Israele, il “migliore amico” americano, e i territori occupati


L’America non ha “un migliore amico” d’Israele, ha recentemente dichiarato il vicepresidente Joe Biden, nonostante il duro colpo rappresentato dall’annuncio israeliano della costruzione di 1.600 nuove unità abitative a Gerusalemme Est. L’ambasciatore israeliano negli USA aveva definito la disputa come “una crisi di proporzioni storiche…la peggiore crisi dopo il 1975”, quando il presidente Ford aveva cercato di “riconsiderare” le relazioni tra i due paesi a causa del tentennamento di Israele sulle stesse questioni di oggi: i confini, la sovranità e i rifugiati. La successiva dichiarazione dell’ambasciatore israeliano di non aver usato la parola “crisi” manca, a dir poco, di credibilitàAvere a che fare con il governo Netanyahu, ha ricordato l’ex segretario di stato Madeline Albright, “è come negoziare all’inferno”. È ora il turno di Obama di navigare in questo inferno.

La questione in ballo è insieme “nuova e vecchia”: la novità riguarda le nuove costruzioni in terra araba; quella vecchia comincia con la nascita di Israele nel 1948, quando il 75% degli arabi palestinesi fu cacciato dalle proprie case ed esiliatoDurante la guerra dei sei giorni del 1967, gli israeliani conquistarono nuovi territori: il Sinai, Gaza, Gerusalemme Est e le alture del Golan. Sebbene gli israeliani avessero salutato l’occupazione come un segno di affermazione dell’esistenza di Israele – “riscattando gli angusti confini israeliani“, per dirla con le parole di Yitzhak Rabin – essi si stavano in realtà indebolendo con le loro mani. Dopo aver speso tante energie per esiliare gli arabi palestinesi nel 1948, gli israeliani rioccuparono le stesse popolazioni che avevano espulso con tanta fatica“Ci è stata data una buona dote, ma assieme a una sposa che non ci piace”, scherzava il primo ministro Levi Eshkol dopo la guerra del 1967. Ma lo scherzo è finito, e la sposa è rimasta. Il Sinai è stato restituito, ma Israele è rimasta aggrappata agli altri territori, spingendovi i coloni nel tentativo di diluire la presenza palestinese. Gli aiuti americani hanno sicuramente facilitato gli insediamenti; con il 20% del budget della difesa israeliana pagato ogni anno dai contribuenti americani, gli israeliani possono impiegare più risorse negli insediamenti.Le aree e le strade militari, le riserve naturali, la cosiddetta barriera di sicurezza del 2002 – che da sola sottrasse audacemente il 12% del territorio dell’Autorità Palestinese – e, infine, i progetti di costruzione nei territori occupati, bastano da soli a suggerire l’esistenza di una strategia volta a creare un’intera nuova serie di “fatti compiuti”. I palestinesi sarebbero stati allontanati da una permanente presenza dell’esercito israeliano e dai coloni. I dati demografici sfavorevoli – “li vinceremo a suon di figli”, tuonava sempre Arafat – sarebbero stati contenuti immettendo ondate di immigrati ebrei con le loro famiglie.

oggi giorno, la pressione a favore degli insediamenti viene dai partiti della destra religiosa in Israele, che sono elementi chiave della coalizione di Netanyahu. Gli insediamenti garantiscono terre gratuite, prestiti agevolati, sussidi statali, e spazio per crescere famiglie numerose. Per Netanyahu, la prolificità dei coloni ortodossi è conveniente, poiché gli permette di preventivare una “crescita naturale” negli insediamenti, continuando quindi ad espanderli Israele rimane dipendente dagli aiuti americani (3 miliardi di dollari l’anno), eppure persegue un programma di costruzione di abitazioni illegali che fa guastare i rapporti degli Stati Uniti con il mondo musulmano, e rende ogni accordo di pace, in ultima analisi, impossibile.Quelli che al tempo di Truman erano 844.000 rifugiati, oggi sono 4 milioni, e rimangono ammassati nelle stesse aree che Netanyahu sta lottizzando per trasformarle in insediamenti ebraici. Ogni amministrazione americana a partire da quella Truman ha dovuto lottare con questo problema, ed ha promesso di riportare all’ordine gli israeliani.Eisenhower si lamentava della “spietata severità” d’Israele. Kennedy spinse per approvare un piano che compensasse o re-insediasse i palestinesi, ma in seguito lo dovette abbandonare quando fu avvisato che tale piano avrebbe causato una “violenta crisi sia sul piano interno che nelle relazioni con Israele”. Lyndon Baines Johnson rimase impassibile di fronte all’occupazione di quelle terre da parte degli israeliani, che ora essi si affrettano a colonizzare. Con Israele messo alle corde nel 1973, Nixon e Kissinger ebbero un’opportunità d’oro per spingere gli israeliani fuori dai territori e barattare il ponte aereo americano – più imponente di quello di Berlino nel 1948-49 – con risultati tangibili, ma Kissinger si dimostrò contrario, presumendo stupidamente che la gratitudine israeliana dopo la guerra sarebbe sfociata in grosse concessioni. Ovviamente non andò così. “Non possono farci questo, Henry, non possono farlo di nuovo”, si lamentò Nixon di fronte all’ostruzionismo opposto da Israele – eppure gli israeliani lo fecero.E’ in grado Obama di assumere finalmente una posizione ferma, e di barattare gli aiuti americani e la sicurezza di Israele con una corretta gestione israeliana della questione palestinese? Probabilmente no: l’amministrazione americana è oberata da problemi come la riforma sanitaria, gli stimoli all’economia, l’Iraq e l’invio di rinforzi in Afghanistan, ed è improbabile che dia inizio a una battaglia con la lobby israeliana, la quale influenza la maggior parte dei membri del Congresso di cui Obama ha bisogno per le altre sue iniziative. Vale la pena ricordare come la crisi del 1975, recentemente tirata in ballo dall’ambasciatore israeliano, sia poi rientrata. Ford rimase fermo sulle proprie posizioni ma il Congresso si mostrò debole, piegandosi sotto i colpi dell’AIPAC, e ammonendo Ford a non insistere. Ed egli non lo fece. Eppure, c’è ancora spazio per la speranza. L’amministrazione Obama è arrabbiata al punto giusto per esercitare pressioni serie su Netanyahu e obbligarlo ad un reale dialogo con i palestinesi per affrontare finalmente la questione dei confini, lo status di Gerusalemme e il destino dei rifugiati palestinesi.Geoffrey Wawro è professore di Storia Militare presso la University of North Texas, ed è autore di “Quicksand: America’s Pursuit of Power in the Middle East” (Penguin Press, April 2010)http://www.medarabnews.com/2010/03/3...ano-territori/

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