Israele :L’”interesse archeologico” che nasconde l’occupazione di due villaggi palestinesi
Elena Butti è una studentessa italiana di 20 anni specializzanda in Diritto Internazionale all’University College Utrecht in
Olanda. La scorsa estate ha trascorso un periodo in Israele e
Palestina: il viaggio ha generato in lei un impellente bisogno di
raccontare ciò che ha visto. Ci fa piacere pubblicare questo suo
articolo.
Il villaggio palestinese di Silwan si
trova alle pendici della città vecchia di Gerusalemme, ma è un
villaggio che sta silenziosamente scomparendo. Ad esso è stato tolto
anche il nome: se oggi lo si cerca su una mappa di Gerusalemme, a due
passi dalla Dung Gate che dà accesso alla parte Sud della città
vecchia, non lo si trova. Al suo posto, campeggia la scritta: “City of
David”, nome del sito archeologico che si trova letteralmente al di
sotto di esso e che ogni anno richiama masse di turisti inconsapevoli
del dramma che essi stessi finanziano pagando il biglietti di ingresso.
A seguito dell’annessione di Gerusalemme
Est a Israele nel 1967, “ingiusta” (secondo i palestinesi),
“riunificatrice” (secondo gli israeliani), “illegale” (secondo la
risoluzione ONU 446), il villaggio di Silwan è passato sotto il
controllo israeliano. Da 25 anni, l’area è di fatto nelle mani di due
“organizzazioni archeologiche” israeliane, la Ir David Foundation (Elad) e laAteret Cohanim, che portano avanti gli scavi archeologici (con un metodo che è stato, peraltro,dichiarato essere
in violazione dei minimi standard scientifici da affermati archeologi
israeliani). Allo stesso tempo, però, queste associazioni promuovono
l’insediamento di coloni ebrei nell’area. E mentre le scavatrici
riscoprono meraviglie dell’antichità, le case degli abitanti di Silwan,
che vi risiedono da generazioni, sono minacciate da ordini di
demolizione, da piani di ristrutturazione che intendono radere al suolo
interi complessi abitativi per fare spazio a parcheggi, e dalla continua
paura di crolli per gli scavi in corso. Le case che non vengono
demolite sono a poco a poco occupate da coloni. Su ognuna di queste case
sventola la bandiera israeliana. All’interno di ogni torretta, si
intravedono coloni. Armati. Anche questo per “interesse archeologico?”
Anche il villaggio palestinese di Susya si
trova(va) in una “sfortunata” posizione. Proprio al di sotto di esso,
infatti, è stata scoperta, negli anni ’70 dell’Ottocento, un’antica
sinagoga ebraica. Da allora, gli abitanti di Susya non hanno avuto pace.
Gli ordini di demolizione del villaggio si sono susseguiti uno dopo
l’altro (1985, 1991, 1997, e due volte nel 2001), costringendo gli
abitanti a lasciare le proprie case per “interesse archeologico”. Nel
luogo dove era situato originariamente Susya, si trova ora un avamposto
illegale israeliano (considerato, per oscure ragioni, meno dannoso per i
reperti archeologici rispetto all’antico villaggio palestinese).
I resti del pozzo di Susya, reso inutilizzabile dall’esercito perché ‘costruito illegalmente’.
A seguito della prima “espulsione”
(versione palestinese) o “abbandono volontario” (versione israeliana)
gli abitanti di Susya hanno ricostruito il proprio villaggio (costituito
principalmente da tende e da qualche caverna) sulle terre di loro
proprietà a poche centinaia di metri dalla posizione originale. Ma
nemmeno su queste terre gli “inesistenti” abitanti di Susya (come li
definisce il blog sionista ziontruth.blogspot.it) hanno il diritto di vivere: un ordine di demolizione entro il 2012 pende
sul villaggio. La nuova Susya (letteralmente dieci tende, due pozzi,
una caverna) è stata infatti dichiarata “costruzione illegale”. Ma
demolire un pozzo è complicato. Come renderlo, allora, inutilizzabile?
Le squadre di demolizione israeliane non mancano di fantasia: la
soluzione è stata accartocciare le lamine di metallo di una vecchia auto
abbandonata e gettarle nel pozzo per contaminare l’acqua (divenuta così
imbevibile). I resti dell’auto sono ancora visibili in fondo a quello
che era il pozzo. Oggi il pozzo di Susya, fonte di acqua e di vita, è
soltanto un buco di terra secca e ruggine. Anche contaminare l’acqua di
gente che abita sulla terra che legalmente possiede è un’operazione
giustificata da “interesse archeologico”?
Fonti dell’articolo: i resoconti si basano non solo sulle fonti online Breaking the Silence, Wadi Hilweh Information Center e Haaretz ma
da conversazioni personali tenute con Nadav Bingelman, ex soldato
israeliano che ha servito nelle colline a sud di Hebron dal 2009 al
2011, e con il responsabile del Wadi Hilweh Information Center.
Tutte le fotografie sono dell’autrice.
Tutte le fotografie sono dell’autrice.
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