Dominique Vidal :NUOVO ANTISEMITISMO IN EUROPA?

NON CI SONO NOMI ARABIL’antisemitismo, comparso dapprima come odio religioso, nella forma dell’antigiudaismo cristiano, nel XIX secolo diventa odio razziale; la specificità, ma non l’unicità, della Shoah e il problema della “concorrenza tra memorie”; l’antislamismo, oggi più diffuso dell’antisemitismo. Intervista a Dominique Vidal.Dominique Vidal, storico e giornalista di "Le Monde diplomatique”, è autore di diversi libri, tra cui, con Karim Bourtel, Le mal-être arabe. Enfants de la colonisation e Le mal-être Juif.

Vorremmo tornare a parlare con te dell’antisemitismo oggi.
Io faccio una cinquantina di conferenze e dibattiti ogni anno e c’è sempre qualcuno in sala che dice: "Antisemitismo viene da semita, per cui riguarda sia arabi che ebrei”. E ogni volta rispondo che a livello linguistico è vero, ma che tuttavia tra la Francia e gli ebrei c’è un rapporto particolare perché, da una parte, c’è una storia di persecuzione, di sofferenza e di genocidio; dall’altra la Francia è stato il primo paese al mondo che ha accordato il diritto di cittadinanza agli ebrei, a partire dalla Rivoluzione francese, e poi con le disposizioni varate da Napoleone I. La Francia ha poi visto riemergere l’antisemitismo con l’affaire Dreyfus. Certo, Dreyfus ha vinto, ma poi c’è stato Vichy: un regime che è stato l’organizzatore del genocidio degli ebrei francesi. Va detto, infatti, che nessun ebreo francese è stato arrestato da poliziotti tedeschi (Gestapo o esercito): la grande maggioranza è stata catturata dall’esercito francese, dalla milizia o dalla polizia. Da francesi, insomma.
Quando, nel 2005, ho fatto il tour delle banlieue francesi con Leyla Shahid (che è stata delegata dell’autorità palestinese in Francia) e con Michel Warschawski, concludevo gli incontri dicendo che in Francia si può parlare di vari tipi di razzismo (anti-arabo, anti-nero, anti-cinese, anti-ebraico, ecc.) e tuttavia, per quanto riguarda la storia tra Francia e ebrei, c’è bisogno di una parola specifica. Nessun altro gruppo di cittadini francesi è stato infatti vittima di persecuzioni e genocidio. In Francia, nel 1939, vivevano circa 330.000 ebrei. Di questi 76.000 sono stati deportati. Ne sono tornati 2-3000. E questo è un genocidio che non ha paragoni nella storia di Francia.
L’odio verso gli ebrei, poi, ha assunto forme diverse nella storia: c’è stato prima di tutto un odio di tipo religioso. Per me l’anti-giudaismo cristiano si spiega, prima di tutto, attraverso un complesso molto profondo che hanno i cattolici, soprattutto i più coscienti, di essere degli ebrei "traditori”, che si sono convertiti a una religione rimasta per molto tempo una setta ebraica (Gesù era un ebreo, San Paolo era un ebreo... ). C’è, insomma, una specie di legame congenito tra giudaismo e cattolicesimo che spiega la forza del sentimento anti-ebraico e che ha a che fare con la pulsione, presente in tutti i gruppi umani, a odiare quello che più ci assomiglia.
Nei secoli questo è evoluto, soprattutto nel Diciannovesimo secolo, con l’invenzione di quello che si chiama "antisemitismo”, che è una teoria razziale. Voglio dire che è molto diverso da quello che avvenne quando, ad esempio, la regina Isabella, la Cattolica, cacciò gli ebrei dalla Spagna nel Quindicesimo secolo. All’epoca, infatti, gli ebrei che decisero di convertirsi non ebbero problemi: diventarono degli spagnoli come gli altri. Si tratta dei "marrani” (un termine che non arriva, come spesso si crede, da "maiali”, ma da "haram”, che significa "vietato”). Insomma, voglio dire che allora bastava convertirsi per non essere più vittima dell’anti-giudaismo religioso di stato.
Cosa cambia nel Diciannovesimo secolo?
Nel Diciannovesimo secolo nasce un antisemitismo di tipo scientifico, tipico del periodo: non c’era infatti solo l’antisemitismo, ma una vera teorizzazione delle diverse razze inferiori. Nasce l’odio razziale, dal quale non c’è scampo: le leggi di Norimberga, così come sono state votate dai nazisti, fanno sì che se si è ebrei lo si resta: non si può fare nulla, né convertirsi, né pregare, né diventare monaci. Si tratta di una differenza radicale che spiega l’estrema violenza della soluzione genocidaria in rapporto ad altri periodi di persecuzione, che pure fecero molti morti.
C’è un libro fondamentale di Enzo Traverso sulla modernità e il carattere occidentale del genocidio nazista, La violenza nazista. Una genealogia, in cui viene messo in luce il legame tra la ghigliottina, usata durante la Rivoluzione francese per decapitare i re e i nobili, il sistema fordista dei mattatoi moderni e la caccia agli handicappati.
Da questo punto di vista va anche ricordato che nella storia del genocidio nazista propriamente detto, le prime vittime in ordine temporale sono i malati mentali. Su 300.000 malati mentali internati negli ospedali psichiatrici, 100.000 vengono uccisi dai nazisti tra il primo settembre 1939 e il mese di agosto 1941, anno in cui teoricamente si ferma (dopo le proteste delle chiese riformate). La maggior parte di queste persone sono state uccise col gas. L’invenzione del gas come mezzo di sterminio da parte dei nazisti è stato realizzato per i malati mentali. All’inizio era un sistema molto rudimentale: si mettevano le persone negli autobus, le si isolava e poi le si gasava, con un procedimento che poteva durare diverse ore. Con l’arrivo della guerra il sistema venne perfezionato, prima con autobus "mobili” e infine con le camere a gas. Enzo Traverso e molti altri specialisti mostrano che il genocidio nazista mirava a eliminare diverse categorie di "sotto-uomini”, considerati come non-ariani, tra cui gli "zingari” (non i Rom o i Sinti). Himmler era un uomo che aveva una concezione dell’etnologia molto particolare. Durante tutto il periodo della guerra ci fu una discussione teorica su quali gruppi andassero uccisi. Una parte degli "zingari” venne uccisa con il gas ad Auschwitz, quando arrivarono gli ebrei ungheresi (luglio-agosto 1944). Complessivamente si stima siano morti tra i 170.000 e i 500.000 individui: il numero esatto non si conosce.
Oltre allo sterminio degli zingari, c’è stato uno sterminio massiccio dell’intellighenzia polacca (preti, professori, maestri, ecc.) e, verso la fine della guerra, della popolazione sovietica (non solo dei quadri comunisti). A questo proposito, pare che Göring, alla fine del 1941, abbia ricevuto il conte Ciano, il ministro degli Esteri di Mussolini, e gli abbia comunicato: "L’anno prossimo trenta milioni di sovietici moriranno di fame”. Un progetto organizzato, non una constatazione. Parliamo quindi del genocidio di tutta una serie di categorie, e in maniera particolare degli ebrei. L’anti-giudaismo religioso si è dunque trasformato in una forma di razzismo eliminazionista e sterminazionista che non si è limitato a prendere gli ebrei come vittime, anche se quest’ultimo era l’unico gruppo che andava eliminato totalmente. Cioè non tutti gli zingari dovevano essere uccisi, non tutti i preti polacchi dovevano essere uccisi... ma tutti gli ebrei sì. A questo proposito ci sono storie incredibili. In Grecia, mentre il Terzo Reich stava crollando, con il fronte americano e sovietico in arrivo, pare ci siano state delle SS mandate in un’isola sperduta a cercare tre ebrei, oppure a Venezia a negoziare con le autorità del ghetto per recuperare qualche malato mentale ebreo. Soldati che -in piena catastrofe- passano giorni e settimane a cercare questa gente. Per cui non si può negare la specificità, anche ideologica, dell’antisemitismo.
Tu sottolinei il carattere occidentale di questo genocidio.
Sì, è una cosa di cui discutevamo spesso con Leyla Shahid. Nel mondo arabo-musulmano gli ebrei, così come i cristiani, non erano cittadini come gli altri. Erano dei "dhimmi”, che significa "protezione”. Essendo l’Islam la religione dominante, c’erano delle regole da seguire: un ebreo non poteva costruire la torre di una sinagoga più alta di una moschea, bisognava essere a piedi se il capo musulmano era a cavallo... cose di questo tipo. Ma nei secoli di coesistenza giudeo-musulmana nel mondo arabo e musulmano ci sono pochi casi di massacri e persecuzioni. E nessun genocidio. Come ricordo sempre: Auschwitz è un nome polacco, Ravensbruck è un nome tedesco... Se prendiamo la lista dei campi di concentramento e di sterminio non ci sono nomi arabi.
È proprio questo a rendere quello che è successo dopo il 1947-’48 in qualche modo una formidabile ingiustizia: coloro che non avevano nulla a che fare con quella vicenda (a parte il gran Mufti di Gerusalemme), cioè arabi e palestinesi, hanno pagato le conseguenze di un orrore di cui erano invece complici e colpevoli dei popoli d’Europa.
Nel razzismo c’è sempre anche un aspetto profondo, irrazionale...
Sì, spesso non si considera che il razzismo rimanda a qualcosa di ben radicato nelle zone più cattive e "sporche” dell’animo umano. Nella storia dei genocidi e dei massacri c’è sempre qualcosa che va al di là della politica, dell’economia, del sociale e dell’ideologia. Qualcosa che ha a che fare con l’animo umano. Consiglio, a questo proposito, un libro assolutamente fenomenale di Jacques Sémelin, Purifier et Détruire, uno studio dei massacri e dei genocidi che mette in evidenza, appunto, questo "qualcosa” di profondo. Sémelin sostiene che i massacri, i genocidi, per quanto specifici, si iscrivono tutti in una lunga storia di massacri umani di cui bisogna capire l’origine e il funzionamento. Come può uno dei popoli più colti e civili del mondo fare una cosa del genere?
Io sono stato a lungo in Germania, anche su esplicita volontà di mio padre, che mi ha sempre detto che Auschwitz non è un affare tra ebrei e tedeschi, ma dell’umanità. Per cui mi ha insegnato, fin da subito, a parlare con i tedeschi, cosa che ho fatto per tutta la vita.
Ecco, Sémelin, una persona che ammiro molto, intanto spiega che chi dice che la Shoah non è comparabile, in realtà, proprio perché lo sostiene, la sta comparando. A questo aggiunge che non si può avere una spiegazione mono-causale per il genocidio. Bisogna indagare i tanti e diversi fattori che portano, in un momento preciso, a un massacro, favorendolo e alimentandolo. Il suo libro è un vero viaggio all’inferno, sul modello dantesco. E alla fine si arriva a un capitolo, assolutamente terrificante, sull’animo umano e sul fatto che non si possono capire massacri e genocidi se non si considera che esiste, nell’uomo, una sorta di "piacere” e di "godimento” della morte, della tortura...
A questo proposito è illuminante "Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini, che personalmente ho detestato, ma che diceva una cosa molto profonda, cioè che il nazismo o il fascismo siamo noi. In fondo, è la stessa cosa che sostiene Hannah Arendt ne La banalità del male: i criminali nazisti non sono mostri, ma uomini come gli altri che a un certo punto, per ragioni precise, hanno avuto l’occasione di esercitare le loro pulsioni grazie a regimi e ideologie che glielo hanno permesso.
Ovviamente in tutto questo conta anche la personalità di Hitler, che ha giocato un ruolo. Ma non si può capire il genocidio nazista se non comprendendo a fondo la crisi e la miseria dei tedeschi, della classe media tedesca (la classe operaia era abituata alla miseria), la gelosia terribile di questa classe verso la borghesia ebraica emancipata, educata, più tesa verso la cultura di quanto non fosse quella tedesca...
Un altro riferimento per capire questo sentimento è "Shoah” di Claude Lanzmann. Si tratta di un film straordinario, ancora di più per i dettagli. A un certo punto Lanzmann intervista delle donne in un villaggio polacco che ammettono: "Siamo molto contente che le ebree non siano più qui: erano molto  belle e i nostri mariti le guardavano e ci tradivano con loro”. E lo dicono negli anni Ottanta (il film è del 1985), non negli anni Quaranta. Si tratta di brave mamme, lavoratrici, che a un certo punto vengono animate da una gelosia feroce che le porta ad essere contente dello sterminio delle ebree.
Sempre a questo proposito c’è un libro di un autore tedesco, Frank Bajohr, intitolato Aryanisation in Hamburg. Qui l’autore racconta che ogni volta che ad Amburgo arrivava un treno dalla Francia con i prodotti rubati agli ebrei francesi deportati, la gente si radunava per portarseli a casa. Si trattava di tutto quello che era "sfuggito” ai gerarchi nazisti: cappotti, camicie, libri...
Quindi abbiamo l’antisemitismo malato di Hitler, la donna polacca gelosa delle ebree e la tedesca che va a cercare il cappotto di visone senza chiedersi del destino di "Madame Rosemblum” che viveva in rue de Rosiers a Parigi e che nel frattempo è stata gasata ad Auschwitz.
Voglio dire che l’antisemitismo malato di Hitler ha contato, ma fino a un certo punto. E infatti, il Partito nazionalsocialista nelle elezioni tedesche, dal 1925 fino al 1933, gioca l’antisemitismo in maniera molto lieve, perché sa che la società tedesca non è profondamente antisemita.
Tu sostieni che, nonostante le singole specificità, non ci sono razzismi di serie A e razzismi di serie B, per così dire.
Non bisogna mai accettare di separare un razzismo da un altro, perché se si guarda al razzismo anti-arabo o all’islamofobia oggi in Francia, o all’odio antireligioso in India, ritroveremo gli stessi fenomeni nella loro diversità. Certo, qualcuno è nero, qualcuno è giallo, qualcuno è rosso, ma nella storia dell’umanità c’è un solo fenomeno, che è il razzismo, che è cosa diversa dalla xenofobia. Questo razzismo ha avuto delle forme diverse, a seconda delle diverse popolazioni presso le quali si è sviluppato.
Non si può quindi dividere il razzismo in categorie né, tantomeno, farne una gerarchia. Tutti i razzismi sono pericolosi, in periodi diversi. Se li si isola, non li si combatte. Nel 2006 Hilan Halimi, un giovane di origine ebraica, venne massacrato: fino ad oggi ancora non si conosce tutta la verità. Il gruppo di Youssouf Fofana (il suo aguzzino) se la prese con lui perché era ebreo o perché ricco? Mai, fino all’interrogatorio, Fofana ha proferito una parola anti-ebraica. Secondo l’avvocato di Halimi, Fofana ha invece giustificato la sua barbarie con l’antisemitismo. Con questo io non voglio dire nulla se non che ci vuole sempre grande prudenza nell’interpretazione di questi fatti. Dopo la morte di Halimi ci sono state grandi manifestazioni, le Chiese hanno espresso solidarietà, così le massime cariche dello Stato, il Presidente della Repubblica, il Primo ministro... Non ci sono state però manifestazioni unitarie perché il Crif (Conseil Représentatif des Institutions juives de France) non ha voluto. E però durante la manifestazione c’erano moltissime bandiere israeliane. Che messaggio è arrivato ai giovani delle banlieue?
Non solo, la sera della manifestazione, la Lega di Difesa Ebraica, con una decina di persone ha organizzato una "ratonnade”. Questa parola non è traducibile: durante la Guerra d’Algeria gli arabi venivano chiamati "rat”, "topi”. Per cui quando si fanno azioni di rappresaglia contro gli arabi si parla di "ratonnade”.
Tre settimane dopo un giovane di origini arabe è stato ucciso vicino a Lione. Nessuna dichiarazione di Chirac, nessuna dichiarazione del Primo ministro, nessuna dichiarazione delle Chiese. Questo è un esempio su tanti. Se una sinagoga viene attaccata, la notizia è ripresa ovunque nella stampa, se capita con una moschea, forse viene il sindaco, ma finisce lì. Non c’è miglior modo di alimentare il razzismo: le vittime del razzismo sentono che non sono trattate allo stesso modo.
Tu sostieni che la "concorrenza tra le memorie” è una delle cause dell’antisemitismo.
Delle 50 conferenze che faccio ogni anno, circa 15 sono sulla Shoah. Per scelta. Non parlo mai di "dovere di memoria” ma di "lavoro di memoria”. Non c’è dovere di memoria: la memoria è qualcosa su cui bisogna lavorare. Come? Con delle cerimonie, delle targhe, con incontri e lezioni nelle scuole. Se, per ipotesi, un professore oggi non parlasse nelle scuole francesi di Shoah, per un giovane ebreo francese sarebbe un dolore. Però non si parla delle violenze della polizia francese durante la Guerra d’Algeria, della schiavitù... Alla tv si trova sempre qualcosa sulla Shoah. Va benissimo, ma perché non si fa altrettanto per altre memorie, come quella della schiavitù, per esempio? Questa sproporzione è una delle cause maggiori dell’antisemitismo. Ed è tanto più grave perché di fatto è la Repubblica stessa a sancire la superiorità di una memoria rispetto ad altre.
Mio padre, Haïm Vidal Sephiha, che è sionista, e che è spaventato dagli episodi di antisemitismo, quando va nelle scuole o nelle università dice la parola "ebreo” una sola volta, quando mostra la sua carta d’identità dell’epoca. La sua lezione è universale: genocidio e massacro non sono una affare tra tedeschi e francesi, ma un problema per l’umanità che ha toccato gli ebrei, gli indiani d’America, il Ruanda, ecc... E non è che non pensi che la Shoah non abbia una sua specificità, ma ha capito che deve fare un discorso che tutti possano capire. Se parla di "unicità ebraica” è finita. Il fatto è che alcuni sono andati talmente lontano in questa sorta di "religione della Shoah” che la reazione di molti è stata: "Adesso basta”. Io ne ho parlato con mio padre: "Se si continua così tra venti o trent’anni ci saranno quindici vecchi ebrei davanti al muro del pianto e il resto del mondo smetterà di interessarsene”.
A un certo punto, nel 2008, in Francia è stato  proposto di far "custodire” la memoria degli 11.000 bambini ebrei francesi deportati durante la guerra assegnandone uno a ciascuno dei ragazzini delle Medie. Simone Weil, la politica francese deportata insieme alla famiglia nel campo di concentramento di Auschwitz, durante una cena del Crif, disse che si trattava di un’iniziativa assurda. I bambini di 10-11 anni non devono portare il peso della morte di un bambino della loro età di cui peraltro non hanno alcuna responsabilità. Non si tratta nemmeno di responsabilità collettiva, ma di una responsabilità dello Stato francese. Potete immaginare? Un bambino di 11 anni che deve portare la storia, che ne so, di David, di 10 anni... e poi perché allora non di un algerino ucciso dall’esercito francese?
Negli ultimi anni in Francia, a fronte di una regressione dell’antisemitismo, è invece in corso un aumento dell’islamofobia.
Con la caduta del Muro, il Comunismo ha smesso di essere il nemico dell’Occidente lasciando il posto all’Islam. Questo è evidente nei discorsi di persone come Geert Wilders, il politico olandese di estrema destra apertamente antislamista che ha cercato di bandire il Corano dai Paesi Bassi. C’è un’islamofobizzazione dell’estrema destra, il cui nemico principale non sono solo gli stranieri o gli immigrati, ma l’invasione musulmana, che starebbe islamizzando l’Occidente. Ora, in Europa solo il 5% della popolazione è musulmana. Voglio dire, per quanto si riproducano velocemente, francamente che questa assoluta minoranza possa islamizzare il 95% dei non musulmani... Eppure in molti ci credono. L’islamofobia, poi, mette assieme la destra più radicale (quella che, dopo il 1967, è diventata filosionista, per vendicare l’onore perduto dall’armata francese in Algeria) e una parte della sinistra che, sotto la bandiera della laicità... In un gruppo come "Riposte laïque”, non a caso si trova gente di estrema destra -quella che ha inventato la zuppa popolare al maiale- con persone della sinistra laica.
Purtroppo, specie in tempi di crisi, le persone tendono a chiudersi nell’identità primaria, che è spesso religiosa, oppure vengono sedotti da ideologie che semplificano i problemi.
In questi contesti il razzismo trova il suo posto naturale. Ma è un "razzismo di crisi”, quindi di concorrenza verso gli stranieri "che ci rubano il posto di lavoro”, è un razzismo che nasce dall’assenza di alternative. Le Pen, Bossi o Wilders sono popolari perché propongono una soluzione semplice che consiste nell’addossare tutte le colpe agli stranieri.
Per venire alla domanda, in Francia in effetti in questi anni abbiamo assistito a un aumento delle violenze anti-arabe o islamofobe e una stabilizzazione del razzismo anti-ebraico. Io sono di origine ebraica e mi è successo due volte nella mia vita di trovarmi di fronte a un atto antisemita. Gli ultimi attacchi di cui sono stato oggetto sono venuti, paradossalmente, da circoli ebraici ultra-sionisti: sono stato attaccato come "animatore ebraico del complotto anti-ebraico”.
L’antisemitismo, come ideologia o corrente politica, è un fenomeno in costante regressione a partire dal 1945. Nessun ricercatore può dire che l’antisemitismo sia in aumento in Francia. Gli allarmismi di gente come Bernard Henry Levy o Alain Finkielkraut per me sono paranoici e discutibili, perché questa gente considera antisemita qualsiasi critica al governo Netanyahu. Francamente, se è questa la definizione di antisemitismo, beh, sono in molti che ricadrebbero in questa categoria. I dati invece ci dicono che il razzismo anti-arabo e anti-musulmano è assolutamente maggioritario rispetto a quello anti-ebraico. E quello che si chiede nei sondaggi non è certo: "Lei si sente antisemita?”, quanto piuttosto cose come "Accetterebbe che suo figlio sposasse un ebreo?”. In Francia, secondo alcuni sondaggi, quasi il 90% dei cittadini dice di essere pronto a votare per un Presidente della Repubblica ebreo. Per un musulmano la media si ferma al 35-36%.
Quanto conta la situazione internazionale, in particolare quella mediorientale, in queste dinamiche?
A partire dal 2000, con lo scoppio della seconda Intifada e la repressione israeliana, c’è stato un aumento degli episodi di violenza anti-ebraica.
Io prendo come riferimento le statistiche annuali della Commissione Nazionale Consultiva dei diritti umani, una fonte riconosciuta che aggrega dati di fonti diverse. La sola variabile che non considera è la paura della gente di andare a dichiarare una violenza. Un "piccolo borghese” ebreo è più facilitato, economicamente e socialmente, ad andare in un commissariato a fare una denuncia, piuttosto che un giovane di origini immigrate.
Quando si parla di minacce o di atti razzisti, tra l’altro, si mettono insieme una scritta su un muro, una lettera anonima, o una bomba contro una sinagoga. Io ho preso in considerazione solo gli atti di violenza. Ebbene, nel 2001-2002 c’è stato un aumento di atti di violenza anti-ebraica. Ma a partire dal 2003 aumentano, invece, gli atti di violenza anti-arabi e islamofobi.
È chiaro che l’esplosione di violenza anti-ebraica dell’inizio degli anni Duemila è alimentata dalle immagini della televisione. Non è solo solidarietà etnica o religiosa, ma solidarietà tra discriminati. Questi giovani vedono per mesi l’esercito israeliano usare violenza contro i palestinesi; al contempo in Francia sono sottoposti a continui soprusi. Io stesso ho assistito al controllo d’identità di un giovane delle banlieue, con il poliziotto che approcciava il giovane dicendo: "Mohammed, i documenti”. E il ragazzo si chiama veramente Mohammed. Lo aveva già controllato più volte quello stesso giorno. Questi ragazzi casomai non sanno nulla della storia, ma, da una parte, vedono gli israeliani che maltrattano i palestinesi e, dall’altra, loro stessi si sentono maltrattati dalla polizia.
Le cifre mostrano che dopo l’operazione Piombo fuso a Gaza, nel 2008-2009, c’è stato un altro aumento di violenze anti-ebraiche.
Ma la situazione internazionale conta fino a un certo punto. Nel 2005, come ricorderete, c’è stata una grande rivolta nelle grandi banlieue parigine. È stato un evento molto violento, ed è un miracolo che non ci fossero armi. Gli islamisti non hanno giocato nessun ruolo. Anche la polizia ha riconosciuto che si trattava di "una rivolta sociale e di discriminazione”. Non a caso le rivolte erano concentrate nei quartieri popolari, abitati prevalentemente da immigrati e seconde generazioni. Parliamo di circa ottocento quartieri che in Francia si chiamano Zup (Zone urbaine prioritaries) e di sei milioni di persone, cioè un francese su dieci, dove il tasso di disoccupazione è del 20%, mentre la media francese è del 10%. Ecco, lì non c’entrava né Israele, né la Palestina, né tanto meno Bin Laden. 

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