Ma questa è astuzia in pieno stile Netanyahu. Egli ha rubato lo slogan della sinistra per scopi propagandistici, e non si sogna neanche per un istante di metterlo in atto. Netanyahu continua a costruire nei sobborghi arabi di Gerusalemme Est, compresi Sheikh Jarrah e Silwan. Continua ad espandere i quartieri ebraici a nord di Gerusalemme. Per giunta appoggia in segreto l’incessante attività edilizia in Cisgiordania, nonostante il cosiddetto congelamento temporaneo degli insediamentiOvviamente il prezzo da pagare è la crisi col governo statunitense, la profonda avversione personale da parte del presidente Barack Obama, e la serie di umiliazioni di cui Netanyahu è stato oggetto durante la sua ultima visita negli Stati Uniti. Ma Netanyahu si è asciugato lo “sputo” dalla faccia e ha detto: gli insulti sono senza importanza, le condanne non contano. La cosa più importante è la Terra di Israele. Netanyahu non ha intenzione di offrire ai palestinesi uno stato vitale all’interno dei confini precedenti alla Guerra dei Sei Giorni del 1967. La sua soluzione dei due stati significa una Palestina minuscola smembrata in tre parti, prive di una ragionevole contiguità territoriale, senza nessun controllo sulla grande Gerusalemme, che presto si estenderà fino a Ramallah.Questo minuscolo stato palestinese non comprenderà la Valle del Giordano ad est (dove saranno dislocate le Forze di Difesa Israeliane), e due lunghe dita si conficcheranno dritte nei suoi occhi: Ariel e Ma’aleh Adumim (due insediamenti ebraici nel cuore della Cisgiordania a nord e a est di Gerusalemme (N.d.T.) ). Nessun leader palestinese accetterà un simile stato, e questo è proprio l’obiettivo di Netanyahu.È anche l’obiettivo dei coloni. Dopotutto, sono loro che hanno scandito l’agenda politica per 43 anni. Moshe Levinger (sionista religioso estremista, e uno dei leader di Gush Emunim, un movimento nato dopo la guerra del 1967, che incoraggiava la colonizzazione della Cisgiordania – identificata con i nomi biblici di Giudea e Samaria (N.d.T.) ) sarà sempre ricordato come la persona che decise il destino del paese quando portò Gush Emunim a Sebastia nel 1975, e da lì in tutta la Samaria. Da allora, siamo stati trascinati verso la costruzione di ulteriori insediamenti e verso l’insorgere di ulteriori scontri, verso un’altra intifada e un’altra guerra. E la guerra, dopotutto, è la nostra missione. Fra pochi giorni tutti noi leggeremo l’Haggadah di Pasqua (il testo liturgico che si legge durante il Seder di Pesach, il pasto serale della vigilia della Pasqua ebraica (N.d.T) ): “In ogni generazione si sollevano per distruggerci”. Se è così, siamo del tutto da biasimare? Ma la cosa che fa più male è come si siano invertiti i ruoli. Come gli arabi siano diventati amanti della pace e noi, invece, ci siamo trasformati in coloro che la rifiutano. Domenica scorsa ricorreva l’ottavo anniversario dall’iniziativa di pace araba: una proposta presentata da tutti gli stati arabi all’unisono per la pace e la normalizzazione dei rapporti in cambio di un ritiro israeliano all’interno dei confini antecedenti al 1967. Israele non si prese neanche il disturbo di rispondere. Quello stesso anno, il 2002, il presidente siriano Bashar Assad offrì un accordo di pace in cambio del ritiro israeliano dalle Alture del Golan. Anche la sua mano, tesa in un gesto di pace, fu respinta sdegnosamente da Israele, nello stesso modo in cui fu rifiutata quella del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas, che Israele descrisse come “un leader debole”, mentre accelerava la costruzione degli insediamenti in Cisgiordania.Il secondo aspetto delle nostre vite è socioeconomico. Anche qui, la destra ha trionfato. I padri fondatori del paese erano dei socialisti che pensavano che lo stato sapesse gestire il denaro meglio dei suoi cittadini. E così si rese necessario un governo fortemente centralizzato, con un ampio budget, tasse elevate, la tutela dei prodotti locali, l’allocazione dei capitali in base ad una pianificazione centralizzata. In breve: un’economia pianificata come quella dell’ex Unione Sovietica. Ma nel 1985 ci fu una rivoluzione. Un gruppo di giovani economisti del Ministero delle Finanze diede il via ad un nuovo corso. Essi sostenevano la riduzione del bilancio, l’abbassamento delle tasse, l’apertura del mercato alla concorrenza internazionale e la liberalizzazione dei vincoli sulle valute e sui capitali esteri. In breve: il libero mercato. Gli economisti di destra vinsero, e dei risultati ne beneficiamo ogni giorno: stabilità economica, fiorenti esportazioni e un miglioramento nella qualità della vita. C’è un aspetto sociale nel loro successo, perché solo quando un’economia di mercato trionfa, e sia la ricchezza che gli introiti fiscali aumentano, si può stanziare più denaro per i settori più deboli della società. L’anomalia è rappresentata dalla situazione politica, che è pericolosa ed è causa di disperazione, il che contrasta con il notevole successo economico. Ma la connessione tra questi due settori rivela un clima di depressione. Un tempo c’era la speranza in un futuro migliore. Una volta c’erano genitori che dicevano ai loro figli: “Quando crescerai, non ci sarà bisogno che tu faccia il servizio militare”. Un tempo era una vergogna andarsene dal paese. Un tempo credevamo che la pace fosse a portata di mano. Ma adesso regna il pessimismo. Molte persone chiedono se il paese reggerà altri 20 anni. I genitori non sono più imbarazzati a dire che i loro figli sono andati a cercar fortuna all’estero. Sembra che il successo economico non sia riuscito ad avere la meglio sullo sconforto politico.
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