La lotta per la sopravvivenza condotta dal colonne llo libico Muammar Gheddafi, dal presidente siriano Bashar Assad, e dai loro omologhi in altri paesi, preannuncia gli ultimi giorni dell’accordo di Sykes-Picot stipulato nel corso della prima guerra mondiale, che di fatto divise la regione del Medio Oriente in Stati separati. Ora è evidente che le mappe disegnate negli anni a venire mostreranno nuovi (o rinnovati) Stati indipendenti come il Sud Sudan, il Kurdistan, la Palestina, e forse anche la Cirenaica, nella Libia orientale, e il Sahara occidentale, che non sarà più nelle mani del Marocco; emergerà un ricostruito Yemen del Sud, e nasceranno nuovi Stati del Golfo dalla separazione degli Emirati Arabi Uniti. E’ anche possibile che si verifichi una spaccatura in Arabia Saudita tra “lo stato dei luoghi sacri” nel Hejaz e le regioni petrolifere a est, e una frammentazione della Siria in uno Stato sunnita, uno druso e uno alawita. La base di queste divisioni sarà l’attuazione del principio di autodeterminazione di nazioni e tribù, che fino ad ora controvoglia, e in assenza di alternative, sono state riunite insieme con i loro nemici nello stesso “pacchetto nazionale”.
La politica estera di Israele, prima ancora di diventare uno Stato, è sempre stata costruita sulle rivalità tra i vicini arabi e musulmani. Fra l’altro, l’unità panaraba e panislamica è sempre stata basata in larga misura sull’ostilità nei confronti di Israele, che da parte sua ha preferito il separatismo e il nazionalismo dei suoi vicini. Più Stati ci saranno nella regione in futuro, più sarà facile per Israele avere spazi di manovra tra essi.I confini in Medio Oriente furono determinati tra il 1916 e il 1922 nel corso di negoziati che coinvolsero le potenze europee, condotti in maestosi palazzi da funzionari che indossavano giacca e cravatta. Quei confini stanno per essere ridisegnati nel XXI secolo con la forza, da guerre e sommosse popolari. Ciò ebbe inizio con l’invasione americana dell’Iraq otto anni fa, che schiacciò il regime centrale e creò delle enclave etniche di fatto. Il processo è proseguito con il ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza, che ha portato alla creazione di uno stato di fatto controllato da Hamas, e successivamente con il referendum sulla divisione del Sudan, al termine di una lunga e crudele guerra intestina in quel paese. Tale processo è stato poi accelerato dalle recenti rivoluzioni nei paesi arabi, che si trovano ancora nella loro fase iniziale e hanno già portato a una guerra in Libia.
Nel suo nuovo libro “How to Run the World” (Random House), che è stato pubblicato poco prima delle rivolte in Tunisia ed Egitto, Parag Khanna, ricercatore presso la New America Foundation, prevede un mondo composto da 300 nazioni sovrane indipendenti nei prossimi decenni, rispetto alle circa 200 di oggi. Alla base di questa frammentazione vi è ciò che Khanna ha chiamato “entropia post-coloniale”: molti Stati si sono sviluppati a partire da ex-colonie – egli osserva – e dalla loro indipendenza hanno “sperimentato una crescita incontrollabile della popolazione, una dittatura predatoria e corrotta, infrastrutture e istituzioni fatiscenti, e una polarizzazione etnica o confessionale”. Esattamente le stesse ragioni possono essere usate per spiegare le vicissitudini attuali nei paesi arabi.In molti casi, scrive Khanna, i confini attuali sono la causa di dissidi interni – per esempio, in Stati falliti come lo Yemen, il Pakistan e la Repubblica Democratica del Congo. A suo avviso, le guerre in Afghanistan e in Iraq non sono “guerre americane”, ma piuttosto “ordigni inesplosi di vecchie guerre europee, con le micce innescate a lento rilascio”.L’America non può essere biasimata per il Congresso di Berlino nel 1884, che divise l’Africa senza prendere in considerazione i suoi abitanti, o per la partizione britannica di Pakistan e Afghanistan. Ma l’America – insieme con le altre potenze – può e deve contribuire a risolvere oggi i problemi che ne derivano. E non solo attraverso l’elaborazione di nuove frontiere o in occasione delle votazioni alle Nazioni Unite, ma anche costruendo infrastrutture in grado di fornire solide basi economiche per i nuovi paesi, e di liberarli dalla dipendenza nei confronti di potenti vicini come la Turchia e Israele.
Nel XX secolo, le potenze occidentali controllavano l’Asia e l’Africa, e individuarono una vasta gamma di risorse in Medio Oriente. Nel 1916, Sir Mark Sykes e François Georges-Picot – un funzionario britannico e un diplomatico francese, rispettivamente – elaborarono un accordo a nome dei loro governi, che rappresentava un tentativo di spartizione dell’Impero Ottomano, il quale stava combattendo al fianco della Germania contro gli Alleati. Il documento e la mappa che essi misero a punto erano teorici, e la possibilità di attuarli sembrava scarsa: i turchi erano ancora lontani da una sconfitta, e gli eserciti occidentali si stavano dissanguando lungo il fronte occidentale dell’Europa. In sostanza, i governi di Sykes e Picot agognavano alla Siria e alla maggior parte della Palestina per la Francia, e a quello che poi sarebbe diventato l’Iraq per la Gran Bretagna.Come racconta lo storico americano David Fromkin nel suo affascinante libro “A Peace to End All Peace” (1989), Sykes si convinse che l’accordo che aveva architettato con i francesi avrebbe soddisfatto Sharif Hussein del Hejaz, il progenitore della dinastia hascemita, che voleva l’indipendenza del suo popolo dall’Impero Ottomano in cambio del proprio sostegno agli inglesi.
In un successivo incontro, il capitano William Reginald Hall, capo della Royal Naval Intelligence, sorprese Sykes introducendo un nuovo fattore negli equilibri di forza: gli ebrei, disse, avevano “un interesse politico molto forte nel futuro del Paese [la Palestina]“. Sykes era esterrefatto. Non aveva mai sentito parlare di sionismo prima di allora. Si precipitò a un incontro con il ministro ebreo nel gabinetto di guerra britannico, Herbert Samuel, per una spiegazione.Questo fu l’inizio del processo che avrebbe portato in seguito alla Dichiarazione Balfour, alla conquista della Palestina, all’istituzione del Mandato Britannico, e alla nomina di Samuel come suo primo alto commissario. A questo punto erano stati gettati i semi della collera araba nei confronti delle potenze occidentali, che avevano smantellato e riassemblato le nazioni e gli Stati del Medio Oriente e avevano promesso la Palestina ai sionisti.I confini definitivi del Medio Oriente furono stabiliti dall’allora Segretario Coloniale Winston Churchill alla Conferenza del Cairo nel 1922, che separò la Transgiordania dai confini del Mandato sulla Palestina. La destra israeliana ancora oggi si rammarica per quella “separazione”.Con la fine del colonialismo, il mantenimento di tali confini costituì la base dell’ordine politico nella regione, anche se lasciò insoddisfatti molti popoli – per esempio i curdi, che rimasero divisi tra Iraq, Turchia, Siria e Iran. La reazione al colonialismo fu il panarabismo del leader egiziano Gamal Abdel Nasser, che raggiunse il suo culmine alla fine degli anni ’50 con l’unione di Siria ed Egitto (la Repubblica Araba Unita), la quale però non durò a lungo. Ora, a quasi 100 anni dai colloqui tra Sykes e Picot, il ritiro degli Stati Uniti dall’Iraq offrirà ai curdi una possibilità di raggiungere l’indipendenza, nonostante l’opposizione della Turchia. Da parte loro, i palestinesi stanno lavorando per il riconoscimento internazionale del loro paese entro l’estate a venire, nonostante le obiezioni di Israele.Altri “Stati artificiali” come la Libia, che fu composta unendo tre ex colonie italiane, così come lo Yemen, la Siria, la Giordania, il Bahrain, l’Oman e l’Arabia Saudita, potrebbero disintegrarsi del tutto. In tutti questi Stati vi sono gravi tensioni interne tra le tribù e le comunità, o tra un governo di minoranza imposto alla maggioranza. Lo Yemen era diviso in passato e potrebbe ancora una volta essere diviso in nord e sud. In Arabia Saudita, le distanze sono vaste. Ma com’è possibile dividere la Giordania, dove i beduini e i palestinesi sono mescolati insieme? La ridefinizione dei confini non è una panacea.Nel frattempo, la guerra in Libia sta dividendo di fatto la Cirenaica, il bastione dei ribelli a est, dalla Tripolitania sotto il controllo di Gheddafi. L’entrata in guerra delle potenze occidentali al fianco dei ribelli mostra che esse vogliono creare un protettorato sotto la loro influenza vicino al confine con l’Egitto, che rischia di diventare una repubblica islamica ostile all’Occidente. E’ difficile trovare un’altra logica giustificazione strategica per la decisione di impegnarsi in Libia.Le battaglie tra le forze britanniche e Rommel nella seconda guerra mondiale furono combattute proprio in quegli stessi luoghi, e avevano lo stesso scopo: proteggere il fianco orientale dell’Egitto e il Canale di Suez. Rommel e Montgomery combatterono ben prima che venisse scoperto il petrolio in Libia.
L’Occidente, come Israele, preferisce un Medio Oriente frammentato e litigioso, e sta combattendo su più fronti contro il panarabismo e il panislamismo guidato da Osama bin Laden (e, in modi diversi, anche dal presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad e dal primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan). Pertanto, è possibile presumere che l’Occidente non cercherà di ostacolare il processo di scissione nei paesi della regione, ma piuttosto vi contribuirà.
Israele è direttamente coinvolta nella battaglia per la creazione di una Palestina indipendente e la definizione dei suoi confini, e sarebbe toccata da vicino dalla disintegrazione degli Stati confinanti, ed in particolare di Giordania, Siria e Arabia Saudita. Una politica intelligente da parte di Israele, che individui correttamente le opportunità insite nella nascita di nuovi Stati e sappia trarre vantaggio da queste opportunità, sarà in grado di sfruttare questo inevitabile processo per rafforzare la potenza e l’influenza di Israele nella regione.
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