La lotta ad al-Qaeda undici anni dopo di Ludovico Carlino


 Pochi giorni fa Jason Burke, giornalista britannico esperto di terrorismo jihadista, scriveva dalle pagine del Guardian che se è possibile trovare una costante dietro tutte le guerre lanciate dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 questa va ricercata in una semplice domanda: che cos’è al-Qaeda?

 di Ludovico Carlino



Burke ha sicuramente ragione, al-Qaeda non è più quell’organizzazione in grado di colpire nel cuore degli Stati Uniti come undici anni fa, e a prescindere dalle varie fasi che il gruppo ha attraversato nell'ultimo periodo (Burke ne individua quattro), è evidente la sua continua e costante evoluzione.
E se l’organizzazione ancora oggi sfugge a quasiasi categorizzazione, l'America ha invece mantenuto quasi immutata la sua risposta alla minaccia del cosiddetto 'Jihad Globale'.
A undici anni di distanza dagli attentati contro le Torri Gemelle, sembra quindi lecito domandarsi se le varie dottrine di contro-terrorismo ideate dalle due differenti amministrazioni statunitensi, di cui una repubblicana e l'altra democratica, siano state effettivamente in grado di contenere la proliferazione di gruppi jihadisti legati o semplicemente ispirati da al-Qaeda.

È vero che il contrasto al terrorismo jihadista non è monopolio unico ed esclusivo degli Stati Uniti, ma è qui che la 'Guerra al Terrore' è stata ideata, è la Casa Bianca ad aver lanciato due guerre in nome della lotta ad al-Qaeda, e statunitensi continuano ad essere la maggior parte dei droni che ancora adesso portano avanti una guerra non dichiarata dal Nord Africa al Sud Est asiatico.
Sempre in nome della lotta ad al-Qaeda.Eppure i critici della strategia messa a punto dall’allora amministrazione Bush in occasione dell’invasione dell’Afghanistan nel 2001, non mancavano neanche al tempo.
La maggior parte delle voci contrarie avanzava inizialmente una critica piuttosto chiara, e cioè come poter contrastare un fenomeno politico come il terrorismo, da tradizione europea generalmente contenuto attraverso le ordinarie forze di sicurezza, con un intervento militare.
Le attenuanti dell’amministrazione Bush erano tuttavia comprensibili, poiché era chiaro già all’epoca che al-Qaeda non rientrava nei canoni delle classiche organizzazioni terroristiche, peraltro lontane dalla stessa tradizione di violenza politica, eccetto rari casi, che aveva interessato gli Usa fino ad allora.
Attenuanti comprensibili, ma fortemente criticabili.

Una guerra dichiarata ad un concetto (war on terror), un’azione militare contro un nemico non ben identificato e sfuggente (al-Qaeda), una guerra poi scatenata per ragioni chiaramente differenti (l’Iraq), tutto condito dalla paranoia statunitense derivante dalla Guerra Fredda e dalla scrupolosa ricerca di un nuovo avversario da sostituire all’Unione Sovietica.
La dottrina Bush rivelò poi tutto il suo fallimento strategico in occasione della guerra in Iraq.

A prescindere dalle motivazioni politiche alla base di quel conflitto, e volendo limitare l’analisi a quello che la guerra in Iraq ha rappresentato per al-Qaeda, in molti non hanno avuto remore a definirlo il più grande regalo che si potesse al tempo fare all’organizzazione di Osama Bin Laden.
L’idea del Jihad Globale, in fase di palese declino in quel frangente, trovò nuova linfa proprio nel periodo dell’occupazione statunitense, e dalle ceneri della distruzione irachena presero forma una miriade di gruppi affiliati ad al-Qaeda che ancora oggi ne rappresentano la sua incarnazione scolorita.

L’Iraq si trasformò nel nuovo campo di battaglia per aspiranti jihadisti che nel paese del Tigri e dell’Eufrate andavano ad inseguire il loro sogno di califfato islamico, senza considerare il fatto che i qaedisti in realtà in Iraq prima non ci stavano.
Ancora oggi, tuttavia, proprio la guerra dell’Iraq è considerata come uno dei principali fattori di mobilitazione della base jihadista, preceduta solo dalla causa palestinese.

Il fallimento della strategia Bush, ha quindi spinto la successiva amministrazione, quella Obama, ad una ridefinizione della lotta al terrore che nei fatti ha seguito una logica differente più che altro nel nome.
Accantonato il concetto di 'Global War on Terror', puntando ad un nuovo corso nelle relazioni con il mondo musulmano e promettendo un taglio netto con le pratiche legate all’amministrazione Bush (dalla tortura mascherata in tecniche di interrogatorio duro alla chiusura di Guantanámo), l’amministrazione Obama ha cercato sin dall’inizio di promuovere una sua visione differente della lotta ad al-Qaeda.
Nella realtà, quello che la nuova strategia statunitense ha fatto è stato modificare gli strumenti utilizzati, lasciando in piedi una serie di dinamiche e costanti che spesso la minaccia, più che contenerla, l’avevano perpetuata.

Il sostegno ai regimi autocratici del Medio Oriente, considerati preferibili ad una deriva jihadista, ed il costante flusso di aiuti militari concesso ai dittatori di turno che sfruttando la minaccia di al-Qaeda hanno costruito la loro macchina repressiva, è iniziato a venire meno solo quando il malcontento popolare è stato troppo grande per non scuotere lo status quo.
Gli interventi militari sono stati sostituiti da un utilizzo massiccio di team per le operazioni speciali, mentre i droni della Cia si sono rapidamente convertiti in una nuova arma, la 'migliore' secondo l’amministrazione Obama.
Il consigliere per l’antiterrorismo di Obama, John Brennan, ha anzi dichiarato pochi mesi fa che l’utilizzo dei droni per uccidere i terroristi di al-Qaeda è "etico, legale e saggio".

Dall’inizio del suo mandato, gli Stati Uniti avrebbero effettuato circa 2000 attacchi mediante droni tra Pakistan, Yemen, ed altre zone del Nord Africa, una campagna ancora in parte sotto segreto per via delle clandestinità di tali operazioni gestite prevalentemente dalla Cia.
Nonostante le riserve legali, morali ed etiche sollevate da gruppi per i diritti umani e da alcuni giuristi internazionali alle prese con una nuova fattispecie del diritto dei conflitti, l’amministrazione Obama invoca a fondamento di tale strategia la legittima difesa, rimanendo di fatti sulla stessa linea della guerra preventiva teorizzata a suo tempo da Bush e dai suoi consiglieri.
I difensori dell’uso dei droni sostenengono che in realtà i droni sono più efficaci perché hanno permesso l’eliminazione di figure di spicco di al-Qaeda, e causerebbero un numero minore di vittime civili, i cosiddetti 'danni collaterali', proprio grazie alla loro tecnologica e chirurgica precisione.
Numerosi studi, uno dei quali recentemente pubblicato dalla Stanford University, suggeriscono tuttavia che il numero delle vittime civili causate dai droni è invece molto più elevato di quanto riconosciuto dai funzionari dell’antiterrorismo statunitense, oltre a fomentare i sentimenti anti-statunitensi tra le popolazioni dei paesi colpiti e creare nuovi potenziali serbatoi di reclutamento per jihadisti ed estremisti.

Il successo più evidente del team di antiterrorismo dell’amministrazione Obama rimane ad ogni modo l’uccisione di Osama Bin Laden, ottenuta comunque dopo una caccia all’uomo decennale e correndo il rischio di peggiorare i sempre tesi rapporti con il Pakistan, pedina fondamentale in vista del ritiro dall’Afghanistan.
Dopo la morte di Bin Laden, sembra essere cambiato davvero poco per al-Qaeda, alle prese con un costante declino in seguito alla Primavera Araba ed una graduale frammentazione della sua base di riferimento.

La pressione statunitense in Afghanistan e Pakistan ha certamente giocato la sua parte, ma il risultato è stato quello di fiaccare la testa di un idra le cui teste, seppur pensanti in modo autonomo, continuano ad esistere.
Una miriade di nuovi gruppi jihadisti slegati da al-Qaeda stanno proliferando dal Nord Africa al Medio Oriente, e gli eventi recenti da Benghazi a Islamabad ricordano come la popolarità statunitense nel mondo arabo rimane bassa nonostante Washington abbia deciso all’ultimo di abbandonare i suoi alleati autoritari.
Il rischio è che la 'sindrome al-Qaeda' venga ora allargata dagli Usa anche a queste nuove realtà, spingendo Washington, soprattutto in caso di un clamoroso cambio al vertice della Casa Bianca, ad adottare lo stesso paradigma in altri contesti ancora politicamente estremamente fragili. Quello che undici anni di lotta ad al-Qaeda hanno fino ad ora insegnato è che non è possibile contrastare sul piano esclusivamente militare un movimento che si è nutrito principalmente di un’ideologia che fa leva proprio sull’interventismo statunitense.
Come ha dichiarato Brennan sarà anche legale per i canoni di Washington eliminare i terroristi di al-Qaeda con i droni, ma forse sarebbe anche saggio preventivare le conseguenze di tali azioni ed evitare di creare più terroristi di quanti non ne vengano eliminati.


26 settembre 2012

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