Secondo alcuni media il primo ministro israeliano
sarebbe un demagogo estremista. Un'analisi del suo pensiero e della
tradizione ebraica suggerisce una spiegazione diversa. Dopo i nazisti,
Ahmadi-Nejad è il nuovo Amalek?
Il discorso del premier israeliano Benjamin Netanyahu
in occasione della 67° sessione dell’Assemblea generale dell’Onu dello
scorso settembre ha suscitato non poche reazioni sulla stampa e sul web.
Alcune positive, che hanno visto nelle sue parole, benché pronunciate
davanti ad una “bomba di cartone”, un segnale di distensione nei
confronti dell’amministrazione americana, “diffondendo un’immagine di
Netanyahu mai così positiva prima di allora. L’immagine del leader di
uno degli Stati più piccoli e allo stesso tempo più influenti del mondo
che, quasi in un momento di illuminazione, ha mostrato tutto il suo lato
diplomatico” [1].
Una parte della stampa, soprattutto quella israeliana che potremmo chiamare “progressista”,
e anche qualcuno sul web, non la pensa allo stesso modo. Il grafico del
premier è stato considerato “grezzo” e “infantile” ed è stato
paragonato ai fumetti Looney Tunes - quelli di Wile Coyote che insegue
il grande uccello corridore, per capirci.
Nemmeno sulla presunta diplomazia del presidente del Consiglio israeliano
i commentatori sembrano essere d’accordo. Negli ultimi mesi hanno
definito Netanyahu “messianico e “apocalittico”. Aner Shalev, su Haaretz
del 2 ottobre scorso, giudica il recente intervento all’Onu il più
paranoico degli ultimi tempi; sullo stesso quotidiano, Yitzhak Laor ha
affermato che “Bibi si è inserito nella tradizione evangelica dei
predicatori demagoghi”. Anche gli intellettuali israeliani criticano i
toni del premier. David Grossman qualche mese fa affermava che, secondo
la sua linea di pensiero e la sua visione storica, “Israele è il ‘popolo
eterno’ mentre gli Stati Uniti sono una specie di Assiria o di
Babilonia, di Grecia o di Roma dei giorni nostri. Vale a dire: noi [israeliani] siamo per sempre, destinati a rimanere, mentre loro [gli
Usa] sono momentanei, transitori, motivati da considerazioni politiche
ed economiche limitate ed immediate. Il popolo ebraico, invece,
rappresenterebbe la sfera dell'Israele eterno, che porta una
memoria storica in cui balenano miracoli e imprese di salvezza che vanno
oltre la logica e i limiti della realtà” [2].
Abraham B. Yehoshua, dal canto suo, si lamenta del fatto che Netanyahu,
“forse per colpa dei suoi consiglieri religiosi, non si sia riservato
di citare i fatti storici. Certo, ancora una volta ha optato per i
cliché del Regno di Davide; dalle promesse divine fatte nella Bibbia al
popolo ebraico al legame spirituale di quest’ultimo con la terra di
Israele. Ma non gli è venuto in mente di parlare dell’editto di Ciro, re
di Persia, che nel 538 a. C. esortò gli ebrei a fare ritorno in patria e
a ricostruire il loro tempio (un innegabile fatto storico che, se
citato, avrebbe sgretolato le menzogne di Ahmadi-Nejad e suscitato forse
un sentimento di consapevolezza negli iraniani, un popolo dalla
profonda coscienza storica)" [3].
Il pensiero e persino la linea politica di Netanyahu, insomma, apparterrebbero ad un piano metastorico
o, per dirla in altri termini, “mitico”, che mal si adatta alla
concretezza storica del presente. Alla luce di questi fatti, non si può
negare una qualche ragione a giornalisti e intellettuali. Basta
rileggere alcuni passi del discorso per rendersene conto. “Tremila anni
fa - ha ricordato il premier - Davide ha regnato sullo Stato ebraico
nella nostra capitale eterna, Gerusalemme. Lo dico a tutti coloro che
proclamano che lo Stato ebraico non ha radici nella nostra regione e che
sparirà presto. Nel corso della sua storia, il popolo ebraico ha
sconfitto tutti i tiranni che hanno cercato la sua distruzione. E il
popolo di Israele vive. Sfidando le leggi della storia … abbiamo
raccolto gli esuli, restaurato la nostra indipendenza e ricostituito la
nostra vita nazionale. … In Israele camminiamo sulle stesse vie percorse
dai nostri Patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe, ma tracciamo vie nuove
nel campo della scienza, della tecnologia, della medicina,
dell’agricoltura. In Israele, il passato e il futuro trovano un terreno
comune. Oggi si combatte una grande battaglia tra la modernità e il
medievalismo. Le forze del medievalismo vogliono un mondo in cui le
donne e le minoranze siano assoggettate, in cui la conoscenza sia
cancellata, in cui sia glorificata la morte, e non la vita. … Le forze
medievali dell’islam radicale … sono intenzionate a conquistare il
mondo. Vogliono distruggere Israele, l’Europa, l’America. … Vogliono la
fine del mondo moderno. L’islam militante ha molti rami - dai governanti
dell’Iran ai terroristi di Al Qaeda… che, nonostante le loro
differenze, sono radicate nel medesimo terreno amaro dell’intolleranza. …
Ma sono sicuro di una cosa: alla fine soccomberanno. Alla fine, la luce
splenderà tra le tenebre. … Circa settant’anni fa, il mondo ha visto
un’altra forma di fanatismo alla conquista del mondo. Si è consumata tra
le fiamme. Ma prima ci sono voluti milioni di morti …"
Chi si è opposto a quel fanatismo ha aspettato troppo a lungo per agire.
Alla fine ha trionfato, ma ad un costo orribile. Amici miei, non
possiamo permettere che questo accada di nuovo. La posta in gioco non è
solo il futuro del mio paese, la posta in gioco è il futuro del mondo.
Niente può mettere in pericolo il nostro comune futuro più di un Iran in
possesso di armi nucleari. Per capire come sarebbe il mondo con un Iran
in possesso di armi nucleari, basta immaginare il mondo con Al Qaeda in
possesso di armi nucleari. Non fa differenza che tali armi siano in
mano del regime terrorista più pericoloso del mondo o
dell’organizzazione terrorista più pericolosa del mondo. Condividono
entrambe lo stesso odio e sono guidate dalla stessa sete di violenza. Lo
scontro tra la modernità e il medievalismo non deve essere uno scontro
tra progresso e tradizione. Le tradizioni del popolo ebraico esistono da
migliaia di anni. Sono la fonte dei nostri valori collettivi e il
fondamento della nostra forza nazionale. Allo stesso tempo, il popolo
ebraico ha sempre guardato al futuro. … Nel corso della storia, siamo
sempre stati in prima linea per diffondere la libertà, promuovere la
parità e i diritti umani. Sosteniamo questi principi non malgrado le
nostre tradizioni, ma grazie ad esse. Seguiamo le parole dei profeti
ebrei Isaia, Amos e Geremia che ci insegnano a trattare tutti con
dignità e compassione, a cercare la giustizia, ad amare la vita, a
lottare e pregare per la pace. Questi sono i valori senza tempo del mio
popolo e sono il più grande dono del popolo ebraico all’umanità”.
L’Iran nuclearizzato e, di conseguenza, un terrorismo
nuclearizzato capaci di fare sprofondare il mondo in un nuovo
oscurantismo medievale, sembrano essere una vera e propria
“ossessione” per Netanyahu. “È da più di quindici anni che parlo della
necessità di impedire all’Iran di sviluppare armi nucleari", ricorda
ancora il premier nel suo discorso all’Onu. "Ne ho parlato durante il
mio primo mandato come primo ministro, poi ne ho parlato quando il
mandato è scaduto. Ne ho parlato quando era di moda e ne ho parlato
quando non era di moda. E ne parlo adesso perché si sta facendo tardi,
molto tardi. Ne parlo adesso perché quando si tratta della sopravvivenza
del mio popolo, non solo è mio diritto parlare, ma è mio dovere”.
Anche nel discorso all’Assemblea generale dello scorso anno
i toni e gli argomenti erano fondamentalmente gli stessi. “Tra Est e
Ovest sta crescendo qualcosa di maligno che minaccia la pace di tutti. …
Questo qualcosa è l’islam militante. Si copre con il mantello di una
grande fede, ma uccide allo stesso modo ebrei, cristiani e musulmani con
implacabile imparzialità. L’11 settembre ha ucciso migliaia di
americani e ha ridotto le Torri Gemelle a ruderi fumanti. Ieri ho
deposto una corona sul memoriale dell’11 settembre, ma mentre mi recavo
sul posto qualcosa mi echeggiava nella mente: le parole oltraggiose
pronunciate ieri dal presidente dell’Iran su questo stesso podio. Ha
insinuato che gli avvenimenti dell’11 settembre siano stati una
cospirazione americana. ...Da allora l’islam militante ha massacrato
moltissimi altri innocenti a Londra, a Madrid, a Baghdad, a Mumbai, a
Tel Aviv, a Gerusalemme. Credo che il più grande pericolo che il nostro
mondo debba oggi affrontare sia che questo fanatismo si doti di armi
nucleari. E questo è precisamente ciò che l’Iran sta cercando di fare.
Riuscite ad immaginare l’uomo che farneticava qui, proprio ieri, armato
di armi nucleari? La comunità internazionale deve fermare l’Iran prima
che sia troppo tardi. Se non fermeremo l’Iran, ci troveremo di fronte
allo spettro del terrorismo nucleare”.
Se vogliamo parlare di “ossessione”, tuttavia, ci
sembra evidente che l’Iran nuclearizzato e l’islam integralista che
minacciano la stabilità mondiale rappresentino solo alcuni aspetti. Ad
essi vanno aggiunti quelli che mettono più direttamente a rischio
Israele e gli ebrei: l’antisemitismo mai sconfitto; la Shoah; il
pericolo di uno Stato palestinese davvero sovrano e, dunque, anche
militarizzato; il richiamo costante al “miracolo” dell’esistenza di uno
Stato ebraico, forte e ben armato, risorto dalle ceneri di secoli di
oppressione e di massacri; la citazione di particolari passaggi dei
testi sacri che ricordano le vittorie degli Israeliti sui nemici e la
grandezza del passato ebraico. Potremmo riassumere questa “ossessione”
in due argomenti chiave: “pericolo esistenziale e necessità di difesa
per la sopravvivenza” e “ricordo del passato per la costruzione del
presente e del futuro”.
Alcuni commentatori sono convinti che l’uso reiterato di questi argomenti da parte di Netanyahu
sia soltanto retorica, il bluff di un uomo cinico, o pragmatico, a
seconda dei punti di vista, che alla fine si piega sempre a ciò che è
utile o inevitabile. Se da una parte si cerca di convincere l’opinione
mondiale in un intervento contro un Iran che mette a rischio non
soltanto Israele, ma i valori stessi della cultura occidentale e del
mondo moderno, dall’altra la realpolitik rende inevitabile non
inimicarsi l’amministrazione americana. Dunque, per quanto “cattivo” e
medievale possa essere l’Iran di Ahmadi-Nejad, è bene aspettare prima di
attaccarlo. Tutto ciò che si può fare è stabilire una linea rossa che
non gli si deve permettere di oltrepassare.
Eppure, l’interpretazione potrebbe essere un’altra.
Un’analisi più approfondita del pensiero di Netanyahu, in particolare, e
della tradizione ebraica, in generale, potrebbe contribuire a trovare
una spiegazione diversa dal cinismo o dal pragmatismo che dir si voglia.
Lo sviluppo intellettuale di Netanyahu è avvenuto all’ombra del padre Ben-Zion,
grande ammiratore di Ze’ev Jabotinski, fondatore del sionismo
revisionista, ed eminente studioso dell’ebraismo spagnolo. Il suo libro
più famoso, Le origini dell’Inquisizione nella Spagna del XV secolo, giunge alla conclusione che l’antisemitismo di ogni tempo e luogo è una forma di odio sui generis
che, adattandosi alle diverse circostante, è impermeabile ad ogni
logica ed è eterna. Come insegna la sorte degli ebrei spagnoli e dei
milioni di altri ebrei sterminati dagli antisemiti, la risposta ad un
simile sentimento non può essere né la ragionevolezza, né la debolezza,
ma solo l’autodifesa militante. All’esempio del padre si è aggiunto
anche quello del fratello Yonatan, ucciso mentre era al commando del
raid di Entebbe nel 1976 e divenuto forse la figura più venerata nella
martiriologia ebraica post-Ghetto di Varsavia, probabilmente perché
Entebbe simbolizza l’espressione più pura della reazione ebraica moderna
alla passività.nsomma, Bibi avrebbe imparato tre cose ben precise, in famiglia:
la prima è che quelli che minacciano gli ebrei, e hanno i mezzi per
concretizzare le loro minacce, devono essere neutralizzati
preventivamente; la seconda è che nessuno difenderà gli ebrei se non gli
ebrei stessi; la terza è che il destino ha scelto i Netanyahu per
scoprire e combattere l’antisemitismo prima che raggiunga il genocidio
[4].
Ma non bastano le memorie familiari a giustificare una simile “ossessione”.
Netanyahu si richiama a memorie ben più antiche, che fanno parte di
quella che Jan Assmann, noto egittologo e studioso dei legami tra
ricordo, identità e tradizione, chiama “memoria culturale” . “Tale
memoria basa sul passato e si coagula in figure simboliche a cui viene
ancorato il ricordo, aprendo i riflettori sulle situazioni presenti”
[5]. Ebbene, una delle figure simboliche a cui Netanyahu fa riferimento è
Amalek, capostipite di quegli amalechiti che, in base al racconto del
Deuteronomio, attaccarono la retroguardia degli israeliti in fuga
dall’Egitto e che furono sconfitti grazie all’intervento divino.
L'aggressione di Amalek è la prima esperienza di guerra del popolo
ebraico all'indomani della sua uscita dall'Egitto; si tratta, quindi,
del primo vero conflitto di cui parla la Torah. Una vittoria così
importante che a Mosè fu comandato di scriverla nel suo Libro per farla
diventare, a pieno titolo, un momento paradigmatico dell'esperienza
storica dell'ebraismo. La tradizione ebraica vede in Amalek l'archetipo
dell'antiebraismo gratuito e irrazionale di tutte le generazioni, il
precursore di quanti, nei secoli a venire, minacceranno l'esistenza di
Israele. Tanto è vero che il preciso ammonimento "Ricorda ciò che ti ha
fatto Amalek", ribadito dalla Torah (Deuteronomio 25, 17) è annoverato fra i 613 precetti cui si deve informare la vita di ogni ebreo [6].Amalek è dunque il nemico allegorico degli ebrei,
diventato il simbolo di tutti gli antisemiti che nel corso della storia
hanno cercato di distruggere il popolo ebraico. Non è di certo stato un
caso che, durante il discorso in occasione della Giornata Internazionale
della Memoria ad Aushwitz-Birkenau del 2010, Netanyahu abbia ricordato
proprio quel precetto. “Forse [alcuni dei miei fratelli gassati,
bruciati e uccisi in mille altri modi] hanno pronunciato, esalando
l’ultimo respiro, un’altra antica preghiera: “Ricorda ciò che ti fece
Amalek. Non dimenticare mai! A coloro che qui sono stati assassinati, a
coloro che sono sopravvissuti alla distruzione, io faccio una promessa:
Non dimenticheremo mai! Non permetteremo mai a chi ha dissacrato questo monumento di distorcere o cancellare il vostro ricordo.
[7] Ricorderemo sempre ciò che gli eredi nazisti di Amalek vi hanno
fatto. Saremo sempre pronti a difenderci quando un nuovo Amalek compare
sul palcoscenico della storia e minaccia di nuovo di annientare gli
ebrei. Non ci illuderemo credendo che le minacce, le diffamazioni e la
negazione della Shoah siano soltanto parole vuote. Non dimenticheremo
mai. Saremo sempre vigili”.
L’identificazione di Amalek con i nazisti è incontrovertibile,
ma non meno evidente è l’identità del “nuovo Amalek” che vuole
cancellare “il ricordo”, che diffama e che nega la Shoah. Da qui nasce
l'accostamento tra l'Iran e i nazisti. Del resto, come Bibi ha imparato
dal padre, l’antisemitismo è eterno; se Amalek è stato il primo
antisemita della storia, i suoi degni eredi, come insegna anche parte
della tradizione ebraica, sono stati Nabucodonosor, i crociati,
l’Inquisizione e, in tempi più recenti, gli arabi, i palestinesi e ora
anche l’Iran e l’integralismo islamico [8]. Come lo stesso Netanyahu ha
rimarcato nel discorso alle Nazioni Unite dello scorso settembre, non vi
è differenza tra il regime terroristico iraniano e le organizzazioni
terroristiche islamiche: entrambi incarnano l’oscurantismo medievale che
vuole mettere fine al mondo occidentale e moderno.
Gli ebrei, però, non sono più quelli di una volta, deboli e remissivi.
Hanno imparato a difendersi e “quando si tratta della sopravvivenza di
Israele, noi ebrei dobbiamo sempre rimanere padroni del nostro destino”
ha affermato orgogliosamente il premier durante il suo intervento
all’American Israel Public Affairs Committee nel marzo di quest’anno.
“In questi giorni- ha continuato - nelle sinagoghe di tutto il mondo gli
ebrei festeggeranno il Purim. Leggeremo di come 2.500 anni fa un antisemita persiano
[9] cercò di annientare il popolo ebraico e di come il suo piano fu
sventato da una donna coraggiosa: Ester. In ogni generazione c’è
qualcuno che vuole distruggere il popolo ebraico”.
L’antisemita persiano è Aman, discendente di Amalek e consigliere del re Assuero.
Nemmeno questa citazione è stata una circostanza un caso. Né può
esserlo l'episodio che, in occasione dell’incontro tra Netanyahu e Obama
(sempre nel marzo 2012) ha visto il premier israeliano donare al
presidente americano un’edizione istoriata della Megillat Esther,
il Rotolo di Ester, in cui questa storia è narrata. Forse ha ragione
Yeoshua: Netanyahu sarebbe più credibile e incisivo, e potrebbe fare
breccia tra gli iraniani, se si attenesse alla storia e non al “mito”.
Al termine “mito” viene di solito associato il significato di “racconto falso”,
fantastico e privo, dunque, di qualunque fondamento storico. Ma anche i
miti sono quelle “figure di ricordo” essenziali per la memoria
culturale di cui parla Assmann. Anzi, sostiene ancora lo studioso, “la
differenza tra mito e storia cessa di valere. … Per la memoria culturale
è valida non la storia de facto, ma solo quella ricordata; si potrebbe anche dire che nella memoria culturale la storia de facto
viene trasformata in storia ricordata e dunque in mito. Il mito è una
storia fondante, una storia che viene raccontata per chiarire il
presente alla luce delle origini … Nel ricordo della propria “storia” e
con l’attualizzazione delle figure del passato, il gruppo assoda
propria identità” [10].
Del tutto a prescindere dal problema della
loro dimostrata storicità, dunque, la narrazione di certi episodi o il
ricordo di determinati personaggi conservano un valore, dal momento che
conferiscono un significato al presente e rafforzano l’identità del
gruppo e, quindi, la sua coesione interna.
Potremmo probabilmente aggiungere altri due “argomenti chiave” all’ossessione di Netanyahu: l’identità e la coesione interna di Israele. Ma quale identità?
Sin dalla nascita dello Stato ebraico, la società
civile e la politica israeliana sono state estremamente sfaccettate,
come lo furono, del resto, lo stesso movimento sionista e
l’atteggiamento dell’ortodossia religiosa nei suoi confronti. Il mondo
religioso ebraico si divise sin dall’inizio sull’opportunità o meno di
un ritorno in Eretz Israel, la Terra d’Israele. Una parte dell’ortodossia più conservatrice, che aveva già combattuto la haskalah,
l’illuminismo ebraico e la crescente assimilazione, si oppose
all’emigrazione ebraica in Palestina in base ai tre giuramenti del
Talmud pronunciati alla vigilia della dispersione: il divieto di
ritornare in massa e in modo organizzato in Terra d’Israele; il veto di
non ribellarsi contro le Nazioni; il fatto che le Nazioni non avrebbero
sottomesso il popolo d’Israele oltre misura [11]. Soltanto con l’arrivo
del Messia Israele avrebbe potuto riunirsi e tornare ad essere
indipendente, creando quindi uno Stato nazionale su basi politiche, il
che avrebbe il significato di una ribellione ai voleri divini.
Tale posizione oltranzista, benché ancora sostenuta dai Naturei Karta e dal gruppo haredi dei
Satmar, è oggi del tutto minoritaria. Parte degli antisionisti
religiosi fondò, in seguito alla diaspora, l’Agudat Yisrael che, dopo la
Shoah e la distruzione dei grandi centri dell’ebraismo in Europa
centrale ed orientale, accettò lo Stato come un fatto compiuto ed ebbe
la sua rappresentanza alla Knesset [12]. Una parte dei religiosi,
invece, si dimostrò non solo favorevole al sionismo, ma lo considerò
addirittura come l’inaugurazione dei tempi messianici. Secondo gli
insegnamenti del principale teorico del sionismo religioso, Rav Abraham
Yitzhak Kook, era necessario sostenere il movimento secolare e, a questo
fine, promuovere la collaborazione tra laici e ortodossi. I
nazional-religiosi sono oggi politicamente attivi all’interno di
numerosi partiti, tra cui il Likud, il Mafdal (Partito
nazional-religioso) e Habayt Hayehudit [13]. Il movimento sionista ha
dato vita ai partiti storici del Mapai di Ben Gurion, confluito nel
Partito Laburista nel 1968, e dell’Herut, confluito nel 1973 tra le
schiere del Likud di Menachem Begin, Ariel Sharon e Netanyahu. La
nascita di uno Stato democratico ha dato vita ad una miriade di altri
partiti che costituiscono, insieme ai minoritari movimenti arabi [14],
il complesso scenario politico israeliano. Le enormi difficoltà con il
mondo arabo-palestinese, datato alla nascita del sionismo stesso, e la
quasi impossibilità di creare una pace duratura con i palestinesi
all’interno e con i paesi circostanti all’esterno, hanno ulteriormente
contribuito a frammentare la società israeliana, le cui posizioni vanno
da quelle oltranziste dei coloni a quelle dei membri di movimenti come
Shalom Achshav (Pace adesso).Prima di Herzl, l’ebreo derivava la propria identità dalla Torah,
dunque da fattori esclusivamente religiosi. Il sionismo vuole invece un
“nuovo ebreo”, la cui essenza non è più l’appartenenza religiosa, ma
quella ad uno Stato indipendente stanziato su un determinato territorio.
Il sionismo vuole la “normalizzazione” degli ebrei in una compagine
nazionale simile a quella di tutti gli altri popoli, senza dimenticare
la tradizione e rivendicando i “diritti storici” sulla Terra dei Padri;
una terra rimasta “sacra”, ma in termini ormai laici e non più
religiosi. Il “nuovo ebreo”, tuttavia, non ha mai sostituito quello
“vecchio”. La storia di Israele è fatta anche di numerosi compromessi
tra l’anima ebraica religiosa e quella laica. Fu proprio David Ben
Gurion ad inaugurare tale compromesso, cercando la piena partecipazione
al neonato Stato anche da parte della galassia ultraortodossa; sebbene
lo stesso Ben Gurion ritenesse che quest'ultima si sarebbe ridotta
numericamente nel corso degli anni. È per questo motivo che nello Stato
ebraico si continua ad osservare lo shabbat, che le festività religiose sono anche nazionali e che nelle mense pubbliche si osserva la kasherùt.
Sempre grazie al compromesso, i tribunali rabbinici sono gli unici
abilitati a giudicare materie di stato civile, mentre i giovani studenti
delle yeshivot sono esentati dal servizio militare [15].
Sino ad oggi il compromesso sembra aver funzionato, ma che cosa riserverà il futuro?
Divisi tra ultra-ortodossi antisionisti, nazional-religiosi, laici
progressisti, coloni o pacifisti oltranzisti: falchi e colombe. Chi sono
gli israeliani di oggi e chi saranno quelli di domani? Chi sono e chi
saranno gli ebrei? Non è mai facile definire chiaramente i confini di
un’identità di gruppo, religiosa, nazionale o politica che sia. Anzi,
contrariamente alla tendenza corrente, soprattutto quando si tratta di
conflitti etnici, culturali e religiosi, dovremmo abituarci a
considerare l’identità come qualcosa di fluido, che muta in base al
contesto, alle necessità, ai rapporti di forza e alla Storia [16]. Ma
la teoria è una cosa, la realtà un’altra. Per quanto fluida e
culturalmente costruita possa essere, teoricamente l’identità, per chi
si riconosce in essa, è un fatto assolutamente concreto ed
imprescindibile. Senza un’identità comune e senza una memoria culturale
comune la coesione sociale può venire, pericolosamente, a mancare.
Forse è ciò che comincia ad accadere agli ebrei di Israele e della diaspora. In un recente articolo comparso su Haaretz,
dal titolo “È arrivata la nostra data di scadenza?”, Kobi Niv riporta
le parole di Henry Kissinger, ex segretario di Stato americano,
pronunciate all’inizio dell’ottobre di quest’anno: tra dieci anni
Israele non esisterà più. Una sciocchezza, commenta sarcasticamente Niv,
e per tre motivi: il primo, è che i nostri leader ci dicono che Israele
è per sempre; il secondo, perché abbiamo un buon esercito, bombe
intelligenti, un’economia stabile e anche l’high-tech; terzo, perché Dio
è dalla nostra parte.
Ma quale Israele ci sarà tra dieci anni? La
preoccupazione dell’autore è che sia in corso una lotta per “l’anima
degli ebrei israeliani”. E’ una lotta tra l’ala sionista religiosa e
quella laico-progressista. Alcuni sostengono che, alle prossime
elezioni, i laico-progressisti, “grazie all’influenza di una qualche
costellazione, con l’aiuto di Dio, di qualche combinazione casuale o di
chissà quale abracadabra”, riusciranno ad edificare un governo. Ma la
realtà è un’altra: i sionisti religiosi hanno già vinto. Hanno vinto
perché la maggior parte degli israeliani sono sionisti religiosi.
Bisogna solo capire se lo sono al 70, o anche solo al 60%. E quando
raggiungeranno la “massa critica del 90%”. Chi sarà in grado di
rovesciare il governo dei sionisti religiosi? (Leggi: governo
Netanyahu). Pian piano, tutto passa sotto il loro controllo: il sistema
scolastico, l’esercito, i tribunali, i media. “E se sollevassimo gli
occhi oltre i muri che abbiamo innalzato per nascondere la realtà che
cosa vedremmo? Forse il ghetto di Gaza scomparirà e cesseranno le
ostilità al suo interno se continuiamo ad ignorarlo? I palestinesi del
West Bank diventeranno più sionisti con l’aumentare degli insediamenti? E
se bombardiamo l’Iran, questo migliorerà i legami con i paesi della
regione o, piuttosto, li peggiorerà? Se continueremo su questa linea,
fra tre, sette o dieci anni Israele diventerà più sionista religioso,
più fanatico, gretto e senza freni”. Un articolo duro, dai toni
“apocalittici” come certi discorsi del premier, anche se arriva dall’ala
laico-progressista, pertanto contraria all’attuale governo. Un articolo
che riflette anche sulla “questione morale” nei confronti dei
palestinesi e sui rapporti con il mondo arabo-musulmano circostante.
Sono questi due atteggiamenti “messianici” che potrebbero davvero mettere in pericolo l’esistenza di Israele? E la questione non è soltanto l’esistenza concreta di uno Stato ebraico, ma lo status morale che un tale Stato assumerà.
L’apocalittica retorica di Netanyahu sottolinea il pericolo di un islam oscurantista e medievale,
sia all’interno che all’esterno dei confini nazionali. In qualche modo,
il suo atteggiamento nei confronti del pericolo nucleare iraniano e di
uno Stato palestinese realmente sovrano sono le due facce di una stessa
medaglia. I suoi toni, però, non si richiamano semplicemente alla
“tradizione”, come del resto ha sempre fatto anche il sionismo, ma sono
di stampo prettamente religioso e, con le dovute cautele,
“fondamentalista”, dando al termine il suo significato originario di
“basato sui fondamenti” di un determinato credo [17].
Anche il concetto di fondamentalismo, come quello di
identità etnica e culturale, è sfuggente e fluido e sono definiti
“fondamentalisti” gruppi che condividono alcune caratteristiche ma le
cui finalità e i cui mezzi per conseguirle sono molto diversi. Il
premier Israeliano, almeno per ciò che si evidenzia dai suoi discorsi,
condivide con i fondamentalisti l’idea di una lotta in cui la luce
trionferà sulle tenebre, il bene sul male; infine quella dell’esistenza
di un “nemico” da cui ci si deve guardare per continuare ad esistere
[18], sia esso Amalek, l’Iran, Hamas, Hezbollah, il terrorismo o uno
Stato palestinese indipendente a tutti gli effetti. Forse bisognerebbe
riflettere anche sul perché Netanyahu ricordi spesso (lo ha fatto anche
nel discorso all’Onu dello scorso anno) il suo incontro con Menachem
Mendel Schneerson, ultimo Rebbe del movimento Habad Lubavitch, ritenuto
il Messia da molti dei suoi seguaci. Nel 1984 - racconta - quando venni
nominato ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite, feci visita al
grande rabbino Lubavitch. Mi disse che stavo per prestare servizio in
una casa dalle molte menzogne. Ma ricorda - aggiunse - che anche nel luogo più buio la luce di una sola candela può essere vista da molto lontano”.In qualunque modo si voglia interpretare la frase,
certo ha in sé qualcosa di arcano e di profetico; e non ci sembra troppo
azzardato vedere, sotto tale prospettiva, la luce di Israele (e del suo
ambasciatore) nel buio di un’Organizzazione che ha equiparato il
sionismo al razzismo. Il rabbino Schneerson, scomparso nel 1994, era un
personaggio controverso, amato in alcuni ambienti ed aspramente
criticato in altri. Nel 1978, il presidente americano Jimmy Carter
proclamò l’Education and Sharing Day (Giornata dell’istruzione e
della condivisione), da celebrarsi ogni anno in occasione del
genetliaco del Rebbe, a ricordo dell’opera umanitaria svolta dal
movimento Lubavitch in tutto il mondo, tra gli ebrei e i non-ebrei [19].
L’altra “faccia” di Schneerson e del suo movimento, tuttavia, è
rappresentata dalla drastica opposizione alla cessione di anche un solo
centimetro della terra d’Israele e di quei territori occupati dalla
maggior parte delle nazioni del mondo, ma definiti dagli israeliani
Giudea e Samaria, secondo gli antichi nomi biblici. Quelle terre furono
promesse da Dio al suo Popolo e ad esso solo appartengono. Il movimento
Chabad, inoltre, è stato ed è a tutt'oggi sostenitore di Netanyahu e
della sua coalizione di governo, che ha fortemente appoggiato le sue
campagne elettorali.
Forse anche le posizioni dei laici progressisti, del quotidiano Haaretz, di Grossmann, di Oz e di Yeoshua
hanno qualcosa di fondamentalista. Secondo loro il “buio” e il “nemico”
sono tutto ciò che Netanyahu e i nazional-religiosi rappresentano.
Forse è proprio lo scontro tra questi due “messianismi”, tra queste
visioni apocalittiche che mettono in risalto un rischio incombente, che
rischia di mettere realmente in pericolo l’esistenza e lo status morale
di Israele; più ancora della minaccia nucleare iraniana. Dovremo
aspettare le prossime elezioni per sapere chi sarà il vincitore.
A proposito di Amalek occorre aggiungere un’ultima riflessione.
Sul sito del movimento chassidico Breslov [20], si legge: “Un altro
aspetto di Amalek è oggi assai diffuso: quello dei falsi leader. Nella
Torah è scritto: Amalek ha colpito le tue retrovie (Deuteronomio,
25:18). I nostri Saggi insegnano: Amalek ha separato le code e le ha
gettate in alto (Midrash Tanchuma, Ki Taytze 10). Reb Noson scrive:
Amalek scoprì un modo astuto per distruggere il popolo d’Israele.
‘Prende le code’, cioè persone di bassa o nessuna levatura, e le “getta
in alto”, cioè le trasforma in leader israeliani (Likutey Halakhot,
Shabbat, 5:9) [21] . In questo modo il popolo ebraico è stato condotto
erroneamente a credere che i suoi leader siano uomini di valore mentre,
in realtà, sono persone ordinarie incapaci da fare da guida
Saranno gli israeliani a dare al succitato passo l’interpretazione che ritengono più giusta.
Note:
1. Nello Scalzi, Meridiani, 10 ottobre 2012.
2. “L’Iran, Re Bibi e il ‘popolo eterno’ di Israele”, Il Corriere della Sera, 3 agosto 2012
3. A.B. Yehosuha, La Stampa, 1 ottobre 2012.
4. Si riporta in parte l’articolo di Jeffrey Goldberg dal titolo “Israel’s fears, Amalek’s arsenal”, apparso sul New York Times
del 16 maggio 2009. Sull’influenza del padre Benzion, vedi anche
l’articolo di Akiva Eldar, “The shadow that Netanyahu’s late father
cast: the world is against us”, su Haaretz del 30 aprile 2012.
Riguardo al “destino dei Netanyahu”, riportiamo un passo tratto dal
Discorso all’assemblea Generale dell’Onu del 2011 che ci sembra
interessante. “Nel mio ufficio a Gerusalemme ho un antico sigillo. È
l’anello di un funzionario ebreo dei tempi biblici, scoperto vicino al
Muro Occidentale e che risale a 2700 anni fa, durante il regno di
Ezekia. Su quell’anello è impresso il nome del funzionario ebreo. Si
chiamava Netanyahu. Che è il mio cognome. Il mio nome, invece, Binyamin,
è antico di millenni ed è il nome di uno dei figli di Giacobbe,
conosciuto anche come Israele. Giacobbe e i suoi dodici figli abitarono
proprio queste colline di Giudea e Samaria 4000 anni fa e da allora, in
questi luoghi, c’è sempre stata una presenza ebraica”.
5. Jan Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Einaudi, 1997, pp.26-27. Per lo studioso, il caso ebraico è l’esempio paradigmatico di tale memoria culturale.
6. Roberto Della Rocca, "La Rassegna Mensile di Israel", n.1-2 (Terza Serie) Gennaio-Agosto 1993.
7. Il corsivo è mio. È chiaro il riferimento ad Ahmadi-Nejad.
8. A questo proposito, è interessante riportare che sta facendo il
giro del web un video del 2002: si tratta del discorso tenuto da
Binyamin Netanyahu alla House Committee on Oversight and Government
Reform (Comitato della casa dei rappresentanti per la supervisione e la
riforma del governo) degli Stati Uniti. L’allora cittadino privato
Netanyahu metteva in guardia gli americani dal dittatore iracheno. “Non
vi è assolutamente alcun dubbio - sosteneva - sul fatto che Saddam stia
lavorando allo sviluppo di armi nucleari e stia facendo dei progressi. …
E non c’è dubbio che, una volta che sarà in possesso di tali armi, la
storia cambierà drasticamente”. E concludeva: “Oggi, gli Stati Uniti
devono distruggere quel regime perché un Saddam Hussein in possesso di
armi nucleari metterà a rischio la sicurezza di tutto il mondo. E non vi
illudete: se e quando Saddam avrà armi nucleari, anche la rete del
terrore avrà armi nucleari”. Un altro Amalek, questa volta iracheno, che
vuole dotarsi di armi nucleari. Anche in questo caso, insieme a lui
anche i terroristi islamici saranno dotati di armi nucleari. La storia
si ripete, di qualunque nazionalità sia l’Amalek di turno.
9. Anche qui il corsivo è mio.
10. J. Assmann, op. cit., pp. 26-27.
11. Yakov M. Rabkin, Una minaccia interna. Storia dell’opposizione ebraica al sionismo,
Ombre Corte, 2005, pp. 86-87. Quanto a “non sottomettere il Popolo
d’Israele oltre misura”, è certamente peculiare che siano gli ebrei a
fare un giuramento in nome delle nazioni della terra.
12. Il partito si interessava principalmente al benessere dei propri
elettori, tenendosi lontano dalla politica attiva se non nei campi
riguardanti le istituzioni educative, la distribuzione degli alloggi
pubblici, del welfare, dell’esenzione dal servizio militare e del
carattere religioso dello Stato. In passato, non aveva una chiara
posizione nello spettro politico destra-sinistra ma, dall’inizio degli
anni Novanta, viene identificato con le posizioni nazionaliste. (Da www.knesset.gov.il.
Parliamentary Groups, Agudat Yisrael). Alla Knesset è presente un altro
partito religioso originariamente antisionista, lo Shas, nato nel 1984
per proteggere gli interessi dei sefarditi, dimenticati, a parere dei
loro leader, dall’ashkenazita Agudat. Contrariamente a quest’ultimo, lo
Shas, che sostiene comunque posizioni considerate “di destra”, ritiene
la vita umana più importante del possesso del territorio.
13. Il
Mafdal e Habayt Hayehudit costituiscono attualmente un unico gruppo
parlamentare all’interno della Knesset. Il Mafdal, noto anche come Nrp
(National Religious Party) nacque nel 1956 dall’unione del Mizrachi
(movimento sionista religioso fondato a Vilna nel 1902) e dell’Hapoel
Mizrachi. “Sino alla guerra dei Sei Giorni nel 1967, il Mafdal era
considerato un partito moderato ma, dopo la guerra, le posizioni
nazionalistiche del partito si sono rafforzate, in special modo dopo la
creazione del movimento Gush Emunim (Blocco dei fedeli) nel 1974 (dal
sito ufficiale della Knesset, www.knesset.gov.il). I nazionalreligiosi e Gush Emunim sono spesso considerati estremisti, sia in Israele, sia nella diaspora. Secondo Giorgio Gomel,
co-fondatore del Gruppo Martin Buber, “i sionisti religiosi, un tempo
politicamente moderati, sono ormai dominati dall’estremismo
nazional-religioso. Con la nascita del Gush Emunim negli anni ‘70 - il
movimento che ha fornito ai coloni il fondamento teologico della loro
azione, affermando l’integrità e sacralità di Eretz Israel, promessa da
Dio agli ebrei e riservata quindi al loro possesso esclusivo, come un
assoluto irrinunciabile - il sionismo religioso è scivolato via via
nell’estremismo politico, una minaccia crescente, purtroppo a lungo
sottovalutata, per la natura democratica del paese”. Nel 1983, Amos Oz,
scrittore e intellettuale israeliano, affermava nel suo In terra di Israele”:
“Dal punto di vista ebraico quella dei coloni è una concezione
integralista e monomane : una concezione che riduce l’ebraismo a
religione, la religione a culto e il culto a un unico oggetto:
l’integrità della Terra di Israele” (da: http://www.martinbubergroup.org/documenti/art12-2.asp).
14. I parlamentari arabi sono attualmente nove, appartenenti ai partiti Hadash, National Democratic Assembly e Ra’am-Ta’al.
15. Dall’agosto di quest’anno, l’esenzione dal servizio militare degli
ultra-ortodossi, prevista dalla legge Tal, è stata abolita.
16. Per approfondimenti sul tema dell’identità vedi Ugo Fabietti, L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, Carocci, 1998; Francesco Remotti, L’ossessione identitaria, Laterza, 2007 (1° ed. 1996); Francesco Remotti, L’ossessione identitaria, Laterza, 2010.7. Il termine “fondamentalismo” viene oggi associato a gruppi di diversa
estrazione religiosa e, in relazione all’islam, ha assunto un
significato altamente negativo. Le sue origini, tuttavia, vanno
ricercate nell’ambito del cristianesimo protestante statunitense che
reagisce, con la pubblicazione dei cinque principi fondamentali della
fede cristiana (1895) al liberalismo teologico, al modernismo e al
darwinismo. Tra il 1905 e il 1915, esce l’opera in dodici volumi
intitolata The Fundamentals e nel 1920 i teologi del movimento
vengono definiti per la prima “fondamentalisti” dal giornalista Curtis
L. Laws. Da S. Allievi, D. Bidussa, P. Naso, Il libro e la spada. La sfida dei fondamentalismi, Claudiana, 2000.
18. Per una definizione del concetto di fondamentalismo, vedi Luca Ozzano, Fondamentalismo e democrazia,
Il Mulino, 2009, particolarmente pp. 21-57. Sull’esistenza di un
fondamentalismo ebraico vedi anche Laurence J. Silberstein (edito da), Jewish Fundamentalism in Comparative Perspective, New York University Press, 1993: e Israel Shahak e Norton Mexvinsky, Jewish Fundamentalism in Israel, Pluto Press, 2004.
19. In occasione dell’Education Day del 2009, il presidente Obama ha
detto: "Pochi hanno capito e promosso queste idee più del rabbino
Menachem Mendel Schneerson, il Lubavitcher Rebbe, che ha sottolineato
l’importanza dell’istruzione e della disponibilità verso gli altri.
Grazie alla creazione di centri educativi e dedicati ai servizi sociali
in tutto il mondo, il rabbino Schneerson ha cercato di stimolare e di
ispirare persone di ogni età. Rinnoviamo oggi il suo impegno”.
20. www.breslov.org/where-is-amalek-today/.
Il movimento Breslov fu fondato alla fine del 1700 da Rav Nachman,
pronipote del Baal Shem Tov, a sua volta fondatore del chassidismo ed
eminente figura all’interno dell’ebraismo.
21. Il Likutey Halakhot è
un’opera i otto volumi redatta dal fondatore del movimento Breslov. Si
tratta di commenti ai codici della Legge.
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