La fine dei beduini.




ISRAELE PREVEDE DI SMANTELLARE VILLAGGI DEL NEGEV 
La fine dei beduini
La fine dei beduini. 
I beduini dei villaggi “non riconosciuti” del Negev non vogliono lasciare le proprie terre e tradizioni per trasferirsi negli agglomerati urbani in rovina sponsorizzati dal governo. Ma Israele è determinato a ricollocarli. 
di Jillian Kestler-D’Amours
“Sono nato ad Al-Sira”, ha affermato Khalil al-Amur di 46 anni. “I miei genitori sono nati qui e abbiamo vissuto per molte, molte generazioni ad Al-Sira. Ci sono le mie radici, la mia famiglia, le mie tradizioni, i miei valori, tutto ciò che è mio.” Al-Sira è “non-riconosciuto” – uno dei tanti villaggi beduini di questo tipo che si trovano nella zona meridionale del deserto del Negev israeliano – e che secondo le autorità israeliane non ha il diritto di esistere. Qualche anno fa, al-Amur, un insegnate, studente di legge e padre di sette figli, si è destato per trovare ordini di demolizione affissi su tutte le porte della comunità.
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Un tribunale locale ha congelato gli ordini fino alla fine dello scorso anno. Al-Amur ha riferito che il tribunale si è pronunciato a favore degli abitanti del villaggio in quanto era evidente che lo Stato non aveva risolto il problema di dove sarebbero andati a finire i 500 abitanti una volta che le loro case fossero state distrutte. Al momento il governo israeliano sta ricorrendo in appello contro la sentenza. “Non sanno con esattezza dove vogliono trasferire la gente”, ha dichiarato al-Amur. “Non hanno un piano di reinsediamento, non solo per Al-Sira, ma per tutti i beduini.” 
Tutti i beduini del Negev – 180.000 / 190.000 persone – sono cittadini israeliani. Circa la metà di loro vive in circa 35 villaggi “non-riconosciuti” come Al-Sira. Queste comunità, che vanno da poche centinaia a diverse migliaia di persone ciascuna, sono considerate illegali – anche se esistono da molti anni prima della fondazione dello stato di Israele nel 1948. Non compaiono su tutte le mappe ufficiali e sono prive di elettricità, acqua, scuole, sistemi fognari e degli altri servizi statali. 
Ora, Israele sta promovendo un piano per sradicare i 40.000 beduini israeliani che vivono nei villaggi “non-riconosciuti” e reinsediarli in sette municipalità pre-esistenti progettate dal governo per i beduini. Il Piano Prawer è stato largamente criticato come un attacco ai loro diritti fondamentali. I beduini si rifiutano di fare come se non esistesse il loro legame storico con la terra e respingono il tentativo di ghettizzarli nelle località più povere di Israele. “E’ la soluzione peggiore; gli agglomerati urbani hanno il più alto tasso di violenza, il più elevato grado di povertà, il più alto livello di disoccupazione, e sono emarginati dal governo”, ha dichiarato al-Amur. “Che c’è di interessante in queste città? Nulla.” 
Ismail Abu Saad, docente universitario beduino e professore alla Ben-Gurion University, che vive nella città riconosciuta di Lakiya, sostiene che la politica di Israele dell’urbanizzazione dei beduini ha creato una “enclave da terzo mondo nel bel mezzo di una società opulenta. Il governo ha previsto che questo processo di urbanizzazione fallisca. E’ interessata a controllare la gente e a mantenerla povera, con un sacco di problemi sociali, in modo che sia preoccupata in ogni istante per la sopravvivenza; in tali condizioni non c’è il tempo per pensare ad altro”. 
Il governo israeliano sostiene che l’urbanizzazione fornirà servizi e opportunità ai beduini dei villaggi “non-riconosciuti”, ma gli agglomerati sono paralizzati dalla carenza di servizi e da problemi socio-economici. “Non ci sono incentivi [ad andarci],” ha affermato Abu Saad. “Se il governo avesse veramente l’intenzione di….costruire un posto migliore per la gente ove vivere, questa vi si sarebbe trasferita.” 
Chi sono i beduini? 
Prima del 1948, nel deserto del Negev vivevano 65.000 – 90.000 beduini; circa il 90% di questi semi-nomadi sopravvivevano di agricoltura tradizionale, l’altro 10% di allevamento del bestiame. Durante la guerra 1948 – 1949, circa l’85% dei beduini del Negev vennero espulsi dalle loro terre e se ne andarono nella West Bank, a Gaza, in Giordania e in Egitto. Dai primi anni ’50, rimasero solo 19 delle originali 95 tribù beduine. 
Mentre la popolazione palestinese che rimasta all’interno della Linea Verde era stata sottoposta a regime militare, i beduini non poterono più andarsene a giro con le proprie greggi o coltivare la propria terra. Dodici delle 19 tribù rimaste vennero sfollate di forza dalle loro terre e confinate in un’area limitata nel nord-est del Negev, dalla quale potevano uscire solo con un permesso speciale. Questa zona, il Siyag, copriva solo il 10% delle terre controllate dai beduini ed era nota per la sua bassa fertilità. 
Israele approvò anche leggi per agevolare l’acquisizione del controllo sul territorio, come la Legge sulla Proprietà degli Assenti (1950) e la Legge sull’Acquisizione della Terra (1953), che resero possibile l’esproprio del 93% delle terre del Negev. Secondo l’analista di diritto, Tawfiq Rangwala, Israele ha perpetuato il mito dei nomadi senza radici, privi di legami con la terra, per legittimare questo furto e garantirsi che in seguito nessuna rivendicazione territoriale dei beduini possa essere accolta. 
“I beduini vengono considerati come una popolazione non stanziale e i loro insediamenti vengono etichettati come ‘spontanei’ piuttosto che ‘pianificati’. Questa dicotomia culturale può venire estesa all’ambito legale, dove elaborazioni concettuali di questo tipo rendono vaghe le pretese dei beduini riguardanti la proprietà sulla terra storica e ammettono solo le registrazioni formali della stessa, facendo così risultare la visione del mondo dei beduini incompatibile con ogni moderna concezione della proprietà fondiaria. Tale pensiero ha favorito una visione dei beduini come estranei e intrusi in casa propria.” [1] 
Eppure, molte tribù beduine detengono gli atti di proprietà dei propri terreni che risalgono al Mandato Britannico e al dominio ottomano, e, al momento, le famiglie sono nei tribunali israeliani per tentare di dimostrare la loro proprietà del terreno. Israele non ha accettato per valido alcun reclamo beduino relativo alla proprietà di terreni nel Negev. Anche se i cittadini beduini di Israele costituiscono il 30% della popolazione del Negev, essi occupano solo il 2% della sua superficie. L’insieme delle loro richieste ammonta a solo il 5% del territorio. 
“Un motel permanente a buon mercato” 
Nel 1963, Moshe Dayan disse: “Dobbiamo trasformare i beduini in un proletariato urbano…Infatti, questa sarà un’iniziativa radicale, il che sta a significare che i beduini non avrebbero continuato a vivere sulla loro terra con le loro greggi, ma sarebbero diventati persone urbane…I loro figli si sarebbero abituati a un padre che indossa i pantaloni, che non porta una shabaria [il coltello tradizionale arabo] e che non si spulcia in pubblico. Ciò sarebbe una rivoluzione, ma può essere programmato entro due generazioni. Senza coercizione, ma con la direzione del governo…..questo fenomeno dei beduini scomparirà”.[2] 
Dalla fine del 1960, lo Stato ha promosso una chiara politica di urbanizzazione beduina. Ora ci sono sette agglomerati beduini “riconosciuti”: Rahat, il più grande, ha una popolazione di oltre 50.000 persone. I centri mancano delle cose basilari, come marciapiedi, strade completamente asfaltate, banche, biblioteche e opportunità di lavoro. Considerate prevalentemente come città dormitorio tralasciano di prendere in considerazione la cultura beduina e hanno avuto un impatto irreversibile sulle strutture familiari e della comunità. “La pianificazione non ha tenuto conto….del fatto che le famiglie estese vogliono vivere l’una accanto all’altra. Che dire della nuova generazione? Non c’è spazio per loro”, ha dichiarato Khaled Alsana, il sindaco di Lakiya (riconosciuta). “E’ come un motel. La gente dorme qui e si reca al lavoro [fuori]. Si tratta di un motel permanente a basso costo. Non c’è niente che ti tiene legato al posto. Questa è la politica, si tratta di far confluire molta più gente nelle città; il che significa più terra per lo stato e meno per il popolo”. 
Abuso di droghe, crimine, disoccupazione e tassi di abbandono scolastico sono sproporzionatamente elevati nei centri beduini, a confronto delle località ebraiche vicine, e la terra assegnata agli agglomerati è insufficiente per la loro crescita naturale e per lo sviluppo. Inoltre, le città non riescono a fornire un’adeguata assistenza sanitaria, istruzione e servizi ricreativi per i giovani e mancano di una solida base economica. Ogni anno le località beduine ottengono il più basso livello di valutazione nelle classifiche socio-economiche del paese. 
Una minaccia apparente. 
Nel 2000, prima di diventare primo ministro, Ariel Sharon ha delineato quello che lui chiamava “un problema serio”. “Circa 900.000 dunum di terra del governo non sono nelle nostre mani, ma in quelle della popolazione beduina. Come residente nel Negev, riscontro ogni giorno questo problema. Si tratta essenzialmente di un fenomeno demografico”.[3] Lo scorso luglio, i mezzi di informazione israeliani hanno riferito che l’attuale primo ministro, Benjamin Netanyahu, ha affermato che è sotto minaccia la possibilità di conservare nel Negev una maggioranza ebraica: “Diverse componenti rivendicheranno diritti nazionali all’interno di Israele, ad esempio nel Negev, se permettiamo che ci sia una regione senza una maggioranza ebraica. E’ accaduto nei Balcani ed è una minaccia palpabile”.[4]
Per combattere tutto ciò, il governo ha affermato pubblicamente che è suo obiettivo rafforzare gli insediamenti ebraici nel Negev e aumentare del 70% la sua popolazione entro il 2015. Per incoraggiarne la crescita, i progetti di sviluppo ebraici nel Negev sono stati forniti immediatamente di servizi e di infrastrutture di base. Nelle comunità beduine, riconosciute o meno, le risorse permangono sempre insufficienti. 
Nel Negev, i cittadini ebrei possono vivere in comunità di tipo diverso – città, moshavim (kibbutzim, villaggi agricoli) o aziende individuali. I cittadini beduini non hanno altra possibilità di scelta se non quella di trasferirsi nei centri urbanizzati. Il proseguire di questa politica sta a significare che un numero sempre maggiore di cittadini beduini sarà concentrato in porzioni di terreno sempre più piccole e più facilmente controllabili. 
“Ai beduini piacerebbe vivere in kibbutzim e moshavim. Perché no? Questa è la nostra vita tradizionale. Perché va bene che il popolo ebraico viva da agricoltore in tutto Israele, ma lo stesso non è possibile per i beduini?” Ha detto Khadra Elsaneh, direttore di Sidreh, un’organizzazione fondata a Lakiya nel 1998 per migliorare la vita delle donne beduine fornendo loro prospettive economiche e istruzione. “Abbiamo un gruppo di donne che è partito dal nulla e ci siamo responsabilizzate da sole. Abbiamo il sostegno della nostra comunità e nessuno da parte del governo. Perché? Il governo non dà alcuna speranza ai beduini. Si deve arrivare ad una soluzione con la comunità, non gliela si deve imporre, o la gente esploderà.” 
Nessun incentivo per andarsene. 
Il piano Prawer vuole ricollocare il 40% dei beduini che attualmente vivono in villaggi “non-riconosciuti” all’interno di aree allargate di località pianificate del governo; il piano dice che questi avrebbe offerto un risarcimento solo per il 50% dei terreni attualmente in possesso dei beduini. Secondo un rapporto di Haaretz del 2 giugno 2011, il costo del trasferimento sarebbe tra 1,7 e 2,4 miliardi di dollari, di cui 356 milioni verrebbero destinati allo sviluppo economico degli agglomerati urbani beduini riconosciuti. 
Il 5 luglio, il Parlamento Europeo ha condannato Israele per il trattamento inflitto ai suoi cittadini beduini, che ha descritto come “un popolo indigeno che conduce una vita sedentaria e tradizionalmente agricola sulle proprie terre ancestrali”, e ha esortato Israele a ritirare il Piano Prawer. 
Ma nonostante le condanne internazionali, il governo israeliano sembra intenzionato a portare a termine i suoi piani. E’ stata costituita un’unità speciale della polizia israeliana per tutelare e far rispettare le demolizioni e gli sfratti delle comunità beduine in tutto il Negev, e la cui attività si prevede abbia inizio ai primi di agosto. 
In segno di protesta, i beduini hanno fatto scioperi e manifestazioni, forti di migliaia di persone, di fronte all’ufficio del primo ministro e alla Knesset, hanno esercitato pressioni sul governo perché tratti direttamente con loro, e hanno presentato un piano generale alternativo per i villaggi “non-riconosciuti”. Ma il risultato è stato nullo. 
Il Piano Prawer sarà “un disastro per me, la mia famiglia, la mia comunità e per tutti i beduini del Negev”, sostiene al-Amur.”[L’urbanizzazione] ha ucciso la nostra agricoltura del deserto, le fonti della nostra vita. E ora uccidono la nostra morale, il nostro essere; stanno eliminando il nostro popolo. Se verrete a farci visita tra 10 o 20 anni, non vedrete più un sol beduino.”

(1) Tawfiq Rangwala, “Inadequate housing, Israel and the Bedouin of the Negev”, Habitat International Coalition — Housing and Land Rights Network Middle East and North Africa (HIC-MENA), 2004.
(2) Elana Boteach et al, “The Indigenous Bedouins of the Naqab-Negev Desert in Israel”, Negev Co-Existence Forum for Civil Equality, April 2008.
(3) Thabet Abu-Ras, “Land Disputes in Israel: the Case of the Bedouin of the Naqab” (PDF), Adalah (legal centre for Arab minority rights in Israel) newsletter, vol 24, April 2006.
(4) Human Rights Watch, “Israel: Halt Demolitions of Bedouin Homes in Negev,” 1 August 2010. 
(tradotto da mariano mingarelli)

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