Israele, Palestina e l'Intifada scomoda
Ormai
da giorni le strade dei Territori palestinesi sono teatro di
manifestazioni e scontri: esplode la rabbia per la morte di un detenuto
nelle carceri israeliane, gli analisti parlano di ‘terza Intifada’. Una
rivolta che Israele non vuole, e neanche l’ANP. Ma che potrebbe comunque
scoppiare, senza coordinamento ne’ bandiere.
di Cecilia Dalla Negra
L’editoriale di Haaretz del 25 febbraio lo scrive a chiare lettere: “Ultima chiamata prima della Terza Intifada”, titola, spiegando che, viste le condizioni attuali, assistere all’esplosione della rabbia palestinese per le strade dei Territori occupati “era solo questione di tempo”.
Questione di tempo, perché la situazione non solo precipita in Cisgiordania, ma lo fa in un silenzio che non è più esclusivamente internazionale.
Le ultime elezioni, in Israele, hanno dimostrato che la gente a Tel Aviv di ‘palestinesi’ non vuole sentir parlare. Che la leadership precaria di Nethanyahu ha tutto l’interesse a spostare l’attenzione popolare sulla minaccia iraniana, sullo scacchiere Siriano. Ovunque, ma non fuori dalla ‘bolla’, dall’altra parte del Muro.
“Normalità”, la parola d’ordine ripetuta come un mantra, bacchetta magica di una campagna elettorale che ha nascosto sotto il tappeto l’anomalia democratica. Come se l’occupazione militare si potesse ignorare, e con lei il costante aumento degli insediamenti illegali, l’escalation di violenza da parte dei coloni contro la popolazione palestinese, le migliaia di prigionieri politici nelle carceri, gli scioperi della fame, Samer Issawi in fin di vita, le tasse congelate all’ANP, il blocco degli stipendi nel settore pubblico, la crisi economica in aumento.
E una popolazione che ha molto per cui lottare, definitivamente più nulla da perdere.
È questo il quadro in cui si inserisce la morte di Arafat Jaradat, il 23 febbraio scorso nel carcere israeliano di Megiddo. Trent’anni, padre di due figli con un terzo in arrivo, arrestato due settimane fa per aver preso parte ad alcune manifestazioni, Arafat muore in prigione dopo aver subito giorni di interrogatori da parte degli uomini dello Shin Bet, i servizi segreti israeliani per gli affari interni.
“Arresto cardiaco”, dicono loro. “Tortura”, sostiene il padre, così come l’Associazione dei prigionieri e persino l’Autorità Palestinese.
E poco importa che l’autopsia, effettuata ieri, non abbia chiarito le cause del decesso: il medico (israeliano) che l’ha effettuata non avrebbe trovato segni di maltrattamento e percosse sul corpo della vittima. Ma neanche quelli della presunta patologia cardiaca che l’avrebbe uccisa.
Le ragioni, per un popolo già in mobilitazione da giorni, non sono centrali. Se la morte di Jaradat era una prova di forza contro il movimento dei prigionieri nelle carceri, Israele l’ha perduta.
Perché il giovane è molto più che un’altra vittima: è la scintilla capace di infiammare le proteste che già da giorni riempiono le strade della Palestina.
È un simbolo: della forza e della capacità di mobilitare le masse che arriva da un luogo preciso: le carceri israeliane, dove sono reclusi, secondo B’tselem, oltre 4.500 prigionieri (tra cui 10 donne, 183 bambini, 178 persone che non hanno avuto diritto a un processo e due terzi del Consiglio Legislativo palestinese).
Sono ancora una volta loro a dimostrare chi ha la capacità di far muovere la gente, in Palestina. Non i partiti, non l’ANP, non i leader ormai privi di fiducia. Ma quelli che il popolo chiama e considera i suoi ‘eroi’: gli affamati di giustizia, a digiuno “fino alla liberazione”. Non solo la loro, ma quella di tutta la nazione.
Le pance vuote, che riescono a influenzare la politica interna palestinese, quella israeliana, e persino quella internazionale, attirando un’attenzione di cui nessun altro attore regionale gode.
Khader Adnan, Hana Shalabi, Bilal Diab e Thaer Halahla lo avevano dimostrato già un anno fa, rifiutando il cibo e ottenendo non solo la libertà per loro stessi, ma un accordo sul miglioramento delle condizioni dei detenuti.
Così come Mahmoud Sarsak, il calciatore ‘migliore del mondo’ che è quasi morto in carcere per poter giocare una partita, e per il quale si sono mobilitate le grandi realtà calcistiche internazionali. E oggi Samer Issawi, che con i suoi 212 giorni di digiuno si impone nel cuore della popolazione, spingendola a manifestare.
Non serve che lo dica, sarebbero inutili gli appelli: in Palestina si scende in strada, e pensando a Samer ci si rivolta contro la colonizzazione, i check point, la cattiveria dei coloni e l’economia bloccata.
Contro Israele e la sua occupazione, contro l’Autorità Palestinese e il suo immobilismo, contro le fazioni sempre in lotta.
Perché mentre Hamas e Fatah mettono in scena l’ultimo episodio del lungo percorso verso l’‘unità nazionale’ i palestinesi ne scrivono un altro e avvertono: per l’Intifada non abbiamo bisogno di voi.
Scrive Daoud Kuttab su al-Monitor che “mentre i politici palestinesi parlano di riconciliazione, o discutono di cosa dire a Barack Obama (la sua visita è prevista in marzo, ndr), la vera storia si scrive dietro le sbarre delle carceri israeliane. Come le precedenti campagne, le proteste di oggi sono focalizzate sull’eroismo di un singolo prigioniero, Issawi, e le manifestazioni che già si stavano svolgendo hanno ricevuto nuovo impulso con la morte di un altro detenuto (Jaradat, ndr)”.
Alla notizia del suo decesso, in 3mila hanno rotto simbolicamente l’isolamento in cui sono costretti, rifiutando il cibo per rendere omaggio al loro martire, e parlare alle strade.
La loro voce arriva così: senza proclami ne’ porta-parola. Si smette di mangiare, e la gente sa cosa deve fare.
Il 25 febbraio, giorno dei funerali di Jaradat, in 10mila hanno manifestato: scontri si sono registrati in tutta la Cisgiordania, e in modo particolare nei dintorni del campo di Aida, vicino Betlemme, dove gli shebab si sono confrontati tutto il giorno con l’esercito.
Qui un bambino di 13 anni è stato gravemente ferito dal fuoco israeliano, andando ad aumentare una tensione che già era palpabile da venerdì scorso, giorno tradizionale di lotta.
Scontri a Ramallah, a Nablus, nei pressi del carcere di Ofer, nel villaggio natale dell’ultima vittima. Scontri a Hebron, dove il 22 febbraio si celebrava l’annuale giornata per l’apertura di Shuhada Street, e dove nel confronto tra manifestanti ed esercito israeliano le forze di sicurezza palestinesi non si sono viste. Per diverse ragioni.
Nethanyahu, sabato, ha sbloccato le tasse di gennaio raccolte per conto dell’ANP, trattenute come forma di ritorsione dopo il riconoscimento della Palestina alle Nazioni Unite.
Una comunicazione chiara alla leadership palestinese: non ci sono più scuse per non intervenire e riportare la calma nelle città e nei villaggi. E un primo risultato per la dirigenza dell’Autorità – e le sue disastrate casse – che in questi giorni ha cavalcato la protesta popolare, lanciando alcuni messaggi.
Il primo diretto a Tel Aviv, sul carattere ‘nonviolento’ delle proteste. In un intervento alla tv di al-Arabyyia, Abbas ha affermato di sostenere le manifestazioni contro l’occupazione purché di natura “nonviolenta”.
“La resistenza armata è vietata per legge, sia nei Territori che a Gaza” ha affermato, come a sottolineare che, in cambio di qualche concessione, il livello del conflitto non si sarebbe alzato.
Gli ha fatto eco Jibril Rajoub, alto quadro del Comitato centrale di Fatah, che alla radio israeliana ha rassicurato Tel Aviv “a nome di tutta la leadership palestinese: non vogliamo nessuno spargimento di sangue, e ci auguriamo che la collaborazione con Israele e le nostre forze di sicurezza possa continuare”.
Aveva messo in guardia invece Issa Qaraqi, ministro dei Detenuti: “La protesta dei prigionieri continuerà finché Israele non risponderà alle loro richieste. La situazione era già esplosiva per lo sciopero della fame di quattro detenuti, adesso le prigioni sono infiammate dalla rabbia” ha fatto sapere, chiedendo l’apertura di un’inchiesta internazionale per investigare le cause della morte di Jaradat.
Un messaggio interno, questa volta, per non inimicarsi ulteriormente una popolazione che non sta scendendo in strada solo contro l’occupazione israeliana.
Per Israele la posta in gioco è alta: in un clima di instabilità politica, con la visita del presidente Obama alle porte, far montare la tensione nei Territori potrebbe essere inopportuno. Un interesse condiviso dalla leadership palestinese, che forza la mano per ottenere qualche risultato concreto, ma non si spinge a lasciare che la violenza di scateni per le strade.
Non in una fase come questa, con la promessa di elezioni alle porte e il braccio di ferro in corso tra Hamas e Fatah. Perché non ci sono le intenzioni, ma soprattutto non ci sono le capacità per veicolare e controllare dall’alto una nuova sollevazione popolare, come accadde nel 2000.
Eppure la tensione aumenta, e la misura è colma per la gente. Per una intifada senza coordinamento e bandiere, questo basta e avanza.
26 febbraio 2013
di Cecilia Dalla Negra
Israele, Palestina e l'Intifada scomoda
Gli analisti israeliani avvertono: o il governo si decide a considerare prioritaria per l’agenda politica la ‘questione palestinese’, o non c’è da stupirsi se si assisterà allo scoppio della rivolta.L’editoriale di Haaretz del 25 febbraio lo scrive a chiare lettere: “Ultima chiamata prima della Terza Intifada”, titola, spiegando che, viste le condizioni attuali, assistere all’esplosione della rabbia palestinese per le strade dei Territori occupati “era solo questione di tempo”.
Questione di tempo, perché la situazione non solo precipita in Cisgiordania, ma lo fa in un silenzio che non è più esclusivamente internazionale.
Le ultime elezioni, in Israele, hanno dimostrato che la gente a Tel Aviv di ‘palestinesi’ non vuole sentir parlare. Che la leadership precaria di Nethanyahu ha tutto l’interesse a spostare l’attenzione popolare sulla minaccia iraniana, sullo scacchiere Siriano. Ovunque, ma non fuori dalla ‘bolla’, dall’altra parte del Muro.
“Normalità”, la parola d’ordine ripetuta come un mantra, bacchetta magica di una campagna elettorale che ha nascosto sotto il tappeto l’anomalia democratica. Come se l’occupazione militare si potesse ignorare, e con lei il costante aumento degli insediamenti illegali, l’escalation di violenza da parte dei coloni contro la popolazione palestinese, le migliaia di prigionieri politici nelle carceri, gli scioperi della fame, Samer Issawi in fin di vita, le tasse congelate all’ANP, il blocco degli stipendi nel settore pubblico, la crisi economica in aumento.
E una popolazione che ha molto per cui lottare, definitivamente più nulla da perdere.
È questo il quadro in cui si inserisce la morte di Arafat Jaradat, il 23 febbraio scorso nel carcere israeliano di Megiddo. Trent’anni, padre di due figli con un terzo in arrivo, arrestato due settimane fa per aver preso parte ad alcune manifestazioni, Arafat muore in prigione dopo aver subito giorni di interrogatori da parte degli uomini dello Shin Bet, i servizi segreti israeliani per gli affari interni.
“Arresto cardiaco”, dicono loro. “Tortura”, sostiene il padre, così come l’Associazione dei prigionieri e persino l’Autorità Palestinese.
E poco importa che l’autopsia, effettuata ieri, non abbia chiarito le cause del decesso: il medico (israeliano) che l’ha effettuata non avrebbe trovato segni di maltrattamento e percosse sul corpo della vittima. Ma neanche quelli della presunta patologia cardiaca che l’avrebbe uccisa.
Le ragioni, per un popolo già in mobilitazione da giorni, non sono centrali. Se la morte di Jaradat era una prova di forza contro il movimento dei prigionieri nelle carceri, Israele l’ha perduta.
Perché il giovane è molto più che un’altra vittima: è la scintilla capace di infiammare le proteste che già da giorni riempiono le strade della Palestina.
È un simbolo: della forza e della capacità di mobilitare le masse che arriva da un luogo preciso: le carceri israeliane, dove sono reclusi, secondo B’tselem, oltre 4.500 prigionieri (tra cui 10 donne, 183 bambini, 178 persone che non hanno avuto diritto a un processo e due terzi del Consiglio Legislativo palestinese).
Sono ancora una volta loro a dimostrare chi ha la capacità di far muovere la gente, in Palestina. Non i partiti, non l’ANP, non i leader ormai privi di fiducia. Ma quelli che il popolo chiama e considera i suoi ‘eroi’: gli affamati di giustizia, a digiuno “fino alla liberazione”. Non solo la loro, ma quella di tutta la nazione.
Le pance vuote, che riescono a influenzare la politica interna palestinese, quella israeliana, e persino quella internazionale, attirando un’attenzione di cui nessun altro attore regionale gode.
Khader Adnan, Hana Shalabi, Bilal Diab e Thaer Halahla lo avevano dimostrato già un anno fa, rifiutando il cibo e ottenendo non solo la libertà per loro stessi, ma un accordo sul miglioramento delle condizioni dei detenuti.
Così come Mahmoud Sarsak, il calciatore ‘migliore del mondo’ che è quasi morto in carcere per poter giocare una partita, e per il quale si sono mobilitate le grandi realtà calcistiche internazionali. E oggi Samer Issawi, che con i suoi 212 giorni di digiuno si impone nel cuore della popolazione, spingendola a manifestare.
Non serve che lo dica, sarebbero inutili gli appelli: in Palestina si scende in strada, e pensando a Samer ci si rivolta contro la colonizzazione, i check point, la cattiveria dei coloni e l’economia bloccata.
Contro Israele e la sua occupazione, contro l’Autorità Palestinese e il suo immobilismo, contro le fazioni sempre in lotta.
Perché mentre Hamas e Fatah mettono in scena l’ultimo episodio del lungo percorso verso l’‘unità nazionale’ i palestinesi ne scrivono un altro e avvertono: per l’Intifada non abbiamo bisogno di voi.
Scrive Daoud Kuttab su al-Monitor che “mentre i politici palestinesi parlano di riconciliazione, o discutono di cosa dire a Barack Obama (la sua visita è prevista in marzo, ndr), la vera storia si scrive dietro le sbarre delle carceri israeliane. Come le precedenti campagne, le proteste di oggi sono focalizzate sull’eroismo di un singolo prigioniero, Issawi, e le manifestazioni che già si stavano svolgendo hanno ricevuto nuovo impulso con la morte di un altro detenuto (Jaradat, ndr)”.
Alla notizia del suo decesso, in 3mila hanno rotto simbolicamente l’isolamento in cui sono costretti, rifiutando il cibo per rendere omaggio al loro martire, e parlare alle strade.
La loro voce arriva così: senza proclami ne’ porta-parola. Si smette di mangiare, e la gente sa cosa deve fare.
Segnali di terza Intifada?
Il 25 febbraio, giorno dei funerali di Jaradat, in 10mila hanno manifestato: scontri si sono registrati in tutta la Cisgiordania, e in modo particolare nei dintorni del campo di Aida, vicino Betlemme, dove gli shebab si sono confrontati tutto il giorno con l’esercito.
Qui un bambino di 13 anni è stato gravemente ferito dal fuoco israeliano, andando ad aumentare una tensione che già era palpabile da venerdì scorso, giorno tradizionale di lotta.
Scontri a Ramallah, a Nablus, nei pressi del carcere di Ofer, nel villaggio natale dell’ultima vittima. Scontri a Hebron, dove il 22 febbraio si celebrava l’annuale giornata per l’apertura di Shuhada Street, e dove nel confronto tra manifestanti ed esercito israeliano le forze di sicurezza palestinesi non si sono viste. Per diverse ragioni.
Nethanyahu, sabato, ha sbloccato le tasse di gennaio raccolte per conto dell’ANP, trattenute come forma di ritorsione dopo il riconoscimento della Palestina alle Nazioni Unite.
Una comunicazione chiara alla leadership palestinese: non ci sono più scuse per non intervenire e riportare la calma nelle città e nei villaggi. E un primo risultato per la dirigenza dell’Autorità – e le sue disastrate casse – che in questi giorni ha cavalcato la protesta popolare, lanciando alcuni messaggi.
Il primo diretto a Tel Aviv, sul carattere ‘nonviolento’ delle proteste. In un intervento alla tv di al-Arabyyia, Abbas ha affermato di sostenere le manifestazioni contro l’occupazione purché di natura “nonviolenta”.
“La resistenza armata è vietata per legge, sia nei Territori che a Gaza” ha affermato, come a sottolineare che, in cambio di qualche concessione, il livello del conflitto non si sarebbe alzato.
Gli ha fatto eco Jibril Rajoub, alto quadro del Comitato centrale di Fatah, che alla radio israeliana ha rassicurato Tel Aviv “a nome di tutta la leadership palestinese: non vogliamo nessuno spargimento di sangue, e ci auguriamo che la collaborazione con Israele e le nostre forze di sicurezza possa continuare”.
Aveva messo in guardia invece Issa Qaraqi, ministro dei Detenuti: “La protesta dei prigionieri continuerà finché Israele non risponderà alle loro richieste. La situazione era già esplosiva per lo sciopero della fame di quattro detenuti, adesso le prigioni sono infiammate dalla rabbia” ha fatto sapere, chiedendo l’apertura di un’inchiesta internazionale per investigare le cause della morte di Jaradat.
Un messaggio interno, questa volta, per non inimicarsi ulteriormente una popolazione che non sta scendendo in strada solo contro l’occupazione israeliana.
Per Israele la posta in gioco è alta: in un clima di instabilità politica, con la visita del presidente Obama alle porte, far montare la tensione nei Territori potrebbe essere inopportuno. Un interesse condiviso dalla leadership palestinese, che forza la mano per ottenere qualche risultato concreto, ma non si spinge a lasciare che la violenza di scateni per le strade.
Non in una fase come questa, con la promessa di elezioni alle porte e il braccio di ferro in corso tra Hamas e Fatah. Perché non ci sono le intenzioni, ma soprattutto non ci sono le capacità per veicolare e controllare dall’alto una nuova sollevazione popolare, come accadde nel 2000.
Eppure la tensione aumenta, e la misura è colma per la gente. Per una intifada senza coordinamento e bandiere, questo basta e avanza.
26 febbraio 2013
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