Uccise 12enne, Ahmed Houssan Mosa, assolto poliziotto israeliano
Emma Mancini
Roma, 01 novembre 2012, Nena News -
Martedì un giudice israeliano ha assolto un poliziotto dall’accusa di
omicidio colposo di un bambino palestinese di 12 anni. Di nuovo a
brillare sono l’impunità e il silenzio che la comunità internazionale
riconosce quotidianamente ad Israele.
Il 29 luglio 2008 Ahmed Houssan
Mosa, del villaggio di Ni’lin, fu centrato alla testa da un proiettile
durante la tradizionale manifestazione del venerdì contro il Muro di Separazione e le colonie, che soffocano la vita della comunità. A
sparare un poliziotto di frontiera*, Omri Abu, che ammise di aver
aperto il fuoco due volte contro il bambino per rispettare gli ordini
ricevuti dall’alto: “Non rispondere al lancio di pietre è considerata una debolezza – disse il poliziotto – Per questo l’ho colpito alla testa”.
Ahmed morì all’istante. Ma,
secondo il giudice, Omri Abu non è colpevole perché non è detto che a
causare la morte di Ahmed sia stata la pallottola che gli è penetrata
nel cranio: l’accusa, secondo il giudice Liora Frenkel, non è
stata in grado di provare “oltre ogni ragionevole dubbio” che il
proiettile partito dal fucile M-16 del poliziotto abbia ucciso il
dodicenne palestinese. A “confondere” le idee della corte, anche delle
testimonianze, dei rapporti balistici e patologici contraddittori: la
Frenkel ha ripreso la polizia israeliana perché le avrebbe sottoposto
delle prove senza accompagnarle con la testimonianza di esperti in grado
di dimostrarle.
Una follia giuridica. Alla fine di un
processo per l’uccisione di un bambino di soli 12 anni, colpevole di
marciare pacificamente per la libertà del proprio villaggio e della
propria terra, il responsabile di un omicidio si ritrova condannato solo per abuso dell’arma:
secondo il giudice, infatti, le sole colpe imputabili ad Omri Abu sono
l’utilizzo eccessivo del fucile, seppure non fosse in pericolo, e la
falsa testimonianza.
Un’accusa che il poliziotto ha sempre
respinto: “Anche se ti trovi in un’auto anti-proiettile, devi
rispondere. Se vedono che non reagisci, percepiscono la tua debolezza.
Ero in pericolo”. Per questo ha aperto il fuoco contro un gruppo di
manifestanti, per lo più bambini, che lanciavano delle pietre. Secondo
le prove raccolte all’epoca dall’associazione palestinese per i diritti
umani, Al Haq, Ahmed si era nascosto dietro un albero
di ulivo quando il poliziotto lo ha visto, è sceso dal veicolo in cui si
trovava, ha puntato la pistola e lo ha colpito da una distanza di 50
metri. Il fuoco è continuato a piovere su due manifestanti che tentavano di mettere in salvo il piccolo, ormai senza vita.
E pochi giorni dopo, al funerale di
Ahmed, l’esercito israeliano ha di nuovo aperto il fuoco, uccidendo il
19enne Yousef Amira. Colpito alla testa, è morto poco dopo in ospedale.
L’impunità di cui godono le
forze militari israeliane nella quotidiana occupazione della Palestina
va portata sul tavolo della giustizia internazionale. Che però
continua a voltare lo sguardo dall’altra parte: dal settembre 2000, anno
di inizio della Seconda Intifada, al dicembre 2011, l’associazione
israeliana B’Tselem ha contato 473 casi provati di violenze da parte
delle forze di sicurezza contro palestinesi. Di questi solo undici hanno
portato all’apertura di un’inchiesta.
Ahmed è morto mentre tentava di
far sentire la propria voce, una voce flebile di fronte all’imponenza di
un Muro che mangia la sua terra e strangola il lavoro, la
storia e la dignità della Palestina. Un Muro che la stessa Corte
Internazionale di Giustizia ha definito nel 2004 “illegale”. Eppure
il mondo lascia un dodicenne solo a combattere per un diritto
riconosciutogli a livello globale. Lo si lascia solo, difeso solo da una
pietra, contro il fuoco di un fucile. Nena News
*La polizia di frontiera è uno dei
corpi della polizia nazionale israeliana, per lo più impegnata in
operazioni militari e di assistenza all’esercito in Cisgiordania e
Gerusalemme Est. È considerata tra le forse di sicurezza più violente.
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