La moschea di Parigi – durante l’occupazione nazista – fu un rifugio per tanti ebrei del Nordafrica che cercavano di salvarsi dalla persecuzione? E questa memoria storica potrebbe oggi diventare un ponte di comprensione reciproca tra ebrei e musulmani? A rilanciare la tesi è un film uscito in Francia in questi giorni, dopo essersi già fatto notare all’ultimo festival di Cannes. Si intitola Les hommes libres – Gli uomini liberi – ed è diretto dal regista franco-marocchino Ismael Ferroukhi, già autore di Le grand voyage.
Il nuovo film è ambientato nella Parigi del 1942 ed è la storia del giovane immigrato algerino Younes, che la polizia collaborazionista vorrebbe infiltrare nella moschea, dove si sospetta che il rettore Si Kaddour Ben Ghabrit (nel film Michel Lonsdale, lo stesso attore che interpreta l’anziano medico frère Luc in omini di Dio) fornisca documenti falsi agli ebrei. Younes non solo scoprirà che il sospetto è fondato, ma ne uscirà trasformato dall’amicizia con il cantante ebreo algerino Salim Halali. Al punto da scegliere di unirsi alle forze della Resistenza.
Younes è un personaggio di fantasia, ma tutto l’intreccio del film si basa sulla vicenda storica del ruolo che sarebbe stato realmente svolto in quegli anni dalla moschea di Parigi. Una tesi non nuova: già lo storico americano Robert Satloff – nel suo fortunato libro Tra i giusti (Marsilio), che metteva a tema proprio il rapporto tra arabi ed ebrei del Nordafrica durante la Shoah – aveva dedicato un capitolo a questa vicenda parigina.
Ed era stato lui a fornire per primo il riscontro più importante: una nota del ministero degli Esteri francese datata 24 settembre 1940 e conservata nella moschea di Parigi in cui si legge testualmente: «Le autorità d’occupazione sospettano che il personale della moschea di Parigi fornisca in maniera fraudolenta a individui di razza ebraica certificati che attestano che le persone interessate sono di religione musulmana. All’imam è stato chiesto in maniera molto forte di porre fine a pratiche di questo genere». Su questo testo l’associazione francese Battisseuses de Paix ha interpellato il ministero degli Esteri francese che ne ha confermato l’autenticità, avendone trovato copia negli archivi. Dunque il fatto che i nazisti sospettassero i musulmani di aiutare gli ebrei è storicamente provato.
Una circostanza che non suona affatto strana, se guardata con gli occhi di settant’anni fa: già nel 1939 in Francia vivevano circa 100 mila maghrebini e a Parigi erano quasi tutti algerini della Cabilia. Dentro a una comunità del genere era abbastanza normale che tra ebrei e musulmani immigrati dalla stessa regione i legami fossero molto stretti. Più difficile risulta – però – stabilire quanti ebrei si salvarono a Parigi grazie ai documenti rilasciati dalla moschea. Satloff stesso spiega infatti che nessuno degli scampati ha mai rilasciato una testimonianza in prima persona che attesti quanto accaduto.
E questo ha portato per ora lo Yad Vashem a non assegnare il titolo di Giusto tra le nazioni a Si Kaddour Ben Ghabrit. Anche lo storico Benjamin Stora – che ha studiato a fondo la storia della prima comunità maghrebina di Parigi e ha collaborato con Ismael Ferroukhi alla sceneggiatura del film – propende più per la tesi dei casi isolati: ebrei sefarditi che parlavano l’arabo e vivevano a Parigi avrebbero scelto questa strada, trovando copertura nel rettore nella moschea.
Non a caso il film fa esplicitamente riferimento alla storia su cui si hanno più notizie: quella – appunto – del cantante algerino di origine ebraica Salim Halali, riguardo al quale solo in occasione della sua morte, avvenuta nel 2005, è emerso che si sarebbe salvato dallo sterminio grazie all’imam. Stora definisce Halali come un personaggio di frontiera: si esibiva, infatti, nei cabaret di musica orientale nella Parigi degli anni Quaranta. A lui il rettore della moschea avrebbe rilasciato un documento falso in cui si attestava la sua fede musulmana e avrebbe anche fatto incidere il nome del nonno su una tomba vuota nel cimitero islamico di Bobigny.
Al di là delle ricostruzioni storiche, resta comunque il fatto che – nel contesto difficile di oggi, con nuovi casi di antisemitismo oltralpe – Les hommes libres mette coraggiosamente a tema ciò che unisce tra loro ebrei e musulmani. E si inserisce in un percorso più ampio di riscoperta araba della Shoah che in questi ultimi anni ha fatto segnare passi importanti, ingiustamente messi in ombra dalla follia delle tesi negazioniste del presidente iraniano Ahmadinejad. Proprio in questi giorni – ad esempio – dal Marocco è venuta un’altra notizia molto significativa: all’Università Al-Akhawayn di Ifrane si è svolto il primo seminario dedicato alla memoria dell’Olocausto in un Paese arabo.
A promuoverlo è stato Elmehdi Boudra, un laureando in scienze politiche nonché presidente di un’associazione di studenti musulmani. Al convegno sono intervenuti lo storico Michael Barembaum – già direttore del museo della Shoah di Washington – ed Elizabeth Citron, ebrea di Romania che subì personalmente l’esperienza drammatica della deportazione ad Auschwitz-Birkenau.
Il mondo arabo e la Shoah
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