Amira Hass :Diversamente occupati: le rompiscatole ambientaliste. Machsom Watch


   C’è una spina nel fianco dell’industria israeliana dei divieti, sotto forma di numerose donne in età da pensione, cocciute e perseveranti, in una parola, delle ‘rompiscatole’.  Sono le volontarie del Machsom Watch [Osservatorio Machsom] che, nel corso degli ultimi sette anni, hanno messo a disposizione la loro perseveranza per ricorrere contro il divieto di movimento che il servizio di sicurezza dello Shin Bet impone ai palestinesi che cercano lavoro in Israele.
L’organizzazione di volontarie femminili Machsom Watch, che ha preso l’avvio più di un decennio fa con il monitoraggio dei posti di controllo fisici e amministrativi nella West Bank, ha sviluppato diverse aree di competenza: i divieti di movimento per motivi di sicurezza, i tribunali militari, le multe della polizia, i permessi per motivi di salute, le restrizioni nella valle del Giordano e altro ancora.
Nei loro turni ai posti di controllo le donne sono giunte a conoscere i lavoratori e i commercianti palestinesi che dipendono da Israele per la loro sussistenza e che un brutto giorno scoprono che i loro permessi d’uscita sono stati revocati ed è stato imposto loro il “divieto per  motivi di sicurezza”. Dopo aver fatto la conoscenza e aver conversato con centinaia di persone, e poi con migliaia, le donne respingono l’interpretazione automatica che l’israeliano medio attribuisce all’espressione “divieto per motivi di sicurezza” : “Lo Shin Bet sa quel che fa. Se il permesso è stato revocato vuol dire che  l’individuo è pericoloso.”
Hanno cominciato ad attendere per ore insieme con i lavoratori e i commercianti che si recano far ricorso contro il “divieto per motivi di sicurezza” negli uffici dell’Agenzia di Coordinamento e Collegamento e poi ad aiutarli a completare i moduli per sottoporre le richieste di annullare il divieto.  Hanno telefonato a chiunque fosse possibile presso l’Amministrazione Civile per scoprire perché le persone debbano attendere per ore e non arrivare mai allo sportello dell’impiegato, perché non viene rilasciata una ricevuta della presentazione delle richiesta, perché non arriva mai una risposta alle richieste presentate e perché non ci sono moduli in arabo.  Hanno scritto lettere al funzionario dell’ufficio occupazione dell’Amministrazione Civile, all’Avvocato Generale dell’Esercito per la Giudea e la Samaria, al capo dello Shin Bet e al capo dell’Amministrazione Civile.
Insistere porta risultati: a oggi hanno aiutato circa 5.000 persone nella procedura di ricorso.  Il “divieto per motivi di sicurezza” è svanito per il 35% di essi già nella fase iniziale di trattamento dei casi.  Alcuni proseguono attraverso le procedure giudiziarie, nonostante gli esborsi finanziari.  L’avvocato Tamir Blank è un associato delle donne del Machsom Watch il cui lavoro volontario riduce il costo per i lavoratori palestinesi.  Il divieto per motivi di sicurezza di circa il 70% delle 283 persone che si sono rivolte ai tribunali attraverso Machsom Watch è scomparso, solitamente prima di arrivare a sentenza.
Il 9 novembre 2009 un funzionario dell’Ufficio Anagrafe dell’Avvocato Generale dell’Esercito per la Giudea e la Samaria ha scritto loro: “Recentemente il nostro ufficio ha ricevuto su base settimanale un gran numero di copie di richieste di revocare i “divieti per motivi di sicurezza” di residenti le cui richieste di ingresso in Isreale per cercare lavoro erano state negate … Il nostro ufficio  non è l’istituzione amministrativa autorizzata a trattare tali richieste …. [e] protesta contro la condotta dell’Amministrazione Civile. Chiedo che l’invio di tali copie sia interrotto. [Esse determinano] un carico al nostro telefax e sprecano anche importanti risorse ambientali.”
Le attiviste del Machsom Watch avevano il numero di telefax dell’avvocato generale perché fino al giugno 2007 era, in effetti, l’indirizzo per i ricorsi contro i divieti. In seguito la norma è cambiata e l’ufficio non è più stato l’indirizzo giusto, e di nuovo poi le regole sono state cambiate, e poi è cambiato qualcosa ancora e c’è stata un’ondata di cancellazione di permessi a veterani del lavoro. Poi, per qualche motivo, dal luglio 2009 al marzo 2010, non c’è stato nessuno a cui rivolgersi per avanzare ricorso.
Le donne hanno indirizzato un fax di risposta al funzionario: “I datori di lavoro [cui le nuove procedure richiedono di richiedere personalmente che i divieti per motivi di sicurezza ai lavoratori palestinesi siano revocati] non ricevono risposte. Gli avvocati non ricevono risposte. … L’Ufficio di Coordinamento e Collegamento non offre risposte riguardo ai motivi del sequestro di un permesso.  … [I lavoratori] cercano incontri con lo Shin Bet [con un rappresentante] che li fa attendere per ore e poi li manda via affermando: “Non siete necessari.” Quando un rappresentante dello Shin Bet acconsente a incontrare i residenti palestinesi, la dichiarazione clamorosa è: “Aiutateci e noi vi aiuteremo, e se non lo fate non riceverete mai un permesso.” E quando ricorrono contro il divieto insieme con i loro datori di lavori non c’è risposta. E’ un muro sigillato …
“Il controllo israeliano dell’area è quello di un’occupazione belligerante e perciò ha obblighi [nei confronti dei residenti] e tra le altre cose ha l’obbligo di prendersi cura del loro benessere e dei loro bisogni. Pertanto, assieme alla protesta per il danno ambientale che noi stiamo causando, ci aspetteremmo almeno un riferimento minimo al danno umano …”
Saghe kafkiane
Un secondo rapporto di questo gruppo di esperte è stato pubblicato sul sito web del Machsom Watch, che riassume la sua attività dal giugno 2007 ed è intitolato “Prigionieri invisibili – Non si sa perché e non c’è dove andare”. E’ stato scritto da Sylvia Piterman, un’eminente economista in pensione.
Ha ragione nell’iniziare il suo rapporto con una scena de “Il Castello” di Kafka. Non c’è carenza, nei nostri giornali,  di saghe kafkiane riguardanti  singoli palestinesi nei labirinti dell’occupazione.  Ma il rapporto narra una saga di migliaia di persone.  E’ per questo che lungo tutto il rapporto si può avvertire il ritornello: c’è del metodo qui, c’è uno scopo al di là della complessiva negazione di permessi e delle restrizioni agli spostamenti.
“Questo è un sistema che è stato progettato per proseguire e mantenere l’occupazione. E a tale scopo la popolazione deve essere tenuta nella paura, in una situazione d’incertezza e priva di solidarietà sociale.  Il metodo è anche elaborato per mantenere una vasta riserva di palestinesi … al fine di arruolarli [come informatori dello Shin Bet] sfruttando nel contempo cinicamente i loro bisogni più urgenti”, scriva la Piterman.
Sarebbe valsa la pena di aggiungere: il metodo è inteso a ridurre a un minimo il numero dei lavoratori palestinesi in Israele in direzione del completamento della politica di separazione demografica che il governo pratica dai primi anni ’90.
Un’altra cosa che il rapporto delinea – e anche qui sarebbero stati apprezzabili ulteriori dettagli – è la graduale inclusione dei lavoratori palestinesi in Israele nella categoria dei “lavoratori stranieri”.  Israele sta creando molte situazioni di fatto sul terreno al fine di fornire la falsa immagine che le aree A e B siano uno “stato”, piuttosto che un territorio occupato.  Ad esempio i posti di controllo sono chiamati “terminali” o “attraversamenti”. Porre i lavoratori palestinesi sotto la giurisdizione del Ministero dell’Interno (piuttosto che di quello dell’Industria, del Commercio e del Lavoro, come accade di solito) e trattarli come se provenissero dalla Tailandia o dalla Colombia è un altro di questi fatti.
L’assistenza ai singoli (anche quando sono migliaia) non abbellisce il sistema? Questa è una domanda che emerge nel rapporto, così come in costanti conversazioni con gli attivisti. Si tratta di un dilemma con cui si confronta ogni gruppo israeliano di contrasto all’occupazione.  Nella battaglia complessiva contro i privilegi riservati agli ebrei, gli ebrei israeliani sfruttano il loro diritto superiore a cercare di aiutare le persone (solitamente delle classi che non abbondano di denari e contatti) nelle loro quotidiane trattative con l’impero delle proibizioni:  andare in Israele per cure mediche,  cancellare un ordine di demolizione, preparare un progetto di costruzione,  scavare una cisterna d’acqua,  compilare un  reclamo alla polizia contro le prevaricazioni dei coloni, recarsi a studiare, visitare una madre malata.
La presa di coscienza teorica che questo è un sistema ripugnante e il suo rifiuto complessivo non indebolisce l’attenzione e l’impegno nei confronti dei singoli.
 raduzione di Giuseppe Volpe
Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
3  Hass:i checkpoint:simbolo della società israeliana

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