Due stati dell'essere:Conversazione con Amos Oz e con Sari Nusseibeh

   Questo dialogo è uscito recentemente sul International Herald Tribune Magazine e non ci risulta sia apparso in Italia. Lo pubblichiamo, contravvenendo alla nostra regola dell’inedito, perché nelle parole dei due scrittori sta, secondo noi, il meglio di due sguardi sulla possibilità di una convivenza pacifica tra due popoli divisi e nemici. Esse sono toccanti e realistiche perché sono parole sensate, che sarebbe giusto e logico ascoltare e seguire, ma sono anche utopiche perché l’irrazionalità e l’insensatezza, per non dire la stupidità, di come va il mondo le fa apparire tali. Ma questa è una ragione di più per diffonderle.
Nel leggere le memorie di Sari Nusseibeh (Once Upon a Country: A Palestinian Life) e Amos Oz (Una storia di amore e di tenebra), a volte è difficile ricordare che scrivono della stessa terra, che abitano a meno di 25 miglia di distanza. Sari Nussebeh è un politico e accademico palestinese, e quella che descrive è una vita di lotta per una terra in cui la sua illustre famiglia ha svolto un ruolo centrale dal VI secolo. Amos Oz è uno scrittore israeliano, e la sua storia si situa sullo sfondo del miracoloso ritorno degli ebrei - compresi i suoi genitori, due sionisti nati nell’Europa orientale - al loro antico luogo di origine, dopo secoli di diaspora. A volte le loro narrazioni sembrano escludersi a vicenda, costruite su aspirazioni e rivendicazioni tra loro inconciliabili. Nondimeno, i due sono di ventati buoni amici e hanno raggiunto la stessa conclusione: l’unico futuro possibile per la loro terra è di ospitare due stati confinanti. Per questa conversazione, i due si sono incontrati a Berlino, dove erano venuti a ritirare un premio assegnato a entrambi. La conversazione è stata moderata da Serge Schmemann, che dirige la pagina dei commenti dell’International Herald Tribune.

Serge Schmemann: Signori, nelle vostre memorie scrivete ambedue di uno stesso momento storico, la fondazione dello Stato di Israele, ma è come se scriveste di due eventi totalmente diversi. Nel suo libro, Sari, lei scrive: “L’anno del mio concepimento, il 1948, ha visto la fine del sogno palestinese…”. E lei, Amos, nel suo libro scrive che quello stesso momento fu un momento di riscatto, quando suo padre le disse: “D’ora in poi, poiché abbiamo un nostro Stato, tu non sarai mai vessato soltanto perché sei ebreo e perché gli ebrei sono così e così. Ciò non accadrà mai più”. Come potranno mai conciliarsi queste due narrazioni? Perché si faccia la pace, non dovranno essere riscritte da cima a fondo?

Oz: Non so se sia necessario conciliare le due narrazioni. Penso che possano restare diverse e perfino contraddittorie. Il punto è che dobbiamo riconciliarci gli uni con gli altri. Dobbiamo metterci d’accordo sul futuro, non sul passato.

Nusseibeh: Io penso che in certi casi sarà necessario conciliare le due narrazioni. Vi sono cioè alcuni avvenimenti che entrambi dobbiamo rivisitare per cercare di metterci d’accordo sull’interpretazione dell’accaduto. Ma anch’io ritengo che in generale sono i singoli, sono le persone che devono riconciliarsi. Ma, per tornare al padre di Amos, credo che siamo di fronte a qualcosa che non occorre “riconciliare”. Per gli ebrei, la fondazione dello Stato di Israele è stata qualcosa di molto speciale, molto più speciale di quanto sarebbe per noi palestinesi.

Oz: Secondo me, la vostra storia è soprattutto storia del conflitto con noi, dello scontro con noi.
Nusseibeh: Sì, ma tutto ciò che accade influenza le identità, e quanto è accaduto nel 1948 ha indiscutibilmente rappresentato per noi un evento di prima grandezza e tragico, che ha influenzato il nostro modo di pensare, la nostra identità e il nostro presente, e probabilmente continuerà a influenzare il nostro futuro, anche se non so esattamente in che modo. Penso però che vi sia una differenza fondamentale tra noi e loro - se posso chiamarti “loro”.
Oz: Puoi chiamarmi come vuoi.
Nusseibeh: Voi avete alle spalle una lunga storia e continui tentativi di tornare a riunirvi. Poi avete la tragedia della storia recente, specialmente in Europa. Noi nel nostro passato non abbiamo mai avuto tragedie del genere. Siamo sempre stati un popolo piuttosto “normale”. Secondo me questa è una differenza fondamentale tra di noi.
Oz: Anche noi ricerchiamo una qualche normalità, eppure, temo, siamo diventati ciascuno l’anomalia dell’altro. Parliamo un po’ dell’infanzia, Sari. Tu da bambino abitavi a Gerusalemme, a soli 20 minuti a piedi da dove abitavo io che ero un bambino un po’ più grande. Tu però sei cresciuto dall’altra parte della barriera quando Gerusalemme era già divisa [cioè dopo il 1948], mentre io sono cresciuto prima che Gerusalemme fosse divisa. Qual era la tua concezione, la tua idea, il tuo sentimento rispetto a quella gente che viveva dall’altra parte della divi sione, dall’altra parte del muro?
Nusseibeh: Beh, prima del 1967 io non ho mai conosciuto né ebrei né israeliani. Quindi, mentre crescevo dalla mia parte del muro, per così dire, crescevo pensando che fossero creature molto cattive. Mi avevano rubato, e non soltanto a me, ma anche - cosa ben più importante, alla mia famiglia - un pezzo non soltanto di terra, ma di vita. Sono cresciuto fra i racconti dei miei genitori su quella vita. Immaginavo che prima del muro fosse esistito una specie di paradiso, un tempo di cui mia madre, in particolare, era stata derubata. Derubata da gente che per me erano soltanto dei cattivi venuti dal nulla, da Marte.
Schmemann: E la tua idea, Amos? Nel tuo libro racconti che da bambino andasti con tuo zio a visitare una famiglia araba molto in vista. Che impressione ne avesti?
Oz: All’inizio anche le mie sensazioni furono abbastanza in bianco e nero. I proprietari della terra eravamo noi: era l’antica terra dei nostri avi. Sapevamo che su quella terra vivevano degli altri, ma questi avrebbero dovuto accoglierci bene, anche se noi stavamo facendo ritorno nella nostra terra. Come tutti gli altri bambini sionisti, anch’io avevo subito il lavaggio del cervello. In una certa misura, quindi, quella prima visita a una ricca famiglia araba di Gerusalemme mi aprì gli occhi, perché ero bambino e quella era la prima volta che dovevo guardare in faccia il fatto che quella gente aveva una presa su quella terra. Erano loro la popolazione di quella terra. Non erano degli idioti, non erano dei turisti e non erano nomadi. Ma dentro di me e intorno a me, l’atteggiamento principale verso gli arabi continuava a essere di paura e di apprensione. Temevamo che una volta che i britannici si fossero ritirati gli arabi ci avrebbero uccisi tutti. Pensavamo, credevamo che fossero fermamente intenzionati a ucciderci tutti perché loro erano tanti e noi pochi. Quindi c’era paura e diffidenza. Paura e diffidenza. E dentro di me quei sentimenti sono cambiati soltanto quando, adolescente, ho cominciato a leggere dei palestinesi e la narrazione, la storia dei palestinesi è diventata un’ossessione. Non l’ho fatta mia, non sono diventato “filo palestinese”: non lo sono neanche oggi. Però ho imparato che quella narrazione è valida e che c’è uno scontro fra due narrazioni valide, due rivendicazioni valide alla stessa terra. E ciò ha contribuito a instillarmi un senso di tragedia colossale: e la definizione di tragedia è uno scontro fra una ragione e una ragione. O a volte uno scontro fra un torto e un torto.
Schmemann: Naturalmente, voi due siete arrivati ad accettare la presenza l’uno dell’altro; siete diventati amici. Eppure a quanto pare per voi è più facile incontrarvi qui a Berlino, poniamo, che a Gerusalemme. Nella vostra terra è ancora possibile per voi trovarvi a Gerusalemme e coltivare qualcosa che rassomigli a una normale amicizia?
Nusseibeh: È diventato più difficile. Paradossalmente, penso che subito dopo la guerra del 1967 [quando Israele vittorioso riunificò Gerusalemme], quando cadde quel muro tra bianco e nero, per la gente che viveva da ciascun lato della barriera c’erano maggiori possibilità di contatto. Ad esempio so che mio padre, un avvocato che cono sceva molte persone dall’altra parte, ha riallacciato quei suoi contatti. E questi ci hanno presentato i loro figli. Quindi immediatamente dopo il ’67 c’è stato un barlume di speranza che forse la barriera fosse crollata e fosse possibile rimettere insieme i pezzi. Non sono affatto certo che questa speranza ci sia ancora.
Oz: Molti di noi non vanno in Palestina. Io stesso non ci vado, a meno di essere esplicitamente invitato da un palestinese. Se andassi in Palestina per turismo, per visitare questo o quel luogo, se andassi in Palestina solo per prendere la scorciatoia tra Gerusalemme e Arad, cosa che non faccio mai, mi sentirei in colpa, mi sentirei un invasore. Quindi vado in Palestina soltanto quando ricevo un invito esplicito da parte di palestinesi, il che succede ogni tanto, ma non molto spesso.
Schmemann: Ma prima era diverso? C’è stato un periodo in cui avrebbe potuto andare a pranzo a Ramallah?
Oz: Sì. Come ha detto Sari, immediatamente dopo il ’67. Immediatamente dopo la guerra del ’67 mi capitava di andare a Ramallah a mangiare in un buon ristorante, o a trovare qualcuno, o a parlare con la gente, soltanto per curiosità. A quel tempo c’era una sensazione di temporaneità, cioè la sensazione che la situazione - l’occupazione israeliana di tutta la Cisgiordania - fosse passeggera, e che presto sarebbero tornati i giordani oppure sarebbe stata creata una qualche entità palestinese, insomma si sarebbe raggiunta una soluzione. E allora, perché non godersi nel frattempo quell’avventura di andare all’estero senza bisogno di passaporto e di visto? Ma tutto questo ormai non c’è più, è passato.
Schmemann: E lei, Sari, aveva la stessa sensazione?
Nusseibeh: Adesso, a sentirlo raccontare da Amos, mi ricordo che immediatamente dopo il ’67 anch’io me ne andavo in giro con gli amici a visitare varie località in Israele. Ma ormai non lo faccio più. Per me non è più un piacere.
Schmemann: Leggendo in sequenza i vostri due libri, scritti da due personalità illuminate che sono favorevoli alla soluzione dei due Stati, avevo sperato di ricavarne un po’ di ottimismo per il futuro. Invece, sinceramente, ne ho ricavato la sensazione che forse la pace non sia possibile, che non avverrà. Lei, Sari, scrive che ogni svolta apparentemente decisiva non conduce che “all’ennesimo vicolo cieco”. E lei, Amos, in uno dei suoi saggi parla di “un’abissale frattura in Israele fra due schieramenti, l’uno convinto che il paese non può sopravvivere continuando a occupare i territori palestinesi, l’altro che non può sopravvivere senza continuare a occuparli”. Come fate a credere ancora che la pace sia possibile?
Oz: Beh, c’è una notizia buona e una cattiva. Quella buona è che attualmente la stragrande maggioranza degli ebrei israeliani ha preso coscienza che alla fine ci sarà una spartizione e una soluzione a due Stati. Sono contenti? No. Balleranno per le strade quando sarà attuata la soluzione a due Stati? No. Soprattutto perché non si fidano degli arabi. Dicono: dagli uno Stato e quelli pretenderanno dell’altro. E sospetto - ma qui sta a Sari rispondere - che neanche la maggioranza dei palestinesi sarà contenta di una soluzione a due Stati. Quanto alla cattiva notizia, riguarda la dirigenza: sia noi che loro abbiamo un bisogno disperato di leader coraggiosi e dotati di una visione.
Nusseibeh: Io credo che la soluzione a due Stati sia possibile, o meglio continui a essere possibile. E credo che entrambe le parti siano consapevoli che una soluzione a due Stati porrà fine al conflitto. Ma il problema è che non mi pare ci sia nulla che spinge in quella direzione. Al contrario, mi sembra che continuiamo a girare in tondo, se non addirittura a tornare indietro. Sul versante palestinese c’è la divisione fra Hamas e l’Autorità Palestinese; c’è il fatto che adesso abbiamo una grande difficoltà a metterci d’accordo su qualcosa che assomigli a uno Stato o a un accordo di pace con Israele. Eppure io credo che sia possibile. Bisogna solo che, nella nostra società o nella vostra o in entrambe, succeda qualcosa, che emerga qualcosa di nuovo, che si tratti di un leader o di qualcos’altro che in qualche modo abbatta la barriera. È un po’ come cercare un mago politico.
Oz: Si sente il bisogno urgente di uno slancio emotivo, di una svolta emotiva. Questo conflitto non riguarda prevalentemente la proprietà della terra, e di certo non è prevalentemente un conflitto religioso. È fatto di emozioni, di sentimenti feriti, di diffidenza, di ingiustizia, di dolore, di umiliazione e di paura, da entrambe le parti. Sarebbe enormemente importante produrre un cambiamento. Penso al magnifico esempio che dette circa 30 anni fa il presidente egiziano Sadat: lui venne in visita in Israele e gli israeliani, da un giorno all’altro, si sciolsero. Quegli stessi israeliani che, prima della visita di Sadat, dicevano che non avrebbero mai restituito l’intero Sinai, che il Sinai era più importante della pace, si sciolsero come il burro e si mostrarono disposti ad abbracciare Sadat e a restituire fino all’ultimo centimetro quadrato di terra in cambio della pace. Ebbene, oggi servirebbe qualcosa di simile da entrambe le parti. Un gesto emotivo, che so, un riconoscimento delle ingiustizie, delle sofferenze del passato. Credo che a prendere l’iniziativa dovrebbe essere un esponente israeliano, perché i palestinesi sono sotto l’occupazione israeliana. Penso cioè che un 
dirigente israeliano dovrebbe andare a Ramallah, dove ha sede il Consiglio Nazionale Palestinese, e rivolgersi al popolo palestinese così come il presidente Sadat nel 1977 andò alla Keneset e parlò agli israeliani. E dovrebbe dire ai palestinesi: sì, noi israeliani ci prendiamo parte della responsabilità della tragedia del passato. Non tutta, ma una parte sì. Ciò che è stato fatto non si può disfare, ma siamo disposti a fare tutto il possibile per correggere gli errori del passato e guarire le ferite del passato. E magari dire anche ai palestinesi che la prima questione che dobbiamo affrontare è quella dei profughi, perché è davvero urgente. Quella di Gerusalemme non è urgente, può attendere: può restare irrisolta anche per un’altra generazione o per tre generazioni. Ma i profughi sono centinaia di migliaia di persone, che stanno marcendo in condizioni disumanizzanti nei campi profughi. Israele non può riprendersi quei profughi, altrimenti non sarebbe più Israele: ci sarebbero due Stati palestinesi e nessun Israele. Invece Israele può fare qualcosa, insieme al mondo arabo, anzi insieme al mondo intero, per fare uscire quelle persone dai campi e dar loro una casa e un lavoro. Pace o non pace, finché i profughi continueranno a marcire nei campi, non ci sarà sicurezza per Israele.
Nusseibeh: Sono d’accordo. Che vi sia o no una soluzione, il problema dei rifugiati è un problema umano e deve essere risolto. Non può essere accantonato giorno dopo giorno nella speranza che accada qualcosa. In tutto questo conflitto, la dimensione umana è assai più importante di quella territoriale.
Schmemann: Data la profondità delle emozioni coinvolte, delle sofferenze, la soluzione a due Stati richiederà enormi sacrifici, sarà vissuta, come ha detto Sari, alla stregua di un’amputazione tanto per Israele quanto per la Palestina. Quali sono le cose principali cui ciascuno dovrà rinunciare, che ciascuno dovrà cedere?
Oz: La Palestina è la patria dei palestinesi così come la Norvegia è la terra dei norvegesi. E ai palestinesi viene chiesto di cedere parte della loro patria. Si tratta di un sacrificio enorme, che poche nazioni si sono viste chiedere di fare. Quanto a noi, la terra di Israele è la terra dei nostri avi e l’unica patria che abbiamo mai avuto come popolo. Entrambe le parti, se vogliono avere un futuro, dovranno rinunciare a parte delle loro rivendicazioni storiche, a parte delle loro aspirazioni, a parte di quelli che considerano loro diritti legittimi.
Nusseibeh: Ciò cui bisogna rinunciare è un legame emotivo, sono certi articoli di fede. Il che è molto doloroso. Eppure, a dire la verità, non credo che sia un problema insormontabile, è completamente insensato per i palestinesi e per gli israeliani rimanere in questa situazione e continuare a infliggere dolore all’altro. È una situazione senza sbocchi, inutile e insensata. Se poi il mondo volesse prendere l’iniziativa e dire: “Siamo pronti ad aiutarvi a creare una visione nuova per voi”, penso che si potrebbe recidere questo legame con quegli articoli di fede e con il passato, e i due popoli potrebbero finalmente entrare pienamente nel futuro.
Oz: Permettimi però, Sari, di farti una domanda personale: l’idea che Arad - dove abito e dove sei venuto a trovarmi - non sia più Palestina, non farà mai parte della Palestina, ti sembra un’idea dolorosa, un sacrificio?
Nusseibeh: No. Attualmente sto cercando in Palestina qualcosa di simile ad Arad, un luogo dove poter costruire il mio sogno. E penso che se fra Israele e Palestina ci saranno buoni rapporti, io potrò venirti a trovare ad Arad…
Oz: Quando vuoi!
Nusseibeh: …e non penso che ci saranno problemi.
Schmemann: Del Medio Oriente si dice spesso che tutti sanno come andrà a finire, ma nessuno sa come arrivarci. È vero?
Oz: Io non sono d’accordo. Penso che debba finire con una soluzione. Ma purtroppo non sappiamo se finirà proprio così. Siamo in un circolo vizioso e non sappiamo come uscirne. Non è una cosa che può succedere da sé, eppure in questi ultimi dieci, quindici, vent’anni, la gente si è convinta che questa cosa si produrrà da sola. Ma invece, questa possibilità si allontana un po’ ogni giorno che passa. Se dovesse sfumare totalmente, sarà un problema, un grosso problema.
Schmemann: Voi due avete trovato un linguaggio comune, una visione comune del futuro, un’amicizia. Ma al tempo stesso i vostri due paesi sono cambiati e si sono ulteriormente allontanati. Quella nobiltà palestinese europeizzata dalla quale lei proviene, Sari, ha perso il suo ruolo-guida: adesso è andata al potere un’altra élite palestinese. Nel suo caso, Amos, è finito anche quel movimento dei kibbutz - a guida askenazita - che lei descrive nel suo libro: pantaloncini kaki, fucile a tracolla e aura romantica.
Oz: Io non ho nostalgia dei vecchi tempi. Quelli erano gli anni ’50 o ’40, e a quell’epoca le risposte erano quelle, ma non sono adatte ai tempi nostri. Politicamente parlando, sta di fatto che l’attuale premier Netanyahu oggi è più a sinistra di quanto fosse Golda Meir negli anni ’70. Se allora Netanyahu si fosse fatto avanti con la soluzione a due Stati che ha fatto sua adesso, sarebbe stato espulso dal partito laburista di Golda Meir perché troppo a sinistra. Nel 1967, quando i miei colleghi e io abbiamo cominciato a prospettare una soluzione a due Stati, eravamo talmente pochi che avremmo potuto tenere le nostre riunioni nazionali in una cabina telefonica. Ciò significa che tutto il paese, tutto quel gran caos che è Israele, si è spostato verso una sinistra pragmatica. Questo è forse sufficiente per il cambiamento che io aspetto di vedere nella società israeliana? Certo che no. Però questa novità non va ignorata
Nusseibeh: Penso che la stessa cosa sia accaduta sul versante palestinese. Nel 1967, se una o due persone proponevano la soluzione a due Stati, gli sparavano addosso o le facevano saltare in aria. Adesso invece la soluzione dei due Stati è considerata accettabile. Attualmente, la questione non è se le cose siano cambiate, ma se il cambiamento proseguirà nella stessa direzione, o se invece verrà il giorno in cui ci guarderemo indietro e vedremo che questa soluzione un tempo è apparsa possibile ma adesso non lo è più. Prima, Amos diceva che quello che darebbe il segnale di una svolta sarebbe una trasformazione emotiva, un evento che induca ciascuno ad aprire gli occhi e a guardare l’altro. Insisto: ciò è ancora possibile, tutto è ancora possibile. Ciò di cui abbiamo bisogno è leadership, immaginazione, visione.

Oz: Sì, sono d’accordo. Tutto è ancora possibile.
Dall’International Herald Tribune Magazine
2-12-2010
Traduzione a cura di Fiammetta Bises e Marina Astrologo

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