Commissione Levy : in Israele un giudice nega l’occupazione dei territori palestinesi di




Jonathan Cook

l rapporto, recentemente pubblicato, di un giudice israeliano che conclude che di fatto Israele non sta occupando i territori palestinesi – nonostante un’opinione generale internazionale ben consolidata circa il contrario – ha provocato prevalentemente incredulità o ilarità in Israele e all’estero.

Siti web israeliano hanno utilizzato ironicamente fotografie per evidenziare le grottesche conclusioni del giudice Edmond Levy. Una mostra un soldato israeliano che preme la canna del fucile sulla fronte di un palestinese inchiodato al suolo e dice: “Vedi? Te l’avevo detto che non c’è nessuna occupazione.”Persino Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, è parso un po’ turbato dalla copertura mediatica, la settimana scorsa. Il rapporto gli era stato consegnato più di due settimane prima, ma egli è stato apparentemente riluttante a renderlo pubblico.
Minimizzare il significato del rapporto Levy può essere tuttavia imprudente. Se Netanyahu è imbarazzato, è solo per il momento in cui il rapporto è stato pubblicato, piuttosto che per la sua sostanza.Dopotutto è stato lo stesso primo ministro a creare, agli inizi di quest’anno, il comitato per la valutazione della legalità degli “avamposti” dei coloni israeliani, apparentemente non autorizzati dal governo, che si sono diffusi come erbaccia in tutta la West Bank.
Egli ha selezionato i suoi tre membri, tutti intransigenti sostenitori degli insediamenti, e ha ricevuto il verdetto che si aspettava: che gli insediamenti sono legali. Certamente il rapporto di Levy non dovrebbe aver costituito una sorpresa. Nel 2005 è stato il solo giudice della Corte Suprema a opporsi alla decisione del governo di ritirare i coloni da Gaza.
Anche i commentatori giuridici sono stati sbrigativi a proposito del rapporto. Si sono concentrati più sulla dubbia argomentazione di Levy che sul significato politico del rapporto.

Hanno osservato che Theodor Meron, il consulente legale del ministero degli esteri nel 1967, aveva espressamente avvertito il governo, in seguito alla Guerra dei Sei Giorni, che insediare civili nei territori di nuova conquista era una violazione della Quarta Convenzione di Ginevra.
Esperti hanno anche segnalato le difficoltà che Israele incontrerà se adotterà la posizione di Levy.
Secondo la legge internazionale il dominio di Israele sulla West Bank e su Gaza è considerato una ‘occupazione belligerante’ e, pertanto, le sue azioni devono essere giustificate unicamente in base alle necessità militari. Se non c’è occupazione, Israele non ha motivi militari per rimanere nei territori. In tal caso, deve o restituire la terra ai palestinesi, e allontanare i coloni, o disobbedire alla legge internazionale annettendo i territori, come ha fatto in precedenza con Gerusalemme Est, e creare lo stato del Grande Israele.
L’annessione, tuttavia, pone i suoi rischi. Israele deve scegliere tra offrire la cittadinanza ai palestinesi e attendersi che emerga una maggioranza non ebraica nel Grande Israele oppure negare loro la cittadinanza affrontare la condizione di stato paria in quanto stato in cui vige l’apartheid.Proprio queste preoccupazioni sono state segnalate domenica negli Stati Uniti da quaranta leader ebrei che hanno chiesto a Netanyahu di respingere le “manovre legali” di Levy che, affermano, minacciano “il futuro [di Israele] come stato ebraico e democratico”.
Ma dal punto di vista di Israele può esserci, in realtà, una via d’uscita da questo rompicapo.
Nel 2003 un altro dei membri del comitato di Levy, Alan Baker, un colono che è stato per molti anni consigliere del ministero degli esteri, ha spiegato l’interpretazione eterodossa israeliana degli Accordi di Oslo, firmati un decennio prima.
Gli accordi non erano, come quasi tutti presumevano, la base per la creazione di uno stato palestinese nei territori, ma una via per stabilire la legittimità degli insediamenti. “Non siamo più una potenza occupante, ma siamo invece presenti nei territori con il loro [dei palestinesi] consenso e in conformità all’esito dei negoziati.”
n quest’ottica gli Accordi di Oslo hanno ridefinito il 62% della West Bank assegnato al controllo israeliano – la cosiddetta ‘Area C’ – da territorio “occupato” a territorio “disputato”. Ciò spiega perché ogni governo israeliano, a partire da metà degli anni ’90, si è abbandonato a un’orgia di edificazioni d’insediamenti in quell’area.
Secondo Jeff Halper, capo del Comitato Israeliano Contro la Demolizione delle Case, il rapporto Levy sta preparando la base legale per l’annessione israeliana dell’Area C. La sua inquietudine è condivisa da altri.
Recenti rapporti dell’Unione Europea hanno usato un linguaggio senza precedenti nel criticare Israele per il “trasferimento coatto” – espressione diplomatica per ‘pulizia etnica’ – dei palestinesi, via dall’Area C e verso le città della West Bank che ricadono sotto il controllo palestinese.
La UE osserva che il numero dei palestinesi nell’Area C si è ridotto in misura spettacolare sotto il dominio israeliano, a meno di 150.000, cioè non più del 6% della popolazione palestinese della West Bank. I coloni nell’Area C ora superano in numero i palestinesi in un rapporto di più di due contro uno.
Israele potrebbe annettere quasi due terzi della West Bank e conferire comunque senza problemi la cittadinanza ai palestinesi che vi risiedono. Aggiungendo 150.000 al milione e mezzo di palestinesi cittadini di Israele, un quinto della popolazione, non intaccherebbe il dominio della maggioranza ebrea.
Se Netanyahu esita, è solo perché il momento non è ancora maturo per la messa in atto. Ma nel fine settimana ci sono state indicazioni delle prossime mosse di Israele per rafforzare la sua presa sull’Area C.
E’ stato riferito che le autorità d’immigrazione israeliane, che tradizionalmente erano state limitate a operare all’interno di Israele, sono state autorizzate a entrare nella West Bank per espellere attivisti stranieri. I nuovi poteri sono stati esibiti lo stesso giorno quando degli stranieri, incluso un giornalista del New York Times, sono stati arrestati durante una delle regolari proteste contro la costruzione del muro di separazione in terra palestinese. Tali manifestazioni sono la principale espressione della resistenza all’appropriazione israeliana del territorio palestinese nell’Area C.
E domenica è emerso che Israele ha avviato una campagna contro l’OCHA, l’agenzia dell’ONU che si occupa dei danni umanitari causati ai palestinesi dall’esercito israeliano e dalle attività d’insediamento, prevalentemente nell’Area C. Israele ha chiesto dettagli a proposito di dove operano i collaboratori dell’OCHA e quali progetti l’agenzia sta programmando, e minaccia di ritirare i visti al personale, evidentemente nella speranza di limitare le sue attività nell’Area C. C’è tuttavia un problema. Se Israele si prende l’Area C ha bisogno di qualcun altro che sia responsabile dell’altro 38% della West Bank – poco più dell’8% della Palestina storica – per “colmare il vuoto”, secondo l’espressione usata la settimana scorsa dai commentatori israeliani.L’ovvio candidato è l’Autorità Palestinese, il governo di Ramallah in attesa guidato da Mahmoud Abbas. Le sue forze di polizia già agiscono come appaltatrici della sicurezza di Israele, tenendo sotto controllo i palestinesi nelle parti della West Bank esterne all’Area C. Inoltre, in quanto destinataria di infiniti aiuti internazionali, l’Autorità Palestinese solleva Israele dall’onere finanziario dell’occupazione.
Ma la debolezza dell’Autorità Palestinese è evidente su tutti i fronti; ha perso credibilità presso i palestinesi comuni, è impotente nelle sedi internazionali ed è impantanata in una crisi finanziaria. Nel lungo termine appare condannata.
Per il momento, comunque, Israele sembra incline a tenere in carica l’Autorità Palestinese. Il mese scorso, ad esempio, è stato rivelato che Israele aveva tentato – anche se senza riuscirci – di salvare l’Autorità Palestinese richiedendo un prestito di cento milioni di dollari al Fondo Monetario Internazionale per conto dell’Autorità Palestinese stessa.
Se l’Autorità Palestinese si rifiuterà, o non sarà in grado, di rilevare questi frammenti residui della West Bank, Israele può semplicemente rimettere indietro l’orologio e coltivare nuovamente deboli e isolati leader locali per ogni città palestinese.
La questione è se, prima, si potrà far digerire alla comunità internazionale l’assurda conclusione di Levy.


Jonathan Cook ha vinto il premio speciale Martha Gellhorn per il giornalismo. I suoi libri più recenti sono “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” (Pluto Press) [Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per ridefinire il Medio Oriente], e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” (Zed Books), [Palestina che scompare: esperimenti israeliani con la disperazione umana]. Il suo sito web è www.jcook.net.


Una versione di quest’articolo è comparsa originariamente su The National, Abu Dhabi.


Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo


www.znetitaly.org


Fonte: http://www.zcommunications.org/what-really-lies-behind-israel-s-no-occupation-report-by-jonathan-cook


traduzione di Giuseppe Volpe


Israele: un giudice nega l’occupazione dei territori palestinesi

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