Da Obama il discorso della verità su Israele e Palestina

di Umberto De Giovannangeli
Durante la visita in Israele e nei Territori Occupati, il presidente Usa ha definito giusta e necessaria la pace. Perché Israele rimanga uno Stato ebraico serve che nasca una Palestina libera. Le parole di Barack non basteranno a rompere lo status quo.



[Carta di Laura Canali]
Se le parole potessero smuovere le montagne, non c’è dubbio che quelle proferite da Barack Obama nella sua prima visita presidenziale in Israele e nei Territori palestinesi rappresenterebbero una possente leva per rimuovere quella fatta di diffidenza, ostilità, assenza di coraggio politico, velleità espansionistiche e avidità di potere che ostruisce il cammino di pace israelo-palestinese.

Di certo, il “discorso delle verità” pronunciato dal capo di Stato Usa davanti a 3 mila giovani israeliani assiepati nel Jerusalem Convention Center è uno dei più alti tra quelli della sua presidenza. Alto perché politicamente non reticente e percorso da un concetto di fondo che ha una valenza storico-politica dirompente.

La pace, rimarca Obama, non è una concessione, per quanto nobile, che Israele fa ai palestinesi. È ben altra cosa: è l’unico modo che Israele ha per preservare i due pilastri su cui si basano la sua identità nazionale e i suoi caratteri statuali: il pilastro della democrazia e quello dell’ebraicità.

La pace, ricorda Obama, non è solo cosa giusta, è cosa necessaria. È necessaria, perché “visto l’andamento demografico a ovest del Giordano, l’unico modo in cui Israele può resistere in quanto Stato ebraico e democratico è dato dalla realizzazione di una Palestina indipendente”.

È quanto sostenuto dall’Israele del dialogo; è quanto osteggiato, in termini concettuali prim’ancora che nelle ricadute politiche, dall’Israele ultranazionalista, chiusa nelle sue paure e nell’illusione di poter perpetuare l’attuale status quo. Quando ci sarà (se ci sarà) la pace in Terrasanta, non sarà la pace dei romantici, ma quella dei generali. Un matrimonio d’interessi, non un amore sbocciato con decenni di ritardo.

Non a caso, nel suo discorso più impegnativo, il presidente Usa cita Ariel Sharon, il quale ammonì che, ostinandosi a occupare i territori palestinesi, “Israele rischia di perdere la sua stessa democrazia”.

La pace è giusta, dice ancora Obama, introducendo nell’arena politica il principio di “giustizia”. “Mettetevi nei loro panni - afferma il presidente rivolto ai giovani israeliani - guardate il mondo attraverso i loro occhi: non è giusto che una bambina palestinese non possa crescere in un proprio Stato e debba convivere con un esercito straniero che ogni singolo giorno controlla i movimenti dei suoi genitori”.

E ancora: “Non è giusto che la violenza dei coloni contro i palestinesi rimanga impunita. Non è giusto impedire ai palestinesi di coltivare le proprie terre; limitare la possibilità di uno studente di spostarsi all’interno della Cisgiordania, o allontanare le famiglie palestinesi dalle loro case. La risposta non sta nell’occupazione, né nell’espulsione. Così come gli israeliani hanno costruito un loro Stato nella loro patria, i palestinesi hanno il diritto di essere un popolo libero nella propria terra”.

Obama sa bene che la traduzione di queste affermazioni in strategia politica si scontra con un governo israeliano dove pesa la destra nazionalista, laica ma non per questo meglio disposta ad ascoltare le ragioni dell’altro da sé.

Così come pesano le divisioni in campo palestinese, la debolezza della leadership di Abu Mazen e la volontà di vecchi e nuovi attori mediorientali di continuare a usare la questione palestinese per i propri interessi di potenza (dalla Turchia all’Egitto, dal Qatar all’Iran, passando per l’Arabia Saudita). Che proprio nulla hanno a che fare con quella pace “giusta” e “necessaria” evocata da Obama.

Le parole, certo, non fermano da sole le ruspe israeliane, che danno attuazione ai piani di colonizzazione portati avanti da Israele (nel 2012, il 17% in più di insediamenti, record dal 1967). Le parole, certo, non riaccendono da sole la speranza tra la gente palestinese che, non poteva essere altrimenti, ha accolto con freddezza la visita a Ramallah del presidente americano.

La pace ha bisogno di atti concreti, sia pur non risolutivi; di accordi interinali capaci, quanto meno, di rendere meno soffocante la quotidianità di centinaia di migliaia di palestinesi. La pace ha bisogno di ponti di dialogo e non di “muri” di oppressione (o di bus "segregazionisti”).

Tuttavia, le parole hanno un loro peso. Soprattutto quando raccontano la verità storica; quando mettono popoli e leadership di fronte alle loro responsabilità. Senza sconti.

In questo, le parole di Barack Obama escono dalla cronaca per entrare nella storia.

Per approfondire: Israele più solo, più forte

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