Andrea Masseroni L’OSSESSIONE DI ISRAELE: DEFINIRSI PER NON MORIRE


La richiesta di prestare giuramento ad Israele in quanto “Stato ebraico” è forse l’atto più disperato di una tradizione politica che comincia a percepirsi sconfitta. Sconfitta dal passare degli anni e dal perdurare della resistenza identitaria del popolo palestinese.
Sin dagli inizi, gli israeliani hanno razionalizzato la propria idea comunitaria in senso esclusivista (certo, non tutti gli israeliani sono uguali). Sin dall’inizio dell’insediamento israeliano nei territori della Palestina, ovvero dalla dichiarazione Balfour e dalla fine del mandato britannico in Palestina (Maggio 1948), Israele si pone in modo dicotomico nei confronti della popolazione palestinese: noi e voi. Meglio noi che voi. Abbiamo più diritto noi a star qua che voi.
Ad oggi, circa il 75% della popolazione d’Israele appartiene al credo ebraico. Questo vuol dire che c’è un 25% di componente musulmana, cristiana, drusa, bahai (ed altre minoranze). Ma nel 1946, è bene ricordarlo, all’interno del territorio che venne occupato dagli israeliani, la componente musulmana era di quasi il 60%, ridotta poi drasticamente entro il 1950, a causa dell’occupazione e dell’efferatezza con cui venne portata a termine, a quasi il 9%. Dal 1950 ad oggi la sola componente musulmana è cresciuta quasi del doppio, e questo ci indica che Israele non è uno “Stato ebraico” di per sé o per definizione. Non può essere uno Stato retto esclusivamente da una classe politica di ispirazione ebraica.
Ma il problema è soprattutto un altro: il ritorno. Israele nasce come “Stato del ritorno”: nella stessa dichiarazione d’indipendenza è scritto che “lo Stato d’Israele sarà aperto per l’immigrazione ebraica e per la riunione degli esuli”, ed inoltre si fa “appello al popolo ebraico dovunque nella Diaspora affinché si raccolga intorno alla comunità ebraica di Eretz Israel e la sostenga nello sforzo dell’immigrazione e della costruzione, e la assista nella grande impresa per la realizzazione dell’antica aspirazione: la redenzione di Israele”È chiaro che è diffusa presso gli ebrei israeliani la sensazione della necessità di proteggersi da contesti esterni alla propria cultura: che però negli anni si è tradotta in mors tua vita mea. I primi israeliani hanno cacciato un popolo dalla propria terra per prenderne possesso. Se gli ebrei, prima di Israele, erano un popolo senza terra che ora aspirava al ritorno (alla redenzione di Israele), dopo Israele i palestinesi sono un popolo senza terra che, parallelamente e con tutti i diritti, ora aspira al ritorno.

Il punto è questo: se Israele verrà definitivamente riconosciuto come “Stato ebraico”, la possibilità di ritorno per i palestinesi sarà annullata definitivamente. I palestinesi saranno un popolo senz’ombra, che subirà l’eterna perpetuazione di un’ingiustizia da parte d’Israele, con risultati nel tempo ben  peggiori di quelli attuali. Questo tipo di giuramento, come già detto, è forse la conclusione più disperata di un processo perpetuo di ingiustizia: gli arabi che risiedono in Palestina vengono discriminati non avendo diritto, ad esempio, ad acquistare terre, ad avere accesso alle risorse o libertà di movimento, a poter partorire nell’ospedale più vicino se questo si trova oltre il muro. C’è una volontà di negazione del popolo palestinese, oltreché politica anche materiale.
La politica di Israele, improntata sull’idea di negare l’esistenza del popolo palestinese, si sta dimostrando inefficiente e progressivamente priva di consensi: questo porta Nethanyahu ad approvare questo tipo di emendamento alla legge sulla cittadinanza. Si cerca definitivamente di rinforzare le proprie mura. Ma i palestinesi hanno dentro di loro un senso di riscatto troppo forte per poter lasciar fare Israele anche questa volta, ed Israele, dal canto suo, con la sua politica di dispotismo territoriale sta progressivamente perdendo consensi.La paranoia israeliana contro tutto ciò che è esterno ad Israele genera solo attriti: una condizione di incessante ansia per gli israeliani e di profondo dolore per i palestinesi. La soluzione non è che gli israeliani debbano andarsene da Israele, perché sarebbe poco auspicabile una nuova migrazione di massa chissà dove (si creerebbero nuove situazioni di conflitto altrove), ma che innanzitutto si facciano carico delle proprie responsabilità nei confronti della popolazione palestinese, e che si crei uno Stato bi-nazionale che comprenda la popolazione palestinese e quella israeliana. Che queste due realtà convivano insieme piuttosto che vivere separate nell’ansia e nel dolore.È necessario che la comunità europea e l’ONU intervengano seriamente e concretamente in questo senso (Abu Mazen se lo augura); Philip Crowley, portavoce del dipartimento di Stato Usa, ha già dichiarato che “Israele è lo stato del popolo ebraico” nonostante poi abbia aggiunto, più per diplomazia che per sostanza – e quindi inutilmente – che “resta anche uno Stato per altri cittadini, di altre fedi”. Ma questo era prevedibile. Non fu Al Gore a dichiararsi, assieme al presidente Clinton e a tutta la popolazione americana, orgoglioso che gli Stati Uniti fossero stati la prima nazione a riconoscere lo Stato di Israele “undici minuti dopo” che esso aveva dichiarato la propria indipendenza? La vicinanza degli Stati Uniti ad Israele non è un segreto, e continua a confermarsi.Dico che l’Onu e la comunità europea devono intervenire perché la presenza di Israele in Palestina è responsabilità delle Nazioni Unite, soprattutto in conseguenza dell’autorizzazione alla sua creazione da parte della Gran Bretagna, degli appoggi militari e politici da parte dell’America, nonché della pressione antisemita europea. C’è bisogno di una presa di coscienza e di un’ammissione di responsabilitàLa Palestina, il popolo palestinese, riscatterà la propria autonomia identitaria? E’ probabile. Spero solo che quando sarà il momento, ciò non avvenga in modo traumatico. Ma per evitarlo, è necessario riconoscere il popolo palestinese con tutti i suoi diritti e risarcimenti. Bisogna porre fine a questa situazione che perpetua dolore e ingiustizia.Nel 1998 il professor Edward Wadie Said scrisse un articolo intitolato “La Palestina non è scomparsa”, ma l’impressione che se ne ricavava è che ogni giorno essa perdesse un po’ più della sua terra. Oggi possiamo dire che sì, la Palestina non è scomparsa, ma anche che ogni giorno è più vicina al proprio riscatto: l’isterismo disperato dell’attuale classe dirigente israeliana è un chiaro preannuncio a tutto questo.

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