o
rinunciato alla capacità di pensare, e per questo ha potuto
compiere siffatti crimini senza avvertirne la responsabilità -;
e il concorso degli Judenräte, i consigli ebraici, nella
responsabilità per la deportazione e la morte di una
imprecisabile ma rilevante percentuale delle vittime ebree.
Come
osa dire che Eichmann non era antisemita? Come osa accusare le
vittime? “Rinnegata, traditrice, nemica del suo popolo,
odiatrice d’Israele!” (interessante anche notare quanto poco si
siano evolute la retorica e le strategie comunicative della
destra sionista, lunga storia di una pertinace ottusità). La
personalità di Hannah si rivela proprio nel modo in cui affronta
la tempesta che segue la pubblicazione dei suoi reportage sul
New Yorker. Va a muso duro incontro alle critiche.
Nella
sua passione per la verità, come si dice nel film, ma ancor di
più nella difesa del suo lavoro filosofico, critico e
demitizzante, dello smascheramento delle ideologie, della
decostruzione di quegli stereotipi che si oppongono alla
comprensione reale della Shoah e delle strutture della società
che l’ha prodotta, Hannah trova la forza di condurre fino in
fondo la sua battaglia. È quasi da sola, la sostengono il marito
Heinrich Blücher, il direttore del New Yorker Shawn e la
scrittrice Mary McCarthy. Alcuni dei più cari e vecchi amici
(Hans Jonas, Kurt Blumenfeld) le tolgono addirittura il saluto.
Nonostante tutto non retrocede di un passo, continua a sostenere
le sue posizioni, consapevole della loro portata innovatrice ma
anche di quella provocatoria, senza cure diplomatiche di sorta.
Von
Trotta confeziona il ritratto di una personalità spigolosa,
capace di provare e coltivare grandi affetti ma anche di
rinunciarvi, arrogante, ovvero tenace non senza un pizzico di
presunzione, emotiva e inflessibile. È ironica, ha il Witz,
fuma in continuazione - anche a lezione secondo un accordo
contratto con gli studenti - e il suo inglese è segnato da un
forte accento tedesco. Ottima l’interpretazione di Barbara
Sukowa.
Manuel Disegni
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