Gaza, su Twitter la notte di scontri

  MILANO – Alle sei di venerdì mattina alcuni di loro era ancora lì, a cinguettare su Twitter. A informare, a modo loro. A raccontare una notte di Gaza «diversa dalle altre, ma uguale ad altre ancora». Una serata di caccia militari israeliani che volano sopra le loro teste, di esplosioni, di elettricità che salta. Di morti e feriti. È una sorta di «citizen journalism» in salsa palestinese. Fatta da ventenni che non possono muoversi dalla Striscia. Ma che, grazie a Facebook e a Twitter, hanno scoperto com’è il mondo là fuori. E che, grazie a Facebook e a Twitter, aggiornano il mondo là fuori su cosa accade dentro. Certo, sono di parte. Nessuna critica ad Hamas, nessun commento sui razzi sparati dalla Striscia contro lo Stato ebraico. Spiega uno: «I miliziani di Hamas sono sempre alle calcagna e per questo alcuni di noi, me compreso, ci siamo costruiti due profili sui social network: uno in arabo, con il nostro nome e cognome, uno in inglese, con uno pseudonimo». Le informazioni passano soprattutto nella versione inglese.
CORREZIONI IMMEDIATE - Guai, però, a scrivere notizie sbagliate o imprecise. Arrivano subito le correzioni. «Non possiamo scrivere falsità. Non possiamo giocarci quel poco di credibilità che ci stiamo costruendo noi civili», dicono in molti. E così, per capire cosa si muove a Gaza, basta guardare i profili virtuali di molti di loro. Twitter, il social network di microblogging, quello da 140 caratteri, è di gran lunga il più usato. Quando non accade nulla di solito ci sono indicazioni di lettura: articoli di qualche giornale filo-palestinese, commenti pro Ramallah scritti su quotidiani internazionali, informazioni varie. Quando, invece, succede qualcosa, tutti scrivono, tutti ri-trasmettono i cinguetiidegli altri. La rete nella Rete. Ogni secondo è un aggiornamento. Da Khan Younis, da Rafah, da Gaza City. A volte anche da qualche villaggio sperduto nella Striscia, abitato da poche decine di persone che nemmeno la cartina geografica più aggiornata ha fatto in tempo a inserire nel database. Nel giro di pochi minuti si sa tutto – o quasi – del raid aereo israeliano, degli incidenti lungo il confine con l’Egitto e lo Stato ebraico, delle rivolte interne contro Hamas, dell’elettricità saltata. Morti, feriti, nomi e cognomi, strade coinvolte dal blackout e fazioni in lotta che creano tensione. Anche la scorsa notte è stato lo stesso.


GAZA SOTTO ATTACCO - «Il nord di Gaza è sotto attacco», ha scritto alle 2.33 (ora locale, l’una e mezza in Italia) più di qualcuno. «Mahmud Abu Samra, 13 anni, è stato ucciso dal raid israeliano a ovest di Gaza», ha cinguettato pochi minuti dopo Omar. «Atef Mahmoud Abu Samra», lo ha corretto Basharov. In certi casi, in questi casi, un «Atef» in più o in meno sembra fare la differenza. Poi è arrivata la foto della vittima: un’istantanea in bianco e nero dove si vede lui, Atef, insieme ad altri due coetanei. Indossa le All Stars, il ragazzino, guarda l’obiettivo della macchina fotografica e sorride. In mattinata, ore dopo, anche le agenzie internazionali scriveranno del ragazzo. «Ancora bombardamenti e F16», ha scritto disperata – alle 2.36 di notte – Jeje. «Merda, un altro razzo ha scosso la mia casa», ha imprecato un altro. «Finalmente è tornata l’elettricità e Internet funziona», ha commentato Najla, dieci minuti dopo. «Secondo una tv israeliana sia Gaza City che Khan Younis oggi saranno rase al suolo. Che Allah ci protegga», ha aggiunto ancora Omar. Bombe e religione. Perché la notte, a Gaza, è anche altro. «Ragazzi, scusate, vado a mangiare prima che scatti il momento del digiuno giornaliero», ha scritto verso le quattro di notte ora locale uno dei giornalisti-testimoni. È pur sempre Ramadan. Così, per una buona mezz’ora, di aggiornamenti non ne arrivano

LA TERZA INTIFADAÈ ONLINE

- «Ma perché Gaza non è tra le parole più usate nella classifica di Twitter?», ha chiesto a un certo punto una giovane della Striscia. «È arrivato il momento di una Terza intifada», ha incitato un altro più o meno negli stessi istanti. Poi l’appello di un altro: «Voi che siete all’estero, organizzate manifestazioni davanti alle ambasciate israeliane». A un certo punto, c’è stata pure l’«irruzione» di un filo-israeliano: «Spero le bombe possano cadere sulle vostre teste! Dovete morire tutti, così il mondo sarà migliore». Risposte da parte palestinese non ne sono arrivate. «Ci sono state altre esplosioni a sud, nel confine con l’Egitto: gli obiettivi colpiti sono i tunnel sotterranei», hanno continuato a scrivere alle prime luci dell’alba. Poi il silenzio. I caccia che non si fanno più sentire. E Omar che scrive, quando ormai sono le sei del mattino: «Non so se la festa è finita. Ma io adesso vado a dormire». Mentre un egiziano annunciava che per le due di venerdì pomeriggio, i suoi connazionali sarebbero andati di fronte all’ambasciata israeliana al Cairo «per protestare contro gli Ebrei». «In queste condizioni non ci provo nemmeno a passare il valico di Rafah», s’è sfogato Mohammed. Che poi si è chiesto: «Ma ora come faccio a tornare a Londra?». «Almeno tu puoi muoverti», gli hanno risposto in molti. E via così. Fino a quando, sempre Mohammed, ne ha detta una che, da loro, fa sempre ridere: «La verità è che se un israeliano si prende il raffreddore a Tel Aviv, lo Stato ebraico incolpa noi palestinesi». La frase è la storpiatura (voluta) di una massima di Saeb Erekat, il mediatore palestinese del processo di Pace. Un uomo che, dopo la pubblicazione dei “Palestine Papers”, s’è perso nel labirinto mediorientale.
Leonard Berberi19 agosto 2011 15:46© RIPRODUZIONE RISERVATAGaza, su Twitter la notte di scontri

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