Il deserto di Amos Oz

maggio 2, 2012

Amos Oz
Francesco Battistini per “Il Corriere della Sera
ARAD (Israele) — Giovane Amos, gli disse un giorno il segretario del kibbutz: tu potrai anche essere Tolstoj, non dico di no, ma se qui tutti si sentono artisti, chi le munge le mucche?… «Avevo già pubblicato un libro. E chiedevo un giorno la settimana per scrivere. Ci fu una grande discussione. Mi fu concesso il giorno, purché lavorassi di più negli altri. Allora pubblicai un secondo libro. E chiesi un secondo giorno settimanale. Nuovo problema, grande discussione: chi munge al suo posto? Quando i libri cominciarono a vendere, e arrivarono i primi soldi, mi diedero tre giorni. Poi, quattro. Finché non venne il segretario e mi disse: se ti serve, ti diamo anche l’aiuto d’un pensionato. È per incrementare la tua produzione letteraria…».
Com’era verde il mio kibbutz. Quasi cinquant’anni dopo i racconti della Terra dello sciacallo, Amos Oz torna dove cominciò. Un libro di brevi storie dal mondo che scelse a 14 anni, ripudiando il padre e il nome, «prima diventando tutto quello che lui non era, un contadino dove lui era un intellettuale, un socialista dove lui era di destra, e poi finendo a vivere in questa stanza piena di libri che era esattamente ciò che lui sperava per me…». Il ritorno al kibbutz s’intitola Ben Haverim, tradotto Tra amici nella versione che uscirà fra qualche settimana per Feltrinelli: «In ebraico, c’è il doppio significato di “amici” e “compagni”. Nei primi kibbutz, s’usava la stessa parola per definirli, perché speravano idealmente che tutti i compagni fossero anche amici. Ora, naturalmente, non è più così». Il libro è una galleria di ritratti in solitudine: l’idealista che s’aliena dai problemi quotidiani studiando le catastrofi mondiali, la donna che non sopporta più la condivisione col marito, il bambino terrorizzato dalle camerate comuni… «Ogni protagonista è un outsider della sua storia, all’interno d’una società molto rigida. Storie su gente sola in un microcosmo che ha l’ambizione di cancellare la solitudine. Nei kibbutz, la debolezza e l’egoismo entrarono in clandestinità, non si riconosceva la solitudine: ognuno doveva stare in una grande, unica famiglia felice. Bisognava costruire l’Uomo Nuovo. C’era un mio vecchio amico che diceva sempre: i primi giorni del kibbutz, mi sentivo solitario come un dito. Perché il dito fa parte della mano, ma quando le altre dita sono piegate e solo quello è ritto, quella è senza dubbio solitudine. Le storie fra amici non sono solo storie sul kibbutz. Sono solitudine, amore, desiderio, desolazione. Le grandi, semplici cose della natura umana. Ognuno si può identificare».
Oggi lei sembra più clemente verso quel modello utopico di vita in comune…
«Sono sempre molto critico. Perché i padri fondatori avevano l’ambizione di cambiare la natura umana. Questo era impossibile, infantile e crudele: la natura umana va lasciata in pace. Pensavano che, in villaggi egualitari, di colpo le meschinerie, il pettegolezzo, l’invidia sarebbero spariti. I miei personaggi vivono le loro storie in questa tragicommedia. Il loro segreto è che il kibbutz è una rappresentazione dell’umanità. Una metafora».
Per lei, è stato un’ottima scuola di scrittura.
«Dove stai, è il centro dell’universo. E Hulda, dove ho vissuto più di 30 anni, è stata la migliore università della natura umana che potessi trovare. Sulla gente, sulla vita interiore, sulle motivazioni, sui sentimenti, ho imparato nel kibbutz più che se avessi viaggiato dieci volte intorno al mondo, più di quanto si possa capire frequentando accademici a Milano o a New York. Conoscevo 300 persone. E sapevo tutto di loro. Anche i loro segreti più intimi. Il prezzo è stato che loro conoscevano i miei.Ma questo è equo, non posso lamentarmi».
Spieghi a un antisionista la differenza fra un kibbutz e un insediamento.
«È la differenza che c’è fra trovare una casa al popolo ebraico e prendere la casa dei palestinesi. Questo Paese è la terra di due popoli. Noi abbiamo la nostra porzione, dobbiamo lasciare ai palestinesi la loro. Ecco perché gl’insediamenti in Cisgiordania sono immorali. Quando mi muovo da qui, se non sono stato invitato dai palestinesi, non passo mai per i Territori: è una questione di principio. Rifiuto pure incontri pubblici nelle colonie. Questo poi non significa che i coloni siano fanatici assassini d’arabi, come spesso si crede in Europa. Ne conosco tantissimi che vivono lì solo perché costa meno. E che se ne andrebbero, ci fosse un’alternativa».
Che eredità rimane di quel mondo scomparso?
«Il kibbutz è la sindrome della società israeliana che ogni individuo conosce meglio. Ognuno è un re. Ognuno dice al primo ministro come andare avanti. Questa è una nazione di otto milioni di cittadini, di premier, di profeti e dimessia. Questo viene dai geni del kibbutz. Dove ognuno era capo. C’è una specie d’eredità anarchica, nella società israeliana d’oggi. Non è facile per chi governa, ma è una cosa meravigliosa. Non vedo esperienze simili in altri Paesi. Questa è la terra delle discussioni in ogni momento: fra 50 anni, i turisti andranno in Inghilterra per il teatro, in Italia per l’arte, in Egitto per le piramidi, in Israele per il gusto di discutere. Gli amanti dei dibattiti verranno a gruppi. Qualunque tassista può offrirti una buona discussione. Se alle 2 di notte a Tel Aviv non riesci a dormire, alza la cornetta, componi un numero qualsiasi e troverai sempre un’eccellente conversazione su un argomento a tua scelta. Questa è la grandissima eredità del kibbutz».
Ma ora ci sono i social network…
«Facebook, le email sono connessioni virtuali. Non si può sostituire la possibilità di toccare un altro essere umano, mettergli il braccio sulla spalla, non c’è rimpiazzo al faccia a faccia. La gente ha bisogno di questi surrogati virtuali solo perché vive in città enormi e in enormi solitudini».
(Amos Oz serve il caffè nel suo studio-bunker, tra gli scaffali delle infinite traduzioni dei suoi libri, giapponese e russo, turco e finlandese, sul tavolino una tovaglietta con l’aquila schipetara).
È per questo che vive qui, ai margini del deserto del Negev?
«Sì, anche Arad è una piccola università dove posso imparare nuove cose sulla natura umana: c’è gente che viene da più di 36 Paesi d’origine. Lei vive qui da un po’, sa che noi israeliani non apparteniamo a un film di Bergman: siamo attori d’un set di Fellini. Passionali, rumorosi, mediterranei».
Com’è la sua giornata?
«Una routine assoluta. Mi sveglio alle 5, cammino mezz’ora nel deserto. È a un isolato da qui. Silenzio e solitudine. Poi torno a casa e bevo un caffè. È una parte molto importante della mia giornata. Penso alle cose da scrivere, ai personaggi, alla vita, a quel che è importante. Il deserto è un grande maestro di vita. Poi mi siedo al tavolo e comincio a chiedermi “se fossi lui” o “se fossi lei”… Tutto il giorno, immagino d’essere altre persone. La curiosità oggi è una virtù morale. Una persona curiosa ama meglio d’una che non lo è. Fin da giovane, per esempio sui palestinesi, mi sono posto solo questa domanda: e se fossi io nella loro pelle? Non ho superstizioni, non uso computer, solo questa penna nel taschino. Mi serve il contatto fra dita, penna e carta. Scrivo la mattina. Il pomeriggio, spesso, distruggo quel che ho scritto la mattina».
Il timore delle critiche le fa tenere qualcosa nel cassetto?
«Ho pubblicato 27 libri, ma ne avrò cominciati a scrivere settanta. Non li lascio in un cassetto, non li troverà mai nessuno. Quanto ai critici, le racconto una storiella. C’era una volta un filosofo stoico del II secolo a.C. che insegnava a tutti a essere sempre calmi: qualunque cosa accada, diceva, è perché deve accadere, e non c’è ragione d’essere arrabbiati o tristi. Un giorno, il suo schiavo ruppe un preziosissimo vaso di vetro. Il filosofo lo picchiò. Lo schiavo gli disse: maestro, me l’hai insegnato tu, se il vaso s’è rotto, era destino si rompesse. E allora il maestro: sì, il destino del vaso era di rompersi; il mio, di picchiarti. Così la penso sui critici: io scrivo quel che posso scrivere, loro li criticano perché devono farlo».
Le è riuscito più facile scrivere storie brevi?
«No. Mi sento un passeggero che viaggia solo col bagaglio amano. Io sono abituato a molte valigie, d’improvviso ho dovuto stare molto attento e compattare quello che portavo con me».
Una volta lei ha detto che da bambino sognava d’essere un libro, per sopravvivere al tempo. Quale libro le sopravvivrà?
«È pericoloso rispondere a simili domande. Cervantes diceva sempre d’avere scritto un sacco di cavolate e che sarebbe stato ricordato solo per un buon libro. Ma non pensava a Don Chisciotte: pensava a Galatea! Ho provato a leggerlo, è d’una noia mortale».
Che cosa pensa del divieto d’ingresso in Israele per Günter Grass?
«Conosco bene Grass. Mi spiace per lui, ma ha fatto un grave errore. Non so che cosa gli sia successo: dire che Israele spiana l’indifeso popolo iraniano è una rude distorsione che un uomo di buon senso non può fare. Però non è necessario boicottare uno scrittore, è un errore uguale, qualunque cosa dica. Non boicotterei Grass nemmeno se dicesse che Israele è responsabile dello tsunami. Lei sa che i miei libri sono letti nel mondo arabo. Un editore libanese molto coraggioso ha pubblicato Una storia d’amore e di tenebra, sfidando gli Hezbollah. Qualcuno ha detto: perché tradurre in arabo questa propaganda sionista? Ma molti altri hanno capito: lasciamo che siano i lettori a giudicare».
Anche per lei l’Iran è l’incubo quotidiano?
«L’Iran è un regime del male. Ma i paragoni con la Shoah, che ha fatto Netanyahu, non sono possibili. L’Olocausto fu un genocidio premeditato da una nazione altamente sofisticata contro gente indifesa. Questa situazione è un’altra cosa. L’atomica non si può più fermare. Si possono bombardare i loro impianti, rinviare il pericolo. Ma un attacco preventivo, più che sbagliato sul piano morale, è inutile: l’Iran ha know-how e motivazioni, cose che non distruggi bombardando. Entro 10-15 anni, moltissimi Stati avranno armi nucleari. E allora penso che non sia una questione israeliana: è una questione mondiale».
Un altro scrittore molto attaccato in Israele è Yoram Kaniuk, che ha rifiutato d’essere definito «ebreo» sulla carta d’identità.
«L’identità ebraica non appartiene ai documenti. Sta nella mente, nell’anima. Sul mio passaporto, come unica identità, vorrei quella di cittadino israeliano. C’è scritto anche che sono nato a Gerusalemme. Ci tengo: è una città che amo anche quando non mi piace, e questo accade spesso».
Dicevano che Amos Oz s’è stancato della politica. Non parrebbe…
«Firmo petizioni, faccio interviste, scrivo articoli. La mia parte, insomma. Ma in Israele le cose sono cambiate. L’incertezza del futuro sta cambiando la psiche degl’israeliani. Da più di 60 anni, noi viviamo sull’orlo d’un vulcano e questo cambia la gente. La rende dura, diffidente. Ci sono i fanatici, coi quali è inutile parlare. E poi gl’indecisi: all’80 per cento, in Israele vive gente che viene da Paesi non democratici. Russi, marocchini, iracheni, yemeniti che non hanno mai conosciuto prima una democrazia. Dunque, il fatto che Israele riesca a essere una democrazia, anche se con molti buchi, è un miracolo. E io ho sempre pensato che ci fosse spazio per parlare a questa folla d’indecisi. Ma ora gl’indecisi sono diventati indifferenti. M’interessa meno parlare a gente indifferente che a gente indecisa».
Perché gli scrittori danno risposte migliori dei politici?
«C’è la tradizione, in Russia e tra gli ebrei, d’attendersi che gli scrittori indichino la via. Una cosa che non esiste in Occidente: nessuno mai prenderebbe Shakespeare per un profeta. Qui è il contrario. Chiaramente, noi non siamo profeti e non possiamo mostrare alcuna strada. Ma l’aspettativa è quella. E se non indichi la via, ti lapidano in piazza. Metaforicamente, s’intende».
Come vive le voci che ogni anno, puntuali, la candidano al Nobel?
«Se non lo vincerò, morirò lo stesso da uomo felice».

Il deserto di Amos Oz

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