Sergio Yahni, storia di un refusenik israeliano

Sergio Yahni è rimasto in Argentina fino ai 12 anni quando i suoi hanno deciso di fuggire dalla dittatura militare per andare in esilio in Israele. Qui Yahni ha vissuto in un kibbutz fino ai 18 anni, quando, come tutti i suoi nuovi connazionali, è dovuto entrare nell’esercito. Tre traumatici anni di leva obbligatoria, dove i valori della sua famiglia si sono scontrati con la realtà della guerra, cambiando il suo futuro e la sua coscienza politicaE’ stato un episodio in particolare a indurlo a fare una scelta definitiva. Era il 1986, durante un’operazione in Libano, quando Yahni era ancora un paracadutista e faceva parte delle truppe d’appoggio. Tre prigionieri vennero portati alla base perché in possesso di esplosivo. Per farli parlare i suoi commilitoni si servirono di filo spinato e di bruciature di sigarette. Yahni andò direttamente dal comandante per fermare le torture, ma questi rispose con un “Tu devi pulire il carro armato, non badare a quello che succede”. Yahni racconta di come la sua prima reazione sia stata quella di togliersi la divisa e di abbandonare il campo immediatamente: “Ma non era così facile lasciare il Libano, non è che potessi prendere un autobus, passare la frontiera e tornare a casa”. Si scoprì poi che l’esplosivo serviva ai prigionieri per la pesca nel fiumeYahni decise di lasciare l’esercito appena tornato in Israele. In risposta fu spedito a pulire i bagni: “Ma per me non era un problema, qualsiasi cosa era meglio che tornare a combattere”, e così organizzò una “cellula comunista rivoluzionaria all’interno dell’esercito stesso” con gli altri colleghi “retrocessi”Una volta finiti i tre anni obbligatori, Yahni avrebbe dovuto fare da riserva un mese all’anno fino al compimento del suo 42esimo compleanno. Ma alla prima chiamata si rifiutò. Era il 1992 e fino al 2002 portò avanti una sorta di “gioco al gatto e il topo” con l’esercito, che lo condusse otto volte davanti al tribunale, e quattro in carcere per un mese: “Dopo quell’ultimo processo, anche l’esercito si era stancato e ha ceduto”. All’inizio gli obiettori come lui, o refusenik, erano appena sei o sette, ma con la seconda intifada e la costruzione del muro tra Israele e Cisgiordania, sono iniziati ad aumentare per diventare sessanta e settanta.L’esercito ha un ruolo determinante nella società israeliana. Non solo perché i soldati sono ovunque, ma perché, come in parte accade anche negli Stati Uniti, i militari hanno un peso notevolissimo sugli studi e sulla professione. Diventare soldato significa avere accesso a borse di studio e molte più possibilità di fare carriera. Perciò escludere i palestinesi di Israele, o arabi israeliani, dal servizio militare “non è altro che l’ennesima provocazione dello Stato nei confronti dei palestinesi, un modo per farli sentire diversi e discriminati”, sottolinea Yahni.L’esercito israeliano è un sistema a sé stante che non accetta ingerenze dall’esterno, sia che si tratti del discusso “Rapporto Goldstone” sull’operazione Piombo Fuso a Gaza dell’inverno 2008-09, sia che si parli di omicidi extragiudiziali. Questi sono soggetti particolarmente cari al direttore dell’Alternative Information Center, che ricorda come il primo caso di assassinio extragiudiziale sia stato portato in tribunale nel 2002, per arrivare al 2007 di fronte alla Corte suprema, nella cui decisione si trovano le giustificazioni all’“omicidio selettivo”. Uno strumento che può essere utilizzato laddove l’arresto di un soggetto sospettato della preparazione di un attentato non sia possibile, e se il numero di vittime collaterali risulta minimo. “Israele stava confermando pubblicamente l’uso degli assassini extragiudiziali, dicendo che non contraddicevano la Quarta convenzione di Ginevra”.Nel 2008 il giornalista Uri Blau del quotidiano israelianoHa’aretz pubblicò un documento segreto dell’esercito, in cui si denunciava l’ennesimo assassinio extragiudiziale di un dirigente della Jihad Islamica. Episodio che era stato spacciato per scontro a fuoco. Nel dossier, diffuso solo nella versione ebraica della testata, si leggeva che le vittime collaterali potevano arrivare fino a cinque. La donna soldato che passò l’originale al giornalista è stata arrestata tre settimane fa e ora rischia venti anni di carcere per spionaggio: “La stampa israeliana non può parlare dell’arresto, né dello stesso divieto di parlare dell’arresto”, spiega YahniNelle sue 500 pagine, il Rapporto Goldstone riporta trenta casi di crimini di guerra, tra cui l’uso armi illegali, accusa rifiutata dall’esercito, dal governo e dalla maggior parte dell’opinione pubblica israeliana. Secondo Yahni circa l’80 per cento degli israeliani appoggiano il governo, e quindi hanno sostenuto anche l’offensiva su Gaza, che ha provocato più di 1400 morti, di cui 2/3 di vittime civili, un terzo dei quali bambini. Secondo Yahni anche la stampa e la televisione sono sistematicamente filogovernative e la sicurezza è il loro soggetto preferito: “Pura demagogia. Nonostante i dati dimostrino che non esiste una vera emergenza sicurezza e che gli attentati sono diminuiti, i politici di destra continuano a inventare un caso per cavalcare e fomentare la paura. Non esiste un modo pratico per la sinistra di rispondere alla demagogia. Si può solo trovare una risposta ideologica, costruire un nuovo modo di pensare”. Un modo che abbatta il muro di separazione, che ormai non è più esclusivamente fisico, ma psicologico, tra israeliani e palestinesi. Un muro di odio “che è il peso della guerra”Il giornalista israeliano è molto critico nei confronti del processo di pace, “morto nel 1995 con Rabin”. “Da allora – prosegue Yani - Israele dice di volere la pace, ma quello che vuole davvero è imporre la propria volontà sul popolo palestinese, che sia attraverso azioni diplomatiche, come gli accordi di Oslo, che con la costruzione del muro di separazione, le offensive militari, o l’assassinio dei leader palestinesi”. Yahni è critico anche nei confronti dell’Occidente, che secondo lui “ha perso ogni capacità di gestire e capire la realtà politica del Medio Oriente”. A partire dal Libano, dove Stati Uniti e Unione Europea hanno fatto di tutto per impedire che Hezbollah entrasse nel governo, fino ad arrivare sull’orlo di un’ennesima guerra civile, con il risultato che ora “Hezbollah è nel governo”. Lo stesso presidente americano Barack Obama, “apparso al Cairo come l’uomo che voleva cambiare il mondo”, non può fare molto“In Occidente il conflitto israeliano-palestinese è diventata una questione di numeri: meglio uno o due Stati? Ma è un problema del tutto secondario rispetto al diritto al ritorno per i rifugiati”. Perché per Yahni Israele è un regime dalla nascita, da quando “ha dovuto ricorrere alla pulizia etnica, all’espulsione di 900 mila palestinesi”. Il loro ritorno è una questione imprescindibile per qualsiasi discorso di pace, senza il quale persino la fine dell’occupazione non porterà alla fine del conflitto.
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