Palestina, quando i coloni attaccano


  Quando i coloni attaccano lo fanno con un obiettivo preciso: far capire ai palestinesi che non sono i benvenuti. Dal 2004, nei Territori Occupati la violenza da parte dei gruppi ultraortodossi delle colonie israeliane è diventata  quotidiana, come sperimentato sabato mattina da un pastore palestinese e da un volontario della comunità Papa Giovanni XXIII.   di Stefano Nanni
 Mentre pascolavano sui prati della collina di Meshaha, a sud di Hebron, cinque coloni provenienti dall’avamposto di Havat Ma’ li hanno 'cacciati via' e costretti a tornare giù ai piedi della collina.
“Non tornate più qui! Questa terra è di proprietà del popolo ebraico da migliaia di anni!” – hanno urlato i coloni inseguendo il volontario, al quale sono caduti due telefoni cellulari nella fuga, prontamente distrutti dagli inseguitori.
Dopo un’ora è arrivata una pattuglia della polizia per fare luce sull’accaduto, ma ciò non significa che nei prossimi giorni i coloni saranno disposti ad abbandonare la loro postazione (illegale, ndr), lasciando che i palestinesi facciano pascolare i loro animali.
Si tratta infatti del terzo attacco nell’arco dell’ultima settimana nella valle di Meshaha.
Il venticinquesimo dall’inizio del 2012 nell’area dell’adiacente il villaggio di At-Tuwani, come confermano i volontari dell’Operation Dome, il gruppo di corpi di pace nonviolenti della comunità Papa Giovanni XXIII, presente nella zona dal 2004.
Secondo un rapporto pubblicato a gennaio dal Jerusalem Fund, la violenza dei coloni è in costante e pericolosa crescita.
Solamente nell’ultimo anno il numero degli 'incidenti' (attacchi) è aumentato del 39%, e in generale dal 2004 la violenza non ha mai smesso di crescere (+ 315%).
Al contrario, il numero di attacchi violenti da parte dei palestinesi è calato del 95% negli ultimi 5 anni.
A cosa è correlata allora la violenza perpetrata dagli abitanti delle colonie? Il rapporto del Palestine Center, che ha raccolto i dati in collaborazione con l’ong israeliana B’tselem, ha provato a rispondere a questa domanda studiando 3.700 casi di violenza registrati in Cisgiordania dal settembre 2004 al dicembre 2011.
Questi sono stati, in primo luogo, categorizzati in diverse tipologie di “attacco”, secondo quelle più diffuse: lancio di pietre, incendi dolosi, attacchi fisici diretti, uso di armi da fuoco, distruzione di proprietà e casi di persone investite da automobili.
Ognuna di queste modalità rivela un aspetto interessante per capire il clima che si respira nei pressi delle colonie.
Ad esempio, gli incendi dolosi e le distruzioni di proprietà avvengono principalmente in un preciso periodo dell’anno: durante la raccolta delle olive, attività molto diffusa ed importante per la comunità palestinese.
Gli alberi di ulivo vengono tagliati o incendiati, provocando danni irreparabili dato che precludono l’attività di raccolta almeno per i due anni successivi.
Inoltre, tra le altre proprietà che vengono prese di mira, il rapporto segnala i pozzi d’acqua e le strutture idriche (condutture, cisterne, fontane, etc). Ciò implica un peggioramento della già drammatica questione idrica nei Territori Occupati. 
Successivamente i dati sono stati analizzati alla luce della violenza da parte dei palestinesi e delle decisioni “avverse” prese dal governo di Tel Aviv.
Nella quasi totalità dei casi, infatti, le colonie israeliane si sono sempre difese adducendo la loro “necessaria violenza” al comportamento aggressivo dei vicini palestinesi e alle azioni dei governo israeliano, quando ad esempio non autorizza la costruzione di nuove case oppure ordina l’abbattimento di quelle sorte senza la sua approvazione.
Quest’ultimo fenomeno è il cosiddetto “price-tag”, cioè la messa in atto di azioni di vandalismo a contenuto ideologico molto forte – come le scritte offensive trovate nel retro di alcune chiese frequentate da palestinesi cristiani nel mese di febbraio – che sarebbero, nell’ottica dei coloni, il 'prezzo' da pagare per ogni azione avversa da parte del governo.
Contrariamente a queste prese di posizione, nessuna delle due cause risulta essere una valida variabile esplicativa dell’aggressività dei coloni. Il rapporto si conclude infatti con un’analisi della distribuzione geografica degli attacchi.
Da questa emerge in modo evidente come essi avvengano esclusivamente nei territori che ricadono nella giurisdizione israeliana (area C), secondo la suddivisione amministrativa degli Accordi di Oslo, dove i coloni “sanno di non essere suscettibili di alcuna azione punitiva da parte delle autorità”.
A titolo di esempio il rapporto cita i governatorati di Nablus e Jenin: nel primo, la maggior parte degli attacchi provengono dalla colonia di Bracha, che si trova alle porte di Nablus e dunque in zona A (giurisdizione palestinese), e sono diretti ai villaggi di Burin e Iraq Burin, che sono molto più distanti e da altri obiettivi più vicini, ma soprattutto si trovano in zona C, area sotto totale controllo israeliano.
Stesso discorso per Jenin, dove i coloni di Homesh, Sa Nur o Mevo Dotan 'optano' per l’attacco ai villaggi che ricadono sotto la giurisdizione israeliana, mentre tanti altri in prossimità vengono totalmente ignorati.
“Agendo coperti dall’impunità garantita dalle autorità israeliane, i coloni sanno precisamente quali aree possono attaccare senza dover temere alcuna repressione o sanzione” – conclude il Palestine Center.
Inoltre, secondo un rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento umanitario nei Territori Occupati dello scorso novembre, ciò che rende la situazione ancora più illegale è il fatto che più del 90% delle denunce presentate dai palestinesi vengono praticamente archiviate senza alcun esito.
“Quando invece un colono viene giustamente arrestato, il processo non avviene, come nel caso dei palestinesi, in una corte militare, bensì rimane nell’ambito della giustizia civile, il quale garantisce una maggiore protezione dei diritti umani” – afferma Sarit Michaeli, portavoce di B’tselem.
“Le autorità israeliane hanno l’obbligo, secondo il diritto internazionale, di proteggere sia i coloni che i palestinesi – aggiunge – ma mentre lo fanno pienamente nei confronti dei primi si osserva un sistematico fallimento nel tutelare i secondi.” 
B’tselem sottolinea infatti come la diminuzione della violenza palestinese sia dovuta proprio al fatto che le autorità israeliane rispondano con dei seri interventi, spesso addirittura sproporzionati agli atti commessi.
Si è di fronte dunque ad una legalità a due corsie, inflessibile ed efficace nei confronti dei palestinesi, debole e passiva di fronte alle azioni violente dei coloni, i quali sono consapevoli che quando attaccano molto probabilmente non subiranno serie conseguenze penali.
Ezra Nawi, storico attivista e pacifista israeliano, è presente da diversi anni nelle colline a sud di Hebron e dunque conosce bene la situazione della valle di Meshaha.
Ad A-Jazeera ha ricordato che in ogni caso, anche se le autorità israeliane fossero più repressive nei confronti dei coloni, questi ultimi sono spinti da motivazioni molto solide.
“La maggior parte dei coloni sono ispirati da idee religiose – afferma – e questo è un argomento sul quale non è facile ragionare.”
“Quando i coloni attaccano lo fanno con un obiettivo preciso: vogliono la Palestina.” 
 20 marzo 2012
2  The day Jewish settlers' trees were uprooted by Palestinians

Occasionally, the Civil Administration does act against Jewish trespassers.

By Amira Hass  continua qui 
3  Report: Jewish settlers now control dozens of West Bank springs


Commenti

Post popolari in questo blog

Hilo Glazer : Nelle Prealpi italiane, gli israeliani stanno creando una comunità di espatriati. Iniziative simili non sono così rare

giorno 79: Betlemme cancella le celebrazioni del Natale mentre Israele continua a bombardare Gaza

BDS : A guide to online security for activists

La Spoon River degli artisti di Gaza. Scrittori, poeti, pittori: almeno 10 vittime nei raid. Sotto le bombe muore anche la cultura palestinese