Il conflitto tra Israele e Hamas è una guerra rituale di Anna Maria Cossiga
Commentando l’ennesima escalation nel conflitto tra Israele e Gaza, lo scrittore israeliano A.B. Yehoshua, un’icona del pacifismo, ha affermato chiaramente che, vista la situazione con Hamas, il suo paese non può fare altro che dichiarare lo stato di guerra.
La costola dei Fratelli musulmani in Palestina non può essere più trattata come un gruppo terroristico: “è un governo e deve essere considerato responsabile delle sue azioni” [1]. E dunque, guerra. Come accadrebbe se qualunque altro Stato attaccasse Israele con i suoi missili.
Non è facile dare una definizione esatta del termine “guerra”, ma nell’immaginario comune la guerra è certamente considerata un conflitto tra “Stati”, che prevede l’uso della violenza e delle armi, che ha un qualche “scopo”, sia esso economico, territoriale o politico, e che porta a un qualche tipo di “risultato”.
Probabilmente Yehoshua ha ragione, si tratta di una vera e propria guerra. Eppure il conflitto tra Israele e Hamas è una ben strana guerra. Dal 2005, anno del ritiro israeliano da Gaza, i sanguinosi “tira e molla” tra i due contendenti sono stati numerosi [2]:
- nel giugno 2006, l’operazione “Pioggia d’estate”, in seguito al rapimento del giovane Ghilad Shalit, conduce all’arresto di una sessantina di alti funzionari di Hamas; nel novembre dello stesso anno, l’operazione “Nuvole d’autunno” causa la morte di 56 palestinesi, per lo più combattenti. Nei cinque mesi di operazioni le vittime palestinesi sono in tutto 400;
- nell’aprile 2007, Israele riprende i raid su Gaza in seguito all’incessante lancio di razzi su proprio territorio e il braccio armato di Hamas dichiara la fine della tregua; in giugno, Hamas vince le elezioni e prende il completo controllo di Gaza;
tra febbraio e marzo 2008, nuova operazione dal nome “Inverno caldo”, in seguito alla morte di un israeliano colpito da un razzo di Hamas. Solo a giugno si giunge ad una tregua. I morti palestinesi sono centinaia;
- nel dicembre 2008 ha inizio l’operazione “Piombo fuso”, che dovrebbe mettere fine una volta per tutte al lancio di missili contro Israele. Bilancio: 1400 morti palestinesi e 13 israeliani. Nonostante il cessate il fuoco entrato in vigore il 18 gennaio 2009, il lancio di missili continua;
- nell’aprile 2011, più di 150 razzi colpiscono lo Stato ebraico e nella rappresaglia rimangono uccisi una ventina di palestinesi. Le violenze continuano per tutto il mese di agosto (26 vittime palestinesi e 9 israeliane);
- tra il 9 e il 12 marzo 2012, oltre 500 missili vengono lanciati contro Israele e nella rappresaglia rimangono uccisi 25 palestinesi. Nel giugno 2012, cadono su Israele altri 150 missili e nei raid israeliani muoiono 15 palestinesi;
- infine, nel novembre 2012, in risposta all’incessante lancio di missili, gli israeliani centrano con un razzo l’auto di Ahmed al-Jabari, capo supremo di Ezzedin al-Kassam, il braccio militare di Hamas. I Fratelli musulmani palestinesi avvisano che “si sono aperte le porte dell’inferno”. In meno di tre giorni, vengono lanciati contro Israele più di 600 missili, alcuni dei quali giungono vicino a Tel Aviv e a Gerusalemme. La nuova offensiva israeliana, che ha lo scopo di distruggere gli arsenali missilistici di Hamas, si chiama “Colonna di difesa”, anche se sarebbe più corretto tradurre “Colonna di nuvola”, richiamo ad una citazione biblica. Dopo sei giorni di scontri, sembra che si possa giungere ad un ennesimo cessate il fuoco, ma il 21 novembre viene fatto saltare in aria un autobus di linea a Tel Aviv. Hamas rivendica l’attentato. Il giorno dopo, in modo che definirei del tutto inaspettato, viene raggiunta una tregua.
Lucio Caracciolo, in un recente articolo [3], ha acutamente parlato di un “copione”: Hamas, il più debole, “provoca” il più forte, Israele, con lanci pressoché ininterrotti di missili, che causano pochi danni e pochi morti, ma creano uno stato di continua tensione tra gli abitanti del sud del paese. Il governo israeliano “pazienta” per un po’, poi reagisce; in modo sproporzionato, secondo molti. La reazione israeliana segue una sorta di cliché: arresti e uccisioni mirate contro leader e combattenti di Hamas; raid aerei su Gaza; massicci interventi di terra. E numerosissime vittime tra la popolazione civile. Oltre al lancio di missili, Hamas può far ricorso ad azioni terroristiche.
Sembra davvero la trama di una tragedia in cui per definire violenti raid dal cielo ed altrettanto violenti interventi di terra si usano poetiche metafore come “Pioggia d’estate”, “Nuvole d’autunno”, “Inverno caldo”, o altre più esplicite come “Piombo fuso”. In cui le “nuvole” che costituiscono il “pilastro” di difesa ricordano quella in cui il Dio Israele si nasconde per guidare in battaglia il suo popolo. In cui le porte dell’inferno si dovrebbero aprire per distruggere definitivamente l’odiata entità sionista e in cui i “martiri” vengono portati in trionfo come eroi. Un funesto copione che richiede la vendetta e che termina sempre con tregue e cessate il fuoco che sembrano avere il solo scopo di essere infranti perché tutto possa iniziare un’altra volta nello stesso modo.
Una guerra “inutile”, che si conclude sempre in niente se non la morte di centinaia di civili. Israele non intende certo rioccupare Gaza. Vuole soltanto far rientrare Hamas “nei ranghi”. Ma questo, puntualmente, non accade, il lancio dei missili riprende e ai leader uccisi ne vengono sostituiti altri. Che cosa ottiene Israele? La condanna di buona parte del mondo per le reazioni “sproporzionate” e Hamas sempre più potente e amato, a Gaza, ma anche in Cisgiordania. Certamente i governi israeliani sanno già dall’inizio quali saranno i risultati di qualunque operazione.
Anche Hamas, nonostante la retorica, sa bene che l’inferno non aprirà le sue porte, che il lancio di missili non scalfirà il potere di Israele e che l’entità sionista non verrà “gettata in mare”, ma continuerà ad esistere sulla terra che il jihad dovrebbe liberare. Certo, ha la crescente fedeltà di vecchi e nuovi sostenitori, insieme all’appoggio dei paesi islamici; un appoggio che, sino ad ora, è stato di molte parole e proclami, di armi e missili “di disturbo”, ma che, probabilmente dovremmo dire “grazie al Cielo”, non ha condotto a un coinvolgimento tale da sfociare in un conflitto diretto con Israele.
Dunque, a che cosa serve questa guerra che lascia sempre tutto così com’era cominciato? Una risposta suggestiva ci viene suggerita dalla lettura di un testo di Angelo Brelich dal titolo Guerre, agoni e culti nella Grecia arcaica, pubblicato per la prima volta a Bonn nel 1961 e ripubblicato di recente con il titolo Teatri di guerre, agoni e culti nella Grecia arcaica [4]. L’analisi di Brelich si concentra su una serie di guerre particolari, combattute principalmente da Sparta ma anche da altre città greche, che lo studioso definisce “rituali” [5] e che presentano una serie di elementi comuni:
- hanno una cadenza più o meno fissa e si protraggono per secoli;
- il territorio conteso è considerato sacro;
- il vincitore non occupa né annette il territorio conteso;
- si fissa una tregua ma non si giunge ad una pace duratura;
- allo scadere della tregua, il conflitto riprende “con ferocia”;
- i rancori dovuti alle perdite umane spesso trasformano questi conflitti in vere e proprie guerre con scopi anche politici e di espansione territoriale.
- durante il combattimento vengono perpetrati inganni, frodi, cacce notturne, omicidi;
- spesso è necessario l’intervento di terze parti perché il conflitto abbia termine.
Tali caratteristiche, che risultano chiaramente diverse e talora contrarie alle “regole” delle guerre convenzionali, sembrano riscontrabili anche nel conflitto Hamas/Israele: le basi temporali sono meno ampie - anni e non secoli, decenni, se ad Hamas sostituiamo “i palestinesi” più in generale - ma le scadenze sono più o meno regolari; non v’è dubbio che il territorio conteso sia sacro; Israele non ha mai rioccupato Gaza né sembra intenda farlo; le tregue sono sempre il risultato degli scontri; il conflitto, tuttavia, riprende (almeno sino ad ora) con aumentata “ferocia”; non è escluso che i “rancori dovuti alle perdite” lo trasformino in una guerra “convenzionale” con conseguente occupazione territoriale [6]; durante il combattimento, o poco prima, avvengono “frodi”, tra le quali potremmo includere, ad esempio, il rapimento di Ghilad Shalit, e “cacce notturne”, che Israele conduce d’abitudine a Gaza e nei Territori Occupati; ci sono certamente “omicidi”, quelli mirati del governo israeliano; l’intervento di una “terza parte” (Onu, Ue, Stati Uniti) è particolarmente evidente nell’ultima escalation di novembre, in cui la novità più notevole è la mediazione del Fratello musulmano Morsi.
Resta comunque la domanda: quale era, e quale è, lo scopo di queste strane guerre? Grazie alla comparazione, che costituiva la base delle sue ricerche, e che lo è per qualunque indagine antropologica, Brelich fa notare che i conflitti presi in esame si ritrovano in forme molto simili anche in alcune società di interesse etnografico, dove sono legate ai riti di iniziazione dei giovani. Le iniziazioni hanno lo scopo preciso di rispondere a esigenze identitarie della comunità trasmesse alle generazioni più giovani. Con questo non intendiamo affermare che gli scontri tra Israele e Hamas siano riti iniziatici, ma richiamare l’attenzione su possibili “esigenze identitarie” sia della società israeliana, sia dei Fratelli musulmani palestinesi. A questo proposito prendiamo spunto dagli studi del gruppo di ricerca ‘Patonipala’ [7] che si è occupato del tema dell’antropopoiesi, cioè della “costruzione dell’uomo”.
Ogni società “costruisce” culturalmente e, dunque, anche ritualmente, “l’uomo giusto”; non nel senso di “essere umano” in generale, ma in quello più ristretto di appartenente a quella determinata comunità, con le sue specifiche caratteristiche identitarie. Tale costruzione, tuttavia, non avviene una volta per sempre. La vita individuale e collettiva è sempre soggetta a “crisi” [8] che determinano la necessità di ri-costruire l’identità e ri-fondare il mondo; questo avviene anche attraverso i riti che, come hanno sottolineato antropologi quali William Robertson-Smith, Bronislaw Malinowski ed Émile Durkheim, coinvolgono l’intera società, tanto che si può giungere ad affermare che esiste un’omologia tra l’attività rituale, sempre uguale a se stessa e codificata dalla tradizione, e l’identità politica e sociale.
È in questo senso che suggeriamo di leggere il conflitto Israele/Hamas come una “guerra rituale”. Attraverso di essa, entrambi i contendenti ri-costruiscono e ri-affermano la propria identità, rafforzando in tal modo la coesione interna del proprio gruppo. L’identità, inoltre, come sottolinea Ugo Fabietti, “è una definizione del sé e/o dell’altro che affonda le proprie radici in rapporti di forza tra gruppi coagulati intorno ad interessi particolari” [9]. Non è necessario ricordare quali siano i rapporti di forza o gli interessi particolari nel caso in esame. Inoltre, ricorda ancora Fabietti, i gruppi umani hanno la tendenza a “elaborare definizioni positive del sé, mentre producono invece definizioni negative dell’altro” [10]. La “guerra rituale” tra Israele e Hamas, dunque, avrebbe non solo lo scopo di ri-costruire e ri-affermare l’identità collettiva dei due gruppi, ma anche quello di costruire e ri-costruire “l’altro” in modo negativo.
Quelle che Ernesto De Martino chiamava la “crisi della presenza” o il “rischio di non esserci nel mondo” sono pressoché permanenti sia in Israele sia a Gaza. Entrambe le “società” inoltre, sono fortemente militarizzate e l’antropopiesi assume dunque il senso di costruzione (e di ri-costruzione) dell’uomo (l’israeliano o il militante di Hamas) anche come soldato. Le società hanno certamente altri strumenti per definire se stesse e gli altri e per fronteggiare i momenti di crisi, ma, come osserva Francesco Remotti, non tutte scelgono “strumenti antropopoietici tranquilli, anonimi … molte adottano processi che irrompono nella normalità e introducono la violenza, il dolore, la sofferenza fisica e psicologica” [11].
A quanto pare, Israele e Hamas hanno scelto questi ultimi. E, nonostante l’ennesima tregua, non è affatto chiaro se “il copione” avrà un finale diverso da quello ormai noto. Il rito, come il teatro, e quello greco in particolare, è ripetitivo, costituito da atti codificati, da formule prestabilite. E come il rito, anche il teatro, quello antico più del moderno, ha la funzione sociale di costruzione e di riaffermazione dell’identità.
Che il rito e il teatro abbiano uno stretto collegamento non è un tema nuovo all’antropologia; anzi, non è da sempre che essi sono distinti, perché possono essere considerati, in fondo, come modalità diverse della stessa esperienza: il rito “ripete”, attraverso i gesti e le narrazioni del celebrante, dunque attraverso una sorta di recitazione simile a quella teatrale, gli eventi di quel tempo del mito dove tutto ha avuto origine, compreso “l’uomo sociale” e la sua identità.
Sulla scena rituale, i celebranti “mimano” gli eventi del mito diventando “sacerdoti-attori”. Per dirla con Victor Turner, la performance, rituale e teatrale, produce qualcosa, nel nostro caso il militante di Hamas e l’israeliano “così come devono essere” in senso sociale, entro regole e codici stabiliti, me nel corso dell'‘esecuzione’ si può generare qualcosa di nuovo. “Le regole possono ‘incorniciarla’, ma il ‘flusso’ dell’azione e dell’interazione entro questa cornice può [...] anche generare simboli e significati nuovi, incorporabili in performance successive. È possibile che le cornici tradizionali vadano sostituite" [12].
È forse su queste basi che possiamo sperare in un mutamento della situazione tra Israele e Hamas, in modo tale che “il conflitto senza soluzione” ne trovi una e il compromesso non rimanga una “chimera”.
[1] “Lo scrittore Yehoshua: ‘Sono nostri nemici la guerra è inevitabile’”, La Repubblica, 15 novembre 2012.
[2] I dati sono tratti da “Le operazioni di Israele a Gaza dal 2005”, www.tg1.rai.it.
[3] “Un conflitto senza soluzione”, La Repubblica, 18 novembre 2012, ripubblicato su Limesonline.
[4] Pubblicato da Editori Riuniti.
[5] “Guerra rituale” è un termine ampiamente usato (e messo in discussione) nell’antropologia culturale e nella storia delle religioni in riferimento a conflitti dalle specifiche caratteristiche presenti nelle civiltà antiche e tra i popoli indigeni. Il termine è noto anche agli studiosi della classicità, in quanto applicato alle guerre territoriali di Sparta. Per una trattazione e discussione sull’argomento vedi E. Franchi, “Guerra e iniziazioni a Sparta e a Yulami: il miraggio spartano nell’antropologia oceanistica”, in I quaderni del Ramo d’oro on-line, n.3, 2010, pp. 193-227. L’articolo fornisce anche un’ampia bibliografia sul tema.
[6] In un recente articolo su Servizi-italiani.net (19 novembre 2012), Germano Dottori sostiene che “le opzioni che Netanyahu aveva di fronte erano tre …: la prima era un’offensiva su Gaza; la seconda consisteva nella rioccupazione del Sinai (corsivo mio); e la terza in un attacco aero-missilistico all’Iran. Il governo di Gerusalemme ha scelto la prima, almeno per adesso, senza peraltro precludersi la possibilità di esplorare successivamente anche le altre”. È quasi superfluo ricordare che la Guerra dei Sei Giorni si è conclusa con una massiccia occupazione territoriale che è poi alla base anche dell’attuale conflitto con Hamas.
[7] Al gruppo appartengono studiosi delle Università di Pavia, di Torino, di Parigi e di Losanna, da cui il nome. Tra essi ricordiamo Claude Calame, Francesco Remotti e Mondher Kilani.8] Nel caso specifico, potremmo leggere come “crisi”, almeno per Netanyahu e per il suo governo, anche le prossime elezioni politiche.
[9] U. Fabietti, L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, Carocci, 2008, p. 16. Il corsivo è nostro.
[10] Ivi.
[11] U. Fabietti, Forme di umanità. Progetti incompleti e cantieri sempre aperti, Paravia, 1977, p. 102.
[12] Per una trattazione approfondita dell’argomento vedi Victor Turner, Dal rito al teatro, Il Mulino, 1986.
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