Giorgio Bernardelli :Nomi e volti dal dramma siriano
di Giorgio Bernardelli | 25 gennaio 2013
Non ci sono più parole per
descrivere lo strazio della tragedia della Siria. Ma proprio perché non
ci sono parole, il rischio è sempre più quello di abituarsi al massacro e
alle sofferenze quotidiane, quasi fossero una fatalità. Per questo è
fondamentale tenere davanti agli occhi dei volti, che ci ricordino come
non sia di numeri o di equilibri geopolitici ma di persone in carne ed
ossa che stiamo parlando.Pensavo a tutto questo guardando sul blog dell'amico Andres Bergamini - fratello della famiglia religiosa della Visitazione, che vive a Gerusalemme - le fotografie di suor Rima. Da un paio d'anni, d'estate, Andres promuove un corso di iconografia con un piccolo gruppo di persone che si vuole avvicinare a questa forma d'arte che è anche spiritualità. L'estate scorsa a Gerusalemme da Aleppo era arrivata anche suor Rima, delle Suore maestre di santa Dorotea. Nella città siriana - dove lei stessa è nata quarant'anni fa - gestisce insieme a una consorella un pensionato per ragazze che si trova vicino all'università. Sì, proprio quell'università, sventrata lo scorso 15 gennaio da due sanguinose esplosioni. Da allora chiunque la conosce vive nell'angoscia, perché non si hanno più notizie di lei. L’ultimo a vedere suor Rima - ha raccontato ad AsiaNews il nunzio apostolico a Damasco mons. Giovannni Zenari - è stato il giardiniere del convento delle suore carmelitane, anch’esso situato a poche decine di metri dall’università. L’uomo stava conversando con la religiosa quando i due sono stati investiti da un muro di fuoco. Una volta riaperti gli occhi il giardiniere, rimasto ferito, ha visto intorno a sé solo macerie. È anche questo oggi Aleppo: l'angoscia per un volto amico che a più di una settimana di distanza da un'esplosione non sai ancora con certezza che fine abbia fatto.
Altri volti sono quelli di cui parla un articolo di Al Monitor che mi ha lasciato di stucco: quelli dei profughi palestinesi che si trovavano in Siria e che nella loro fuga sono arrivati fino a Gaza. Già, perché in Siria ci sono anche i campi profughi dove vivono circa 50 mila palestinesi. Solo che per loro scappare è un po' più complesso rispetto agli altri, perché la Giordania (che peraltro è il Paese che ha accolto finora il maggior numero di profughi siriani) non li lascia entrare. La questione è spinosa: il regno ashemita è il Paese arabo che diede rifugio a più palestinesi in seguito alle guerre arabo-israeliane; poi nel 1970 ci fu la vicenda del Settembre nero, con re Hussein che si mise a combattere i gruppi armati dei fedayyn che erano diventati sempre più forti nel Paese. Sta di fatto che i palestinesi sono comunque tuttora il 40 per cento della popolazione della Giordania. E in una situazione interna molto tesa re Abdullah teme che l'arrivo di altri profughi palestinesi sia un ulteriore elemento di instabilità. Così i palestinesi della Siria oggi non sanno letteralmente dove andare e alcuni alla fine hanno scelto Gaza, raggiungibile attraverso un lungo itinerario. La prima famiglia dalla Siria è arrivata in luglio, oggi sono già diventate 26, per un totale di 157 persone. Non c'è bisogno qui di spendere troppe parole su che cosa voglia dire vivere a Gaza: isolati dentro una striscia di 360 chilometri quadrati insieme a un milione e mezzo di persone, anche loro sostanzialmente profughe da ormai 65 anni; senza grandi prospettive davanti e con il rischio sempre incombente di una nuova fiammata di guerra. Eppure anche una condizione del genere oggi è meglio dell'inferno siriano.
È con davanti agli occhi questi volti - allora - che vale la pena di leggere la nuova accorata lettera che il patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal ha diffuso ieri sulla Siria. L'ha scritta di ritorno da Mafraq, in Giordania, dove ha avuto modo nuovamente di vedere le condizioni terribili in cui vivono i profughi, nonostante l'attività instancabile della Caritas giordana e degli organismi di solidarietà internazionale. «La nostra voce si leva in suffragio dei morti e a difesa dei vivi - scrive Twal -, di quelli che continuano a rimanere nella loro terra e di quanti, rifugiati, hanno perso tutto e hanno dovuto abbandonare il loro Paese. Il dramma degli uni e degli altri è molto grande e non può lasciarci indifferenti. Da tanto, da troppo tempo questa situazione si protrae. La nostra umiliazione e sofferenza più grande sta proprio nel sentirci impotenti e incapaci di intervenire per porre subito fine alla violenza e per aiutare ulteriormente le vittime. (…) Faccio appello a chi può intervenire per favorire un dialogo finalmente costruttivo, perché una via di uscita sicuramente c’è, se abbiamo il coraggio e la volontà di intraprenderla per amore della pace e non per altri interessi».
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Clicca qui per leggere il testo in italiano della lettera del patriarca Twal
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