ABRAHAM B. YEHOSHUA Gli arabi ad Auschwitz per scoprire la Shoah

         Martedì prossimo, primo febbraio, una delegazione di un centinaio di personalità politiche e intellettuali provenienti da tutto il mondo arabo e musulmano, guidata dal presidente del Senegal e patrocinata dall’Unesco e dalla municipalità di Parigi, si recherà ad Auschwitz, in Polonia. Saranno accompagnati da un altro centinaio di personalità politiche, religiose e intellettuali cristiane, musulmane ed ebraiche di tutta Europa. Non è la prima volta che arabi musulmani visitano un campo di sterminio.Ritengo però che una delegazione di tale livello e portata non si sia ancora vista, e questo non solo è un risultato molto positivo per l’Unesco e per la città di Parigi, che cercano di contrastare le ventate di antisemitismo e di anti-islamismo che soffiano sull’Europa, ma è anche un segnale della volontà di governi e di organizzazioni arabe e musulmane, nonché di intellettuali e di esponenti religiosi, di combattere il fenomeno della negazione della Shoah. Il sionismo nasce come movimento nazionale politico alla fine del XIX secolo, 50 anni prima dell’Olocausto. E benché io non creda che i suoi ideologi fossero in grado di predire il terribile sterminio del popolo ebraico avvenuto a metà del ventesimo secolo, i più acuti tra loro (in gran parte scrittori e intellettuali) avvertirono che l’ostilità di stampo nazionalista che si andava diffondendo in Europa nei confronti degli ebrei avrebbe potuto rivelarsi ancora più grave e pericolosa di quella tradizionale di matrice religiosa. Così, anziché rimuginare su cosa fare perché il mondo si mostrasse più tollerante alla presenza ebraica, scelsero di operare un cambiamento di identità negli ebrei e, in primis, di instillare nelle loro coscienze la necessità di possedere un territorio definito. Non più una patria virtuale radicata nell’immaginario che gli ebrei serbavano in cuore spostandosi da una nazione all’altra come chi cambia albergo, ma una patria reale, dove potessero esercitare una loro sovranità e fossero responsabili del proprio destino. Ma l’idea di raggrupparsi in un territorio definito era concepibile per gli ebrei unicamente in un luogo, nella loro patria storica e mai dimenticata menzionata anche nelle preghiere: la Terra d’Israele, chiamata però Palestina dal resto del mondo e dai suoi abitanti dell’epoca La stragrande maggioranza del mondo arabo, e in primo luogo i palestinesi, respinse categoricamente questa ipotesi ed è chiaro che chiunque altro al posto loro avrebbe fatto lo stesso. «Adesso vi siete ricordati di avere bisogno di uno Stato?», obiettarono, «avete cominciato ad abbandonare la Terra d’Israele 2500 anni fa. Già in epoca romana metà del popolo ebraico era disperso in tutto l’Impero. Dopo la distruzione del tempio, nel primo secolo d.C., ve ne siete andati definitivamente e benché nei duemila anni trascorsi abbiate avuto molte opportunità di farvi ritorno, non le avete sfruttate. Vi siete stabiliti ovunque nel mondo, persino nei Paesi intorno alla Palestina, solo qui non siete venuti. E adesso volete prendervela?». In un primo momento i palestinesi pensarono che si trattasse di un nuovo tentativo di conquista coloniale da parte di europei. Tanto più che, come molti altri, ritenevano gli ebrei una collettività religiosa, e non nazionale. Ben presto, però, si resero conto che quella trasmigrazione, avvenuta in un primo tempo col patrocinio dell’impero ottomano e poi con quello britannico, aveva lo scopo di creare uno Stato sovrano che col tempo li avrebbe trasformati, nel migliore dei casi, in una minoranza o, nel peggiore, in una comunità priva di diritti che avrebbe potuto essere espulsa dal Paese.Nel 1917, all’epoca della Dichiarazione Balfour con la quale la Gran Bretagna prometteva agli ebrei un focolare nazionale in Israele, il numero dei sionisti in Palestina non superava le 50 mila, rispetto a 550 mila palestinesi (cifre dell’Enciclopedia ebraica). In altre parole, questi ultimi erano 11 volte numericamente superiori. Ma i palestinesi sapevano che dietro a quei 50 mila c’era un intero popolo di 15 milioni di individui e, anche se solo una parte di essi si fosse trasferita in un futuro Stato ebraico, sarebbero diventati un’insignificante minoranza. Così, fin dall’inizio, sostenuti dal mondo arabo, si imbarcarono in una lotta senza quartiere contro il sionismo. I palestinesi possedevano a quel tempo una distinta e autonoma coscienza nazionale? A mio modesto parere, è irrilevante nel contesto della controversia morale che li vede opposti agli ebrei. Anche se la Palestina era soltanto una regione della Siria, o del grande mondo arabo, nessuno aveva il diritto di trasformare i suoi cittadini in una minoranza. La terra appartiene a chi vi risiede, è un principio universale inequivocabile e legittimo. Anche se all’inizio del ventesimo secolo la maggior parte del mondo non era ancora organizzata in Stati nazionali la terra appartiene a chi vi abita in quanto parte dell’identità umana, individuale e collettiva. È vero che gli ebrei che cominciavano a trasferirsi a poco a poco in Israele non avevano intenzione di espellere i palestinesi. Volevano unicamente fondare uno Stato che garantisse loro una struttura indipendente entro la quale decidere del proprio destino e soprattutto gestire la propria difesa.Credevano inoltre che un Paese abitato da milioni di ebrei potesse garantire piena parità di diritti alle minoranze. E infatti, negli Anni 30, con l’intensificarsi delle persecuzioni antisemite in Germania e in altri Paesi europei, 350 mila ebrei riuscirono a trasferirsi in Israele, scampando allo sterminio. Ma anche se gli arabi palestinesi furono costretti ad ammettere in seguito che il sionismo contro cui avevano combattuto ancor prima della seconda guerra mondiale aveva salvato dalla morte centinaia di migliaia di ebrei, impossibilitati a trovare rifugio negli Usa che avevano chiuso le porte dopo la crisi del 1929, non si rassegnarono al fatto che tale salvataggio fosse avvenuto a loro spese, con una lenta ma costante erosione dei loro territori da parte di stranieri. Non so se durante la seconda guerra mondiale, e anche dopo, gli arabi abbiano compreso appieno la portata e le dimensioni dell’eccidio del popolo ebraico. A volte ho l’impressione che gli ebrei stessi, ancora oggi, non siano del tutto consapevoli della gravità della tragedia abbattutasi su di loro, come non lo erano delle avvisaglie che la annunciavano e che avrebbero dovuto riconoscere. Lo sterminio degli ebrei non avvenne per un desiderio di occupazione territoriale e nemmeno per osteggiare una diversa religione. E sicuramente non per motivi economici o ideologici. I nazisti sterminarono gli ebrei semplicemente perché volevano sterminarli. E questo è ciò che rende una simile barbarie unica nella storia. Lo sterminio degli ebrei in un primo tempo avvenne persino contro gli interessi dei loro stessi aggressori e trovò sostegno psicologico e talvolta concreto in molte nazioni occupate dalla Germania nazista. Io non so cosa gli arabi abbiano provato nell’apprendere della Shoah in Europa. Di certo i loro sentimenti furono contrastanti e complessi. Da un lato sbigottimento per l’odio profondo mostrato contro gli ebrei in Europa giacché, anche se nel mondo arabo sussistevano qua e là ostilità e diffidenze nei confronti degli ebrei dovute a motivi religiosi, mai tali sentimenti si erano avvicinati ai livelli di antisemitismo cristiano e laico dell’Europa. Probabilmente, però, è naturale supporre che gli arabi, e in particolare i palestinesi, avessero anche provato soddisfazione nel constatare che la fonte della forza ebraica che li minacciava, soprattutto su un piano demografico, fosse stata colpita e si fosse ridotta di molto. Se non che gli europei, indipendentemente dalla loro appartenenza al blocco comunista o a quello occidentale, sconvolti dalle atrocità naziste, si resero conto che non solo per gli ebrei, ma anche per loro stessi e per il futuro dell’umanità, dovevano fare qualcosa di drastico per combattere l’antisemitismo che cominciava a compromettere l’integrità del loro stesso essere. Perciò, con un’iniziativa rara ed eccezionale, nel 1947, due anni dopo la fine del conflitto e già al culmine della Guerra Fredda, il blocco comunista e quello occidentale si unirono per aiutare gli ebrei a normalizzare la propria esistenza in uno Stato che occupasse una parte (e sottolineo: una parte) delle terre palestinesi. Il grido di protesta, di rabbia e di offesa del mondo arabo è comprensibile dal loro punto di vista: «Voi europei, che non solo ci avete oppresso nei nostri Paesi e continuate a farlo nei vostri ma avete anche commesso crimini orribili e gravi contro gli ebrei, vi aspettate che noi arabi, estranei ai vostri crimini, paghiamo per le vostre colpe con la nostra terra?». Secondo la loro logica, dunque, la decisione di cercare di distruggere lo Stato ebraico ancor prima che nascesse, era naturale e giustificata.


dalla Stampa di oggi
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Il mondo arabo e la Shoah

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