Chris Doyle : perchè un intervento straniero non è gradito in Siria


  Intervenire o non intervenire? Avendo visto il regime di Assad uccidere più di 1.400 siriani, arrestarne decine di migliaia, usare elicotteri d’assalto e carri armati contro il proprio popolo, abusare verosimilmente di bambini e ucciderli, in molti si domandano perché, se è stata ritenuta necessaria un’azione in Libia, non valga lo stesso per la Siria. La condotta del regime siriano è stata solo leggermente migliore di quella della controparte libica (nella persona di Gheddafi) e ancora l’Occidente non sa cosa fare, come farlo e con chi; ma soprattutto non è stato invitato a intervenire. Esiste un famoso proverbio siriano: “Il loglio (ziwan) del proprio paese è sempre meglio del grano dello straniero”. In altre parole, i siriani preferirebbero il peggio dal proprio regime alla migliore offerta proveniente dall’esterno.  Nonostante la violenza quotidiana, c’è poca voglia di aprire le porte a un’azione esterna. I siriani hanno una certa esperienza in materia di occupazione e ingerenza straniera. Il periodo della colonizzazione francese vide il loro paese ridotto in frammenti: un pezzo tolto via per il Libano, Alessandretta data alla Turchia, e la creazione di aree quasi indipendenti per gli alawiti e i drusi.  
Inoltre i siriani non si fanno impressionare dall’intervento NATO in Libia. Questo popolo in generale ha appoggiato la politica estera del proprio regime, ma ha perso la speranza nella sua politica interna.
Per queste ragioni, gli oppositori siriani del regime sono estremamente nervosi all’idea di collaborare con attori esterni. Pochissimi fra gli anti-regime hanno richiesto un intervento delle Nazioni Unite. Uno scrittore siriano di spicco, ed ex prigioniero politico, Louay Hussein, mi ha detto da Damasco: 
“Bisogna distinguere fra intervento esterno e pressione esterna. Noi siamo contro l’intervento straniero, ma vorremmo una pressione esterna a difesa dei diritti umani, e non per appoggiare un determinato partito contro un altro a seconda dei propri interessi personali”.
La mancanza di entusiasmo in Siria è uguagliata a livello internazionale. Un importante alto funzionario britannico mi ha confermato che esistono davvero poche opzioni riguardo alla Siria. Russia, Cina, Brasile e altri si oppongono fermamente a qualsiasi tipo di azione, persino a circoscritte sanzioni ONU.
Queste sanzioni avrebbero un impatto limitato. Gli USA e l’UE hanno già imposto sanzioni, quindi non è chiaro quale ulteriore effetto avrebbero le Nazioni Unite. Inoltre, come ha dimostrato l’Iraq, sanzioni su vasta scala colpiscono molto di più la popolazione che non il regime. Se le sanzioni dell’ONU appaiono improbabili, l’intervento militare lo è ancora di più. Sono famose le parole sulla guerra in Iraq pronunciate da Donald Rumsfeld, che la definì “vincibile e fattibile”; un errore con cui i suoi successori faranno i conti per anni.
Se da un lato la Siria, con i suoi armamenti russi ormai obsoleti, può non essere una grande potenza militare, dall’altro l’assenza di un vero partner sul campo, la delicata composizione settaria e etnica, e l’instabilità dei vicini indicano che (come nel caso dell’Iraq) con ogni probabilità si tratta di una causa non-vincibileLouay Hussein ha evidenziato che “qualsiasi intervento straniero in una struttura sociale così diversificata, può portare a uno scenario simile a quanto accaduto in Iraq; conosciamo tutti i risultati di tale scenario”. Non sussiste solo il rischio di una guerra civile, ma anche di un conflitto regionale. Inoltre un intervento diretto dagli Stati Uniti sarebbe percepito in Siria e nella regione come guidato principalmente dagli interessi israeliani.
Anche la Turchia ha precedenti storici che pesano negativamente. Il primo ministro turco, Recep Erdogan, ha accusato il regime siriano di “comportarsi in modo disumano”, ma gli apologeti del regime hanno replicato riferendosi ai turchi come “ottomani” (un’allusione al controllo ottomano sulla Siria).Sarebbe poi estremamente problematico realizzare una no-fly zone o una zona di protezione. I costi sarebbero finanziariamente proibitivi nella situazione attuale, e i fondi militari NATO stanno risentendo del massiccio sovrautilizzo precedente. Forze esterne potrebbero appoggiare gruppi di opposizione. Ma una delle cose che ha tenuto molti siriani lontani dalle proteste dei loro connazionali è proprio la paura che non esista un’alternativa concreta al regime.Come per l’Iraq, si rischia che forze esterne sostengano gruppi che non sono credibili sul terreno. Farid Ghadry è la versione siriana di Ahmed Chalabi: un oppositore del regime appoggiato dagli USA, e un sostenitore di Israele malvisto dalla maggior parte dei siriani. L’unico movimento veramente organizzato, i Fratelli Musulmani, è perlopiù esterno al paese, e viene ricordato per avere ucciso nei primi anni ’80 numerosi siriani durante azioni promosse da Saddam Hussein. 
Gli ex membri del regime hanno anch’essi i loro piccoli gruppi, inclusi lo zio del presidente, Rifat Assad, e suo figlio, l’affabulatore Ribal, a cui bisogna aggiungere l’ex vice presidente Abdul Halim Khaddam. Ma entrambe le fazioni sono detestate. La situazione in Siria potrà solo peggiorare nelle prossime settimane, con ulteriori proteste e massacri, con l’acuirsi della crisi economica mentre settori vitali come il turismo e gli investimenti esteri decrescono, e con l’aumentare della pressione sulla comunità internazionale affinché agisca. Il caos in Siria sarà quasi impossibile da contenere. La Turchia sta affrontando la crisi umanitaria dei profughi sul suo confine meridionale e potrebbe creare persino una zona cuscinetto all’interno della Siria.Numerosi siriani sono scappati in Libano, un paese che dipende molto dalla Siria per le sue importazioni. Anche Israele è preoccupata. Rami Makhlouf, il corrotto cugino del presidente, ha minacciato dalle pagine del New York Times: “se non c’è stabilità da noi, non ci potrà essere stabilità in Israele”. Questo avvertimento ha preso consistenza il 5 giugno quando i manifestanti palestinesi, senza dubbio incoraggiati dal regime, hanno cercato di oltrepassare la recinzione della linea armistiziale fra Siria e Israele, sulle alture occupate del Golan. Si dice che le forze israeliane abbiano ucciso circa 20 persone.
Esiste anche una dimensione palestinese del problema, con 450.000 rifugiati palestinesi in Siria e scontri nel principale campo profughi, quello di Yarmouk, che hanno fatto 20 morti. La maggior parte dei palestinesi è terrorizzata dal rischio di essere risucchiata in questa crisi, e l’OLP a malapena si è fatta sentire. Nella migliore delle ipotesi, la risposta della comunità internazionale sarà isolare ulteriormente il regime e contenere l’impatto della crisi: un’ulteriore schiacciante prova non solo della sua mancata presa di posizione sulla primavera araba, ma anche del declino dell’influenza degli Stati Uniti e dei loro alleati nella regione; forse, un processo irreversibile.
Ma l’Occidente può condannare solo se stesso. È l’inconsistenza delle sue politiche e l’incapacità di fondare le sue azioni su basi legali e etiche (non ultimo in Iraq, in Palestina, e a causa della propria complicità con il più dittatoriale dei regimi) ad aver portato alla mancanza di fiducia nelle sue ragioni, e ai dilemmi che affronta oggi. 

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