Robert Fisk: “Non ci sarà mai uno stato di Palestina e Obama non attaccherà l’Iran”


Il giornalista del quotidiano inglese Indipendent offre una visione a 360 gradi su quanto accade in Medio Oriente. "La Primavera Araba? Ma quale tunisino in fiamme: è cominciata nelle fabbriche, con i sindacati"
Il giornalista Robert Fisk

“Uno Stato di Palestina non ci sarà mai, neppure nel 2012: nonostante gli sforzi di Abu Mazen è evidente la volontà contraria di Israele”.Robert Fisk, 65 anni, firma del quotidiano britannico Independent, una vita passata a consumare suole e taccuini in Medio Oriente, per l’anno nuovo ha maturato già due convinzioni: i palestinesi rimarranno ancora sotto l’occupazione israeliana e Obama non muoverà guerra all’Iran: “Sarebbe una catastrofe”. E fa un bilancio dell’anno che se ne va tra una rivoluzione e l’altra in Nord Africa.

Il 2011 sarà ricordato per il terremoto geopolitico del mondo arabo. Tunisia, Egitto, Libia, Yemen: dittature decennali sono cadute sotto i colpi più o meno violenti della Primavera araba e, nel caso della Libia, delle bombe Nato. Cosa è cambiato veramente in questi Paesi?Si sono liberati dalla paura e quando ci si libera dalla paura nessuno può fartela tornare. Molti elementi hanno contribuito a quello che preferisco chiamare il “risveglio arabo”. In primo luogo l’istruzione. Quando nel 1976 sono arrivato in Medio Oriente la qualità dell’istruzione era scadente. Oggi ci sono moltissimi laureati di eccellente livello. Un secondo elemento che in Occidente tutti ignorano va individuato nella crescita delle organizzazioni sindacali in diversi Paesi arabi.

I sindacati hanno svolto un ruolo nelle rivoluzioni?Certamente. In Occidente pochi sanno che la rivolta ha avuto inizio con una manifestazione sindacale a piazza Tahrir: in quell’occasione c’erano migliaia di donne e uomini per strada. E questo prima delle dimostrazioni le cui immagini hanno fatto il giro del mondo. In sostanza la rivoluzione è cominciata nelle fabbriche e nelle grandi industrie con gli scioperi. Allo sciopero generale in Egitto parteciparono insegnanti, medici, lavoratori di tutti i settori chiave dell’economia. La stessa cosa è accaduta in Tunisia. Certo quanto è avvenuto nel 2011 nel mondo arabo può essere paragonato soltanto alla rivolta del 1916 contro l’Impero Ottomano. A mio giudizio il “risveglio arabo” scrive il suo primo vero capitolo nel novembre 2005 a Beirut, quando milioni di persone chiesero la fine dell’occupazione siriana e di quella sorta di strisciante potere che la Siria esercitava sul Libano. E’ puerile pensare che tutto sia cominciato con il sacrificio del povero ambulante tunisino datosi alle fiamme per protesta il 17 dicembre 2010.

I giovani scesi nelle piazze delle città arabe a rischio della vita vogliono una democrazia parlamentare come noi la intendiamo o si battono per qualcosa di diverso che noi non capiamo?Si battono per sentirsi finalmente “padroni” dei loro Paesi, fino a ieri considerati una proprietà privata dei dittatori e delle loro famiglie. Anche in Occidente i giovani hanno protestato per lo più contro le banche e il sistema finanziario che indeboliscono i parlamenti, i governi eletti e quindi la stessa democrazia. I giovani arabi vogliono vivere una vita dignitosa, vogliono sentirsi padroni del proprio destino, non vogliono più che il potere politico – come in una monarchia assoluta – passi di padre in figlio escludendo i cittadini. Credere che aspirino a una democrazia di tipo parlamentare, come quelle occidentali, vuol dire non aver capito davvero come stanno le cose. Non ci sono più modelli validi per tutti e in tutte le circostanze. Gli arabi troveranno la loro strada verso il tipo di democrazia più adatto alla loro cultura.

Dalla Tunisia all’Egitto le urne finora stanno dando ragione ai partiti di ispirazione islamista. E’ possibile che, con il consenso degli Usa e dell’Occidente, a dieci anni dall’11 settembre 2001 i tiranni vengano sostitutiti dall’Islam radicale?Non direi. Certo ci sono gruppi estremisti come i salafiti così come ci sono gruppi estremisti in Europa. Ma, ad esempio, la Fratellanza musulmana ha una lunga storia che risale al 1920 e lo stesso si può dire del partito islamico che ha vinto le elezioni in Tunisia. Perché mai ci dovremmo sorprendere per il fatto che ci sono partiti che si richiamano all’Islam? Dopo tutto sono musulmani e non hanno alcuna intenzione di diventare cristiani. Non credo che la Democrazia cristiana italiana o quella tedesca abbiano mai avuto intenzione di organizzare una Crociata in Terra Santa. Da quando vivo in Medio Oriente non ho mai sentito nemmeno un commento negativo sul fatto che in Europa ci sono partiti che si definiscono cristiani.

Il regime di Ahmadinejad e degli ayatollah rappresenta un pericolo reale? Crede che Obama possa decidere un intervento militare in Iran?Ahmadinejad è un personaggio inquietante, ma non credo che l’Iran rappresenti un pericolo. Quanto a un eventuale intervento militare americano, penso che in realtà non sia in agenda e lo riterrei una follia. Gli Stati Uniti sono impegnati militarmente su molti fronti: Pakistan, Afghanistan, Somalia, parte dello Yemen. Una guerra in Iran avrebbe drammatiche conseguenze sia militari sia politiche.

Assad arriverà alla fine del 2012 o anche la Siria volterà pagina?Non escludo affatto che fra un anno Assad ci sarà ancora. Sono stato a Damasco recentemente e ho trovato una situazione piuttosto tranquilla. Nella capitale non si aveva l’impressione di una imminente caduta del regime di Assad. La gente circolava liberamente e usava liberamente il cellulare. Non ho potuto raggiungere, per ragioni di sicurezza, altre zone del Paese dove la situazione non è altrettanto tranquilla, come a Homs. Certo, avendo il regime impedito l’ingresso ai giornalisti stranieri – e lo considero un grosso errore anche dal loro punto di vista – è difficile farsi un’idea precisa di come stanno le cose in Siria. Le sole informazioni ci arrivano dai ribelli e dalle organizzazioni umanitarie. Ho parlato con le famiglie di militari assassinati, è verosimile siano stati uccisi finora almeno 1500 militari, non solo per mano dei dimostranti o dell’esercito di Assad, ma anche a opera di altri gruppi armati. Un fatto è certo: dal Libano stanno arrivando in Siria molte armi.

Dopo il discorso di Abu Mazen all’Onu e il voto dell’Unesco, ritiene che sia più vicino il giorno della nascita di uno Stato palestinese? Il 2012 potrebbe essere l’anno buono?Non credo ci sarà mai uno Stato palestinese. Gli israeliani stanno rendendo la cosa materialmente impossibile continuando a sottrarre terre ai palestinesi e ripetendo che non hanno alcuna intenzione di cambiare politica in materia di insediamenti. Per quante concessioni Abu Mazen possa fare, non ci sarà mai uno Stato palestinese.

In Libano si muove qualcosa per la causa palestinese? Hezbollah, che a Beirut governa, pare non abbia intenzione di stare a guardare nei prossimi mesi.La posizione del Libano rispetto alla questione palestinese non è cambiata. Il Libano chiede il ritiro di Israele dai Territori occupati. Certo i libanesi si augurano una soluzione della questione palestinese, ma non ignorano che molti palestinesi potrebbero diventare libanesi con conseguenze di un certo peso sul piano economico, ma specialmente per ciò che riguarda l’equilibrio delle etnie: non bisogna dimenticare che il Libano è un Paese settario, un delicato mosaico.

Qualcuno, anche a sinistra, in Europa sta mettendo in discussione oltre alla moneta unica anche la stessa sopravvivenza dell’Ue. Una simile eventualità sarebbe un disastro per il Mediterraneo e il Medio Oriente?Non credo proprio. I Paesi del Medio Oriente hanno le loro monete. A Beirut quando vado al ristorante posso pagare in Sterline libanesi, Sterline britanniche, Dollari e anche in Euro. Se l’Euro svanisse potrei pagare anche in Marchi tedeschi. In sostanza in caso di crollo dell’euro gli arabi userebbero la moneta europea più forte. In caso di fallimento dell’Euro, non piangete per gli arabi.

Il giornalismo di guerra è notevolmente cambiato negli ultimi 20-25 anni, non solo a causa delle tecnologie e di Internet. Ma anche del cosiddetto embedded journalism. Possiamo ancora sperare di avere informazioni attendibili dai teatri di guerra?In fondo dipende sempre dai giornalisti anche se, me ne rendo conto, sono aumentati i pericoli. La cosa che considero grave non è essere embedded, ma non raccontare a lettori o telespettatori in quali condizioni si fa il proprio lavoro, spacciando per verità assolute comunicati stampa delle forze armate di questo o quell’esercito. Ancor più serie sono state per il giornalismo le rivelazioni di Wikileaks, che ha inondato le redazioni di una massa incredibile di notizie. I giornalisti le hanno selezionate, scelte e raccontate ai loro lettori. Un rapporto diplomatico può anche essere affascinante, ma non rappresenta necessariamente la verità. E’, piuttosto, la versione diplomatica americana della verità.

di Giampiero Calapà e Carlo Antonio Biscotto

da Il Fatto Quotidiano del 29 dicembre 2011

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