Uno studio israeliano afferma: l’Arabia Saudita agita lo spauracchio della questione palestinese per fare pressione su Washington


   Un nuovo studio pubblicato dal Beghin-Sadat Center for Strategic Studies di Tel Aviv, a proposito dei rapporti fra il regno saudita e gli Stati Uniti, afferma che la leadership saudita è realmente furiosa nei confronti dell’amministrazione Obama. Riyadh minaccia di riconsiderare le proprie relazioni e la propria alleanza strategica con Washington; ma i sauditi “non mordono”, abbaiano soltanto – sostiene l’autore dello studio, Joshua Teitelbaum. Malgrado le manifestazioni di rabbia occasionale da parte di numerosi responsabili sauditi a proposito della politica americana nei confronti delle rivoluzioni arabe, di Israele, dell’Iraq, dell’Iran, o anche dell’Afghanistan, Riyadh e Washington continuano a essere ben lontane dal dividersi e dall’allontanarsi reciprocamente, perché gli interessi strategici condivisi fra i due paesi sono più forti di qualsiasi divergenza occasionale che può emergere fra essi.
Lo studio cita il fatto che nel giugno scorso il principe saudita Turki al-Faisal pubblicò un articolo d’opinione sul Washington Post nel quale rivolse aspre frecciate al presidente americano a causa del suo sostegno incondizionato ad Israele e del suo parallelo abbandono dei palestinesi. Ma, secondo il ricercatore israeliano, sebbene l’articolo si sia guadagnato titoli in prima pagina sulla stampa internazionale, molti arabi – politici, intellettuali ed opinionisti – hanno preso le affermazioni del principe Faisal alla stregua di “parole in libertà”, o meglio, di parole prive di qualsiasi contenuto.Teitelbaum prosegue dicendo che l’Arabia Saudita, accusata di voler uccidere sul nascere le rivoluzioni arabe, e alla testa degli ambienti che si oppongono alla primavera araba, ha ritenuto che fosse possibile sfidare questa tendenza sfruttando la questione palestinese, in particolare per mano del principe Turki al-Faisal. In altre parole, il principe Faisal con il suo articolo ha cercato di rafforzare la legittimazione della famiglia regnante saudita, prendendo in mano lo scettro della questione palestinese negli Stati Uniti e agitandone lo spettro. Questo modello di politica araba è ben noto ed è stato ripetutamente utilizzato. Ogni volta che una bufera scuote un determinato paese arabo, esso si affretta ad abbracciare la questione palestinese, tuttora considerata come la questione araba numero uno, con l’obiettivo di distogliere l’attenzione dai guai interni al paese.
Secondo il principe Faisal, l’Arabia Saudita è stata e continua ad essere in Medio Oriente un baluardo a difesa degli interessi americani. Nel suo articolo egli ha attirato l’attenzione sul fatto che, se l’attuale amministrazione a Washington ritiene di non poter fare a meno dell’alleanza con Israele, presto o tardi essa giungerà alla conclusione che vi sono anche altri attori nella regione mediorientale.
Il principe saudita ritiene che il gioco dei favoritismi nei confronti di Israele non denoti saggezza da parte dell’amministrazione americana, e ben presto emergerà che la politica americana del sostegno incondizionato a Tel Aviv è una politica sciocca al massimo grado. Nel suo articolo, Turki al-Faisal si è concentrato sul fatto che vi saranno conseguenze disastrose per le relazioni americano-saudite qualora gli Stati Uniti dovessero osare ricorrere al diritto di veto alle Nazioni Unite quando i palestinesi, il prossimo mese di settembre, porranno la questione della dichiarazione di uno Stato palestinese entro i confini del 1967. Teitelbaum ha rilevato che l’articolo di Turki al-Faisal è giunto circa un mese dopo la pubblicazione di un articolo di Nawaf Obaid, consulente per la sicurezza presso il centro studi affiliato al principe Faisal, che conteneva affermazioni ben più aspre. L’articolo affermava che l’Arabia Saudita avrebbe fatto ricorso all’arma del petrolio per costringere Washington a cambiare la propria politica di sostegno incondizionato a Israele, e ristabilire l’equazione “petrolio in cambio di accordi di sicurezza”. Obaid concludeva l’articolo affermando che l’Arabia Saudita stava riconsiderando il rapporto di partnership con Washington alla luce della totale parzialità del presidente Obama a favore delle posizioni israeliane.
Cosa sta accadendo? – si chiede Teitelbaum. E risponde: i sauditi sono realmente infuriati con gli Stati Uniti per tutto ciò che concerne le rivoluzioni arabe, ed in particolare per non aver appoggiato la mossa saudita di inviare in Bahrein la Peninsula Shield Force (le forze armate del Consiglio di Cooperazione del Golfo (N.d.T.) ) per reprimere la sollevazione della maggioranza sciita contro il regime minoritario sunnita al potere. Questo atteggiamento americano viene interpretato a Riyadh come un abbandono da parte di Washington dell’alleato strategico saudita, in tempi così difficili per quest’ultimoTeitelbaum riferisce che quando negli Stati Uniti ha cominciato a infiammarsi il dibattito interno relativo alla questione del ritiro americano dall’Iraq, il principe Turki al-Faisal ha rivolto un ammonimento agli americani riguardo alla pericolosità del ritiro. In un convegno tenutosi nel 2006, egli aveva affermato che, siccome gli Stati Uniti sono giunti in Iraq senza essere stati invitati, allo stesso modo non avrebbero dovuto lasciare il paese senza essere invitati a farlo. A questo proposito, Obaid ha minacciato che l’Arabia Saudita si sarebbe schierata a fianco dei sunniti iracheni per contrastare la maggioranza sciita che si è assicurata armi ed equipaggiamento militare. Obaid ha minacciato che l’Arabia Saudita sarebbe intervenuta al fianco dei sunniti.
Tuttavia, secondo Teitelbaum, i sauditi abbaiano ma non mordono. Essi si sono sempre lamentati apertamente della politica americana in Medio Oriente, fin da prima della fondazione dello Stato di Israele, ma non hanno mai esitato a rassicurare privatamente i responsabili americani che queste politiche non avrebbero messo in pericolo i rapporti con Washington. La ragione sta nel fatto che la partnership nel settore della difesa e dell’energia è semplicemente troppo stretta perché i principi sauditi e i loro lacchè possano rompere i rapporti con Washington in questi due settori.
Gli Stati Uniti sono in primo luogo il principale fornitore di armi del regno saudita, e continuano ad addestrare le sue truppe. Oltre alla firma di un accordo per la fornitura di armi del valore di 60 miliardi di dollari, annunciata dal Congresso americano nell’ottobre 2010, tra il novembre 2010 e il giugno 2011 sono state annunciate altre vendite di armi per un valore di 3,7 miliardi di dollari, che vanno dai sistemi di difesa missilistica Patriot alle bombe a grappolo.
Per non parlare poi dei consulenti di sicurezza americani che operano nel regno.
Gli americani temevano che l’Arabia Saudita avrebbe aumentato il prezzo del petrolio – un aumento che avrebbe potuto influire negativamente sulla ripresa economica. Ma alla fine Washington ha convinto i sauditi ad aumentare la produzione impedendo così un innalzamento dei prezzi.
Non vi è dubbio che, sebbene il regno saudita e gli Stati Uniti non siano amici né alleati, essi hanno condiviso per decenni interessi legati al petrolio e alla sicurezza. Ciò ha portato all’instaurazione di rapporti economici e militari che difficilmente cambieranno nel prossimo futuro – sostiene lo studio israeliano.
Zuhair Andreus è un giornalista palestinese di nazionalità israeliana; è direttore del giornale “Maa Alhadath”, ed è corrispondente del quotidiano panarabo al-Quds al-Arabi; ha scritto su numerosi giornali arabi ed israeliani
(Traduzione di Roberto Iannuzzi)

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