Giorgio Gomel :JCALL, la Diaspora europea e l’immobilismo di Israele

   JCALL, il movimento ebraico europeo costituitosi in virtù di un appello in favore del negoziato di pace fra Israele e i palestinesi basato sul principio di “due stati per due popoli” (www.jcall.eu), ha compiuto un anno di vita. Con il sostegno di 8000 firmatari, sezioni attive in Francia, Svizzera, Germania, Olanda, Italia, Belgio, rapporti stretti con Jstreet e Yahad – movimenti affini negli Stati Uniti e in Gran Bretagna – ha saputo aggregare individui e gruppi disillusi dalle istituzioni ufficiali dell’ebraismo europeo nel loro appoggio acritico al governo di Israele. Individui e gruppi solidali con il diritto di Israele di esistere come popolo e come stato, in pace e sicurezza, ma preoccupati per la sua sopravvivenza come stato ebraico e democratico, che agiscono sia nel mondo ebraico sia in quello politico-parlamentare dei propri paesi e della UE in favore di una soluzione negoziata che ponga fine all’occupazione, fermi la follia degli insediamenti, divida la terra contesa fra i due popoli, con confini concordati e in rapporti di buon vicinato.
A un anno dalla nascita JCALL ha tenuto un incontro a Parigi il 19 giugno, con sessioni dedicate alle implicazioni per Israele e Palestina dei rivolgimenti in atto nel mondo arabo, alla reazione della società civile israeliana all’occupazione, al pericolo della delegittimazione di Israele – attraverso le campagne dette BDS (boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni) - e alla posizione dell’Europa. Fra gli oratori, Eli Barnavi, Akiva Eldar, Bernard Guetta, Gad Lerner, Hagit Ofran. 
Molti presenti, una pluralità di opinioni, un acuto sentimento di angoscia per Israele, paralizzato dall’immobilismo di un governo, dominato dai partiti di destra, soggetto al potere di pressione dei coloni, incapace di un’iniziativa autonoma che vada al di là del compunto e colpevole rigetto delle proposte di Obama, dell’offerta di pace della Lega Araba, delle stesse aperture dell’ANP rivelate qualche mese fa dai Palestine Papers e ribadite di recente da Abu MazenImmobilismo che anche Shimon Peres ha deplorato prefigurando un futuro di Israele “binazionale” e di fine del sionismo. Immobilismo, difesa dello status quo tanto più gravi nell’imminenza della possibile dichiarazione di indipendenza della Palestina, di un suo riconoscimento da parte delle Nazioni Unite e dell’acuirsi dell’isolamento diplomatico di Israele. Immobilismo, dovuto anche a un sistema politico frammentato in partiti e fragili coalizioni, ma tollerato dall’opinione pubblica del paese. Essa sostiene la soluzione di “due stati per due popoli” e del ritiro dai territori, ma – tranne che per l’impegno di ONG attive nella difesa dei diritti umani e di gruppi che militano a fianco dei palestinesi nelle proteste contro il muro, gli insediamenti e le usurpazioni di case a Gerusalemme est - appare rassegnata all’inazione, per passività fatalista o nella convinzione che il conflitto sia irrisolvibile, la pace non sia davvero possibile, i palestinesi accettino una condizione di soggezione per l’eternità. Un meccanismo di “negazione” e di illusione collettiva della nazione, pericolosamente autodistruttivo.
Cosa propone quindi JCALL ai Parlamenti e governi della UE perché agiscano di concerto con gli Stati Uniti per riavviare il negoziato e scongiurare il pericolo di ulteriori violenze?
La prima opzione è quella ribadita da Obama nei suoi recenti interventi: giungere a un accordo per uno stato palestinese, accanto a Israele, entro i confini di prima del 1967, prevedendo uno scambio di territori che consenta a Israele di incorporare gli insediamenti più prossimi alla Linea Verde, mentre gli altri saranno sgomberati, e misure di sicurezza da attuarsi via via che l’esercito israeliano si ritirerà dalla Cisgiordania. La stessa ANP ambisce a questo risultato e cerca di imporlo a Hamas dopo le intese per un eventuale governo unitario e sotto la spinta delle rivolte nei paesi arabi che da un lato indeboliscono Hamas e dall’altro spingono i palestinesi alla protesta contro i loro reggitori autoritari. Protesta finora limitata e non violenta, ma che potrebbe degenerare se nulla cambiasse sul terreno e estendersi contro l’Israele occupante con il pericolo di un riaccendersi dell’intifada. 
Ma se il negoziato non avanza, l’alternativa sarà quella di continuare nel processo iniziato dal premier Fayad di costruire dal basso le istituzioni di un embrione di stato, garantirne il progresso economico e civile, ottenerne il riconoscimento da parte delle Nazioni Unite.Sarebbe un esito siffatto un disastro per Israele come tuoneggia Netanyahu? 
Non sembra così agli israeliani che hanno promosso un appello per “appoggiare il riconoscimento di uno stato democratico di Palestina come condizione per porre fine al conflitto e negoziare i futuri confini sulla base delle frontiere del 1967. Il riconoscimento è essenziale per l’esistenza stessa di Israele ….”. Tra loro, Eli Barnavi, Avraham Burg, Amos Oz, Zeev Sternhell, Yehuda Bauer, Gila Almagor, e numerosi ex generali o alti ufficiali dell’esercito.
Non sembra a noi. Una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU che riconoscesse lo stato di Palestina, sulla base dei confini di prima del 1967 con scambio di territori e garanzie di sicurezza per Israele sarebbe come il riaffermare la risoluzione 181 del 29 novembre 1947 che spartì la Palestina del mandato britannico in due stati, l’uno arabo-palestinese , l’altro ebraico. Risoluzione da cui scaturì la dichiarazione di indipendenza di Israele del maggio 1948 e su cui si fonda la sua legittimità internazionale. Una risoluzione del genere votata oggi dalla comunità delle nazioni, inclusi i paesi arabi, sarebbe anche il riconoscimento quindi di Israele come stato ebraico con confini legittimi.
Poi resterebbe ovviamente il negoziato arduo fra i due stati sui confini definitivi, il futuro degli insediamenti, lo status dei rifugiati e di Gerusalemme. 
Giorgio Gomel

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