Nord Africa. Venti di una 'primavera berbera'
Il 2011 passerà probabilmente alla storia come l'anno delle "rivoluzioni arabe". Ma, nel caso dei paesi del Nord Africa, la definizione appare incompleta (oltre che discutibile sul piano dei reali cambiamenti ottenuti), poiché disconosce l'apporto alle contestazioni della componente amazigh (berbera), a lungo negata e repressa nel processo di edificazione degli Stati post-coloniali.
di Jacopo Granci da Casablanca
Ciò nonostante, in questo inizio 2012, gli attivisti berberi - dal Marocco alla Libia - sembrano decisi a portare avanti la battaglia per il pieno riconoscimento identitario, il rispetto dei diritti e la democrazia, approfittando della caduta o della flessione dei vecchi regimi legati all'ideologia panarabista.
La commemorazione del printemps berbère algerino (20 aprile 1980) è stata l'occasione per rilanciare le mobilitazioni in tutta la tamazgha ("terra amazigh", corrispondente all'Africa del Nord e al territorio sahariano fino all'oasi egiziana di Siwa) e per riposizionare la "questione amazigh" al centro dei rispettivi dibattiti nazionali (anche se la copertura mediatica delle iniziative è stata pressoché assente).
DA TRIPOLI ALLA CABILIA, PASSANDO PER L'AZAWAD
E' proprio in Algeria, a Tizi Ouzou (città di riferimento della Cabilia, regione interamente berberofona), che venerdì 20 aprile sono iniziate le manifestazioni, successivamente registrate anche in Libia (Tripoli, Sabha) e in Marocco (Casablanca).
Alcune migliaia di abitanti sono scesi in strada per rendere omaggio ai primi martiri della causa berbera (oltre 100 morti nel 1980) e a quelli più recenti del printemps noir (aprile 2001), terminato con l'imponente marcia da Tizi ad Algeri (14 giugno) - repressa violentemente dalla polizia - a cui presero parte circa un milione di persone (90 morti e 5 mila feriti il bilancio totale della rivolta).
Da allora il movimento cabilo ha perso slancio e coesione, minato dalla divisione dei suoi rappresentanti, pur non avendo ottenuto il soddisfacimento delle proprie rivendicazioni - passaggio ad un sistema democratico, affermazione e protezione dell'identità berbera, riconoscimento dei diritti linguistici, culturali e socio-economici.
Dopo gli eventi del 2001, la lingua amazigh è stata menzionata nella Costituzione come lingua nazionale, ma l'unico idioma ufficiale è rimasto l'arabo, che domina il panorama mediatico (salvo un canale di Stato, di recente creazione, in amazigh) e le amministrazioni pubbliche.
L'insegnamento del tamazight è limitato a cinque prefetture (sulle 48 totali, rispetto alla 16 previste), mentre la concessione dell'autonomia regionale non è mai stata presa in considerazione dal governo di Algeri.
La Cabilia continua di fatto a lamentare l'abbandono economico, che dall'indipendenza è causa del massiccio esodo interno e dell'emigrazione all'estero dei suoi abitanti, oltre ad un opprimente dispiegamento delle forze di sicurezza nel territorio.
Le manifestazioni, pacifiche, del 20 aprile sono servite, oltre a gettare le basi per una futura unità nell'azione contestataria, ad esprimere il rifiuto della popolazione locale nei confronti del "finto processo di riforma" avviato dal presidente Bouteflika e ad annunciare il boicottaggio delle imminenti elezioni legislative, "che non serviranno ad intaccare la natura dispotica e corrotta del regime".
Diversa è la situazione della Tunisia, dove la popolazione berberofona è stata ridotta a poche migliaia di abitanti - secondo le statistiche ufficiali - confinati a Jerba e nei villaggi meridionali della regione degli Ksar.
"E' difficile disporre delle cifre reali. Sotto Bourghiba e poi sotto Ben Ali parlare tamazight era vietato. Inoltre, il progressivo abbandono delle montagne e delle zone rurali, l'inurbamento, hanno accelerato la scomparsa della nostra lingua perfino all'interno delle mura domestiche", racconta l'avvocato Ali al-Walhazi, tra i fondatori - l'autunno scorso - dell'Association tunisienne pour la culture amazighe (ATCA).
La caduta del vecchio regime ha senz'altro determinato uno "sdoganamento" della rivendicazione amazigh, la creazione dell'ATCA ne è la conferma, ma tanto l'attuale panorama politico, quanto la stessa società tunisina, non sembrano rimettere in discussione l'identità araba del paese.
"Siamo troppo minoritari per poter chiedere il riconoscimento ufficiale del tamazight - continua Ali al-Walhazi - tuttavia riteniamo fondamentale la nostra esistenza e il nostro lavoro per spingere la società a riscoprire le sue radici dimenticate, la sua storia millenaria e per far conoscere un patrimonio che va ben oltre l'apporto della conquista araba. Sul piano politico, invece, cercheremo di far pressione sull'assemblea costituente affinché la cultura amazigh venga riabilitata e iscritta nella nuova carta come una componente dell'identità tunisina".
Anche in Libia le comunità berbere, presenti in Tripolitania e nel Fezzan, hanno subito le politiche discriminatorie e repressive del governo Gheddafi, sebbene alcune tribù tuareg abbiano beneficiato di alterni momenti di grazia presso il Colonnello, che in più di un'occasione si è servito degli imazighen (plurale di amazigh, nda) del deserto per mettere pressione sugli Stati confinanti.
"Dal momento dell'insurrezione la situazione è cambiata - spiega Fathi Ben Khalifa, presidente del Congrès mondial amazigh - ci siamo organizzati, abbiamo aperto stazioni radio, scuole e il canale Libya TV trasmette sia in arabo che in tamazight".
La caduta del regime ha generato speranza tra i berberi libici, in fermento da prima del 17 febbraio 2011 e tra i protagonisti della resistenza a Tripoli contro le truppe di Gheddafi. Non vogliono rinunciare a quella che si presenta come un'opportunità senza precedenti per mettere fine agli anni dell'apartheid linguistica e culturale.
Tuttavia, i primi passi "istituzionali" mossi dal Consiglio nazionale di transizione (CNT) in materia appaiono agli occhi degli attivisti piuttosto ambigui e poco rassicuranti.
La dichiarazione costituzionale diffusa nei mesi scorsi dal CNT ha confermato l'arabo come sola lingua ufficiale, l'Islam religione di Stato e la shari'a fonte principale della legislazione.
Nell'articolo 1 viene ugualmente menzionato il rispetto "dei diritti linguistici e culturali degli Amazigh, dei Tubu, dei Tuareg". Non abbastanza secondo Ben Khalifa, 15 anni passati in esilio, che disconosce la legittimità del testo presentato del consiglio transitorio e ricorda come la comunità tubu e parte della popolazione tuareg continuino ad essere vittima dell'escalation razzista e di attacchi armati ad opera di "milizie fuori controllo" nel sud del paese.
"L'autorità del CNT è venuta meno con la fine del conflitto armato e sul futuro della Libia saranno gli organismi eletti in modo democratico a decidere. Per il momento le istanze amazigh, presenti e attive nel tessuto sociale - sebbene ignorate dall'opinione pubblica internazionale - restano vigili e in continua mobilitazione. Quel che è certo è che non siamo disposti ad accettare una nuova esclusione e il rifiuto del riconoscimento ufficiale della nostra identità".
In attesa delle elezioni previste per il prossimo giugno e dei successivi risvolti, dunque, la "questione berbera" in Libia resta aperta ad ogni tipo di evoluzione.
Non meglio definita, del resto, appare la situazione del nord del Mali, dove il Mouvement national de libération de l'Azawad (MNLA) ha dichiarato lo scorso 6 aprile l'indipendenza della vasta regione settentrionale, la Repubblica dell'Azawad per l'appunto (distretti di Gao, Timbuctu e Kidal), a coronamento delle ripetute "ribellioni tuareg" registrate fin dall'epoca del colonialismo francese.
La comunità internazionale ha rifiutato in blocco di concedere il riconoscimento al nuovo Stato, mentre una dura campagna mediatica sta gettando discredito sul MNLA (accuse di eccidi e di connivenze con i jihadisti di al-Qaida in Maghreb e Ansar Dine), che nel 2010 aveva lanciato l'insurrezione del nord contro il governo di Bamako, rivendicando l'autodeterminazione delle popolazioni tuareg e maure, circa la metà degli abitanti del Mali al momento dell'indipendenza ma ormai ridotte a minoranza.
Secondo la ricercatrice francese Hélène Claudot-Hawad (CNRS), specialista dell'area del Sahara e del Sahel, puntare subito i riflettori su al-Qaeda e Ansar Dine, senza interrogarsi su chi trae beneficio dalla loro presenza nel territorio, serve solo a sviare l'attenzione dalle problematiche reali e da quanto sta effettivamente accadendo nella regione, dove "l'aspirazione all'indipendenza di un popolo umiliato per cinquant'anni da un governo definito ipocritamente 'democratico' non è la benvenuta".
Claudot-Haward, nel suo recente articolo "La recolonisation du Sahara", ha richiamato l'attenzione sul genocidio subito dai tuareg e dai mauri con il silenzio complice della comunità internazionale, la stessa che oggi rifiuta di riconoscere l'Azawad, e ha messo l'accento sulla "guerra invisibile" in corso nel deserto, dove "nuove forze coloniali" cercano di conquistare l'accesso alle ingenti ricchezze minerarie (petrolio, gas, oro, uranio) presenti nelle zone di confine tra Niger, Mali, Libia e Algeria.
In questo senso, "l'amalgama tra insorti tuareg, islamisti e jihadisti diventa una comoda scorciatoia per poter sradicare, sotto la copertura della lotta al terrorismo, la contestazione politica e la resistenza armata dei tuareg, che mette in pericolo gli introiti economici dei grandi attori interessati alle risorse della regione".
IL MAROCCO AMAZIGH IN "MARCIA"…
Più di tremila persone, domenica 22 aprile, hanno risposto all'appello del neo-nato Mouvement Tawada ("marcia" in tamazight) ed hanno manifestato pacificamente nelle strade di Casablanca.
"Abbiamo iniziato la marcia e non smetteremo più di camminare", è uno degli slogan d'apertura del corteo amazigh, colorato dalle caratteristiche bandiere giallo-verde-blu (in foto).
Per il Marocco si è trattato della seconda tawada nazionale, dopo quella di Rabat, all'inizio del 2012. Una forma di protesta inedita, fino a pochi mesi fa, in un paese in cui la rivendicazione berbera e il richiamo all'appartenenza nordafricana (piuttosto che araba) datano ormai alcuni decenni e in cui il riconoscimento dell'identità amazigh da parte delle autorità ha registrato, almeno a livello formale, avanzamenti importanti dal 2001 ad oggi, vale a dire dalla creazione dell'Istituto reale per la cultura amazigh (IRCAM) all'ufficializzazione della lingua berbera nella Carta costituzionale (luglio 2011).
Tuttavia la nuova generazione di militanti, studenti universitari provenienti dalle lontane regioni berberofone (sud-est, Alto e Medio Atlante, Suss, Rif), sta cercando di superare l'impasse segnata dalle storiche associazioni culturali - iniziatrici del MCA (Mouvement culturel amazigh) ormai lacerato dai conflitti interni - e non sembra accontentarsi delle concessioni fatte dal regime alawita.
"Sono acquisizioni fragili, inefficaci, che riflettono più la volontà di frenare una mobilitazione dalla portata destabilizzante che quella di soddisfare un'esigenza popolare legittima, riconosciuta perfino dalle istanze dell'Onu".
Ahmed Ait Mimoun, studente a Casablanca ma originario di Ouarzazate (sud-est), chiarisce che la costituzionalizzazione del tamazight non è sufficiente, da sola, a garantire l'applicazione del bilinguismo nell'amministrazione pubblica, in particolar modo nei tribunali, e l'effettiva tutela dell'idioma e della cultura berbera, a differenza invece di quanto avviene per l'arabo, lingua del Corano, a cui è attribuita una sorta di "sacralità" (sebbene resti sconosciuta alla popolazione non alfabetizzata, che parla amazigh o darija, variante locale della lingua del Profeta).
"L'insegnamento del tamazight nelle scuole, a dispetto degli accordi tra l'IRCAM e il ministero, viene impartito soltanto al 14% degli alunni, mentre la formazione degli insegnanti è deficitaria e l'atteggiamento dei direttori degli istituti recalcitrante nei confronti della materia", spiega Ahmed.
"Anche nei media la situazione non ha subito evoluzioni. A parte l'apertura del canale 8 (in berbero) che serve da ulteriore cassa di risonanza alla retorica del regime, le emittenti radio e tv continuano a minimizzare o ad escludere la programmazione in tamazight".
In effetti lo stato di salute che ancora conserva la lingua amazigh - parlata da circa il 40% della popolazione - non è di certo il frutto delle politiche istituzionali, quanto piuttosto del notevole lavoro di trascrizione (passaggio dalla memoria orale a quella scritta) e di produzione compiuto dalle associazioni culturali e dai singoli militanti.
"Le pubblicazioni in tamazight - romanzi, racconti e poesie - hanno ormai superato quelle in lingua francese, mentre festival, incontri e manifestazioni letterarie in genere si moltiplicano un po' dappertutto", riferisce Meryam Demnati, fondatrice dell'Observatoire amazigh des droits et des libertés (OADL).
Per gli organizzatori della tawada, inoltre, la rivendicazione berbera - in Marocco come in tutta l'Africa del Nord - non è più soltanto una battaglia linguistica e culturale ma anche sociale e politica, una lotta che avanza di pari passo alla rivendicazione democratica.
Gli slogan e gli striscioni esposti dagli attivisti domenica scorsa a Casablanca, come del resto il loro appoggio al Movimento 20 febbraio, ne offrono la conferma.
Non è un caso se il primo bersaglio a cui si è rivolta la folla è stato proprio il makhzen ("regime"), colpevole di non aver tenuto fede alle sue promesse e di aver arginato le proteste del 2011 con un mero cambiamento di facciata.
"Vogliamo una Costituzione laica e realmente democratica" si è potuto leggere su alcuni manifesti, mentre i cori non hanno risparmiato il primo ministro Abdelilah Benkirane, segretario del partito islamico PJD, ritenuto - assieme alla formazione nazionalista dell'Istiqlal ugualmente al governo - uno dei principali ostacoli all'affermazione della berberità, della libertà religiosa e di coscienza (laicità) reclamata dal movimento.
Tra le richieste dei militanti amazigh, giunti nella metropoli atlantica dai quattro angoli del paese (Agadir, Marrakech, Goulmima, Errachidia, Taza, Tangeri, Nador..), ci sono poi la liberazione dei detenuti politici Mustapha Oussaya e Hamid Ouadouch, in carcere a Meknès dal 2007, e la fine dell'espropriazione da parte dello Stato delle "terre collettive", patrimonio ancestrale delle comunità locali.
Il ventiduenne Tafat, proveniente da Imider (Sud-est), ha percorso durante la notte i 490 km che separano la cittadina alle pendici dell'Alto Atlante da Casablanca.
"Makhzen smetti di soffocare Imider!", c'è scritto sullo striscione che regge assieme ad alcuni compagni, in testa al corteo.
Gli abitanti di questa zona stanno esprimendo da mesi il loro malcontento contro la società mineraria (controllata dalla holding del sovrano) che estrae argento dalle viscere del monte Alebban, nei dintorni del villaggio.
In pochi, tuttavia, ne sono a conoscenza e sul sit-in permanente che dallo scorso agosto frena la produttività del giacimento, la stampa nazionale - salvo rare eccezioni - sembra aver imposto un blocco mediatico.
"Siamo qui per difendere l'identità amazigh e con essa la nostra causa - riferisce Tafat - la miniera toglie acqua alla città, inquina il territorio e non dà nemmeno lavoro a sufficienza. La situazione per noi è insostenibile".
Ma il sud-est non è la sola regione berberofona del paese a vivere un vero e proprio risveglio identitario e a denunciare al contempo la marginalizzazione e l'oblio che il governo di Rabat ha riservato, dall'indipendenza ad oggi, alle "periferie ribelli", insofferenti tanto all'autorità del sultano in epoca pre-coloniale quanto alla penetrazione europea di inizio secolo scorso.
A marciare al fianco degli abitanti di Imder ci sono infatti i membri della delegazione rifegna, facilmente riconoscibili dai ritratti di Abdelkrim Khettabi esposti con fierezza.
"Il Rif non si piegherà" recita lo slogan impugnato dal piccolo gruppo. Il riferimento è alla durarepressione subita ad inizio marzo dalle cittadine di Ait Bouayach, Boukidarn e Imzouren (Al Hoceima), in seguito agli scontri tra i manifestanti - giovani disoccupati essenzialmente - e la polizia.
Le condanne emesse recentemente dal tribunale locale all'indirizzo degli attivisti fermati vanno dai 4 ai 6 anni di carcere. Nessuna inchiesta, invece, sugli agenti che hanno violato i domicili, le scuole esaccheggiato i negozi con l'intenzione di punire la popolazione in rivolta.
Alcuni abitanti, pochi giorni prima dell'intervento, non avevano esitato ad esporre alle finestre le bandiere della Repubblica del Rif (1923-'26).
"La zona è rimasta bloccata per settimane - racconta Moha, testimone degli eventi - uno stato d'assedio non dichiarato. I grandi mercati settimanali, quasi l'unica attività oltre al pubblico impiego, non hanno ancora riaperto i battenti".
La tawada marocchina, infine, non ha trascurato la dimensione transnazionale, sempre più palpabile, assunta dalla "questione berbera" - grazie anche al lavoro di organizzazioni quali il Congrès mondial amazigh e l'Assemblée mondiale amazighe che negli ultimi anni hanno tessuto solidi legami di solidarietà tra gli attori coinvolti nei rispettivi contesti locali.
Oltre all'omaggio reso ai militanti cabili ed alla commemorazione delle vittime dei sollevamenti algerini, i manifestanti hanno sventolato le bandiere della "Libia liberata" e scandito slogan a sostegno dell'MNLA e del primo Stato amazigh della storia, la neo-proclamata Repubblica dell'Azawad.
Dopo due primavere sanguinose (1980, 2001) e lunghi decenni di asfissia imposta da regimi dispotici di matrice post-coloniale, la rivendicazione berbera riuscirà dunque ad approfittare degli sconvolgimenti politici in corso nella regione nordafricana per ottenere lo spazio e il riconoscimento fino ad ora negato?
Di certo quella che è stata una cultura e un'identità "confinata ai margini dell'illegalità" (la definizione è dello scrittore algerino Mouloud Mammeri) sembra aver acquisito una nuova consapevolezza ed aver intrapreso un nuovo cammino.
30 aprile 2012
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