di Cinzia Nachira “La ritualizzazione della memoria”
La ritualizzazione della memoria
“La ritualizzazione della memoria”
di Cinzia Nachira
29 gennaio 2010
La necessità
di istituire una giornata internazionale della memoria, il 27 gennaio,
perché i cittadini europei siano obbligati a “ricordare” si traduce
ormai in una ritualizzazione collettiva intorno alla pagina più oscura
del XX secolo: lo sterminio pianificato di milioni di persone, tra cui
sei milioni di ebrei europei, circa ottocentomila zingari, migliaia di
omosessuali, disabili e oppositori politici al nazismo.
Questo rito
catartico che ogni anno si rinnova, però è usato sapientemente per non
parlare effettivamente delle dinamiche che una tale mostruosità hanno
permesso, ma per rinnovare un momento espiativo.
Diciamo subito che già di per sé il fatto
che per ricordare sia necessario un passaggio legislativo internazionale
è poco convincente. È banale ma vero, il dubitare che un rimemorare per
un giorno possa essere utile allo scopo finale: far sì che aberrazioni
simili non si ripetano.
Lo slogan più usato: Mai più!
Ma questo Mai più! viene costruito
non come una comprensione vera (unico antidoto alla sua ripetizione) ma
come un rifiuto (in definitiva una immensa rimozione) delle montagne di
cadaveri di cui per una settimana e più a cavallo di fine gennaio
veniamo inondati: mostre fotografiche, film, viaggi sui luoghi del
massacro, ecc.
Anche le esperienze dei testimoni, sempre
in numero minore con il passare del tempo, assumono esclusivamente un
tono descrittivo. A questo scopo sono richieste.
Ma in questo modo siamo certi che i giovani
europei siano aiutati a comprendere cosa fu quello sterminio
pianificato e di massa? No.
Non in nome di Anna Frank…
Non in nome di Anna Frank…
La giornata della memoria quest’anno è
stata più che mai utilizzata dal governo israeliano e dai suoi
sostenitori per ristabilire un legame automatico tra i sei milioni di
ebrei trucidati nei campi di sterminio nazisti e il diritto del governo
israeliano a giustificare qualunque politica esso metta in atto nei
confronti dei palestinesi e dei Paesi arabi, e non, circostanti.
Questo uso politico della memoria serve a
Israele da sempre, ma oggi ancora di più visto che tra poche settimane,
se non vi sarà una risposta al Rapporto ONU del giudice Goldstone, il
governo israeliano e i vertici dell’esercito si ritroveranno con una
pendenza di fronte al tribunale internazionale per i crimini di guerra,
per il massacro indiscriminato dei palestinesi di Gaza avvenuto tra il
27 dicembre del 2008 e il 17 gennaio 2009.
Ancora, questa giornata è stata usata per
far pressione sull’Europa e gli Stati Uniti per avviare uno scontro
diretto con l’Iran, che da parte sua non si è lasciato sfuggire
l’occasione per rinnovare le previsioni sulla “fine del regime
sionista”. Sicuramente, questo, un atteggiamento provocatorio, viste le
posizioni negazioniste di Ahmadinejad, ma ben lungi da una dichiarazione
diretta di voler distruggere Israele. Anche se poi questo è il
messaggio che si è voluto trasmettere all’opinione Pubblica europea.
Netanyahu in Polonia ad Auschwitz, Simon
Peres al Bundestag a Berlino, hanno ribadito ancora una volta un
sillogismo che è falso: ci avete perseguitato e sei milioni di ebrei
europei sono stati assassinati a sangue freddo da europei, oggi noi
ebrei abbiamo uno Stato, Israele, unico «rifugio» per gli ebrei ancora
perseguitati, in nome di quel genocidio noi rivendichiamo il «diritto a
difenderci» da qualunque cosa noi riteniamo una minaccia.
Questo sillogismo è falso da molti punti di vista.
Il primo, il più importante ed il più
eclatante è che la grande maggioranza degli scampati al genocidio
nazista degli ebrei europei non aveva alcuna intenzione di andare nella
«Terra promessa».
E quelli che ci arrivarono lo fecero in quanto profughi e non per scelta.
All’indomani della seconda guerra mondiale
del tutto naturalmente chi era scampato a quell’inferno tornò, dopo
molti peripli terribili, nei Paesi europei da dove erano stati
deportati.
Solo una parte, non maggioritaria andò in
Palestina. Per altro, non in pochi di quelle migliaia di ebrei che
raggiunsero la Palestina tra il 1945 e il 1947 emigrarono ancora una
volta nei dieci anni successivi. A testimonianza che non si sentivano
parte di un progetto politico colonialistico preciso: il Sionismo.
Negli ultimi venticinque anni nella stessa
Israele decine di storici, sociologi, antropologi, geografi e
giornalisti nati e cresciuti in Israele, hanno chiaramente e in maniera
incontrovertibile messo in luce come il gruppo dirigente sionista,
durante gli anni delle deportazioni e del genocidio, avesse più a cuore
la realizzazione del progetto sionista che non la salvezza degli ebrei
europei.
Questo, ovviamente, non significa neanche
lontanamente ridurre il significato del genocidio, né d’altro canto
ritenere gli ebrei complici del loro stesso sterminio.
Significa sostenere che tra le molte élites
politiche che già nel 1941-42 sapevano e nulla fecero c’erano, insieme
alle forze alleate (Stati Uniti e Gran Bretagna in testa), il Vaticano
(gli alibi addotti per giustificare il silenzio di Pio XII, ingannano
solo chi vuol farsi ingannare), la Croce Rossa Internazionale, c’era
anche il gruppo dirigente dell’Agenzia ebraica.
Ciò che è avvenuto all’indomani del secondo
conflitto mondiale si traduce in una formula semplice: riparare ad
un’enorme ingiustizia facendone un’altra. Far ricadere sulle spalle di
una popolazione, quella palestinese, il prezzo di qualcosa cui era
estranea.
Altri profughi si aggiungono ai vecchi.
Le leadership israeliane, susseguitesi dal
1948 ad oggi, hanno sempre sostenuto il diritto di poter giustificare la
spoliazione del popolo palestinese, la sua cacciata di massa tra il
1947 e il 1949 e tutte le aggressioni successive con il genocidio
europeo. Nessuno però ha ancora risposto ad una domanda che il popolo
palestinese pone fin dagli anni ’40 del XX secolo: perché dobbiamo
pagare colpe altrui[1]?
La risposta non è arrivata e non arriverà,
perché l’unica possibile risiede nel riconoscere nello Stato di Israele,
non un rifugio a degli scampati, ma un progetto preciso che a sua volta
usa ed ha usato quei perseguitati e quegli scampati.
Ciò, lo diciamo per evitare equivoci, non
significa oggi rimettere in discussione l’esistenza di Israele, ma
sostenere la possibilità di rimettere in discussione il «mito fondativo»
di quella forma statuale.
Non abbiamo qui lo spazio per approfondire
come sarebbe necessario l’argomento. Per fortuna, però, anche a questo
argomento sono state dedicate opere storiche[2].
Sottolineiamo questa contraddizione perché è
alla base di un equivoco pesante: è possibile tenere insieme la critica
ad Israele e la comprensione profonda di ciò che è significato il
genocidio degli ebrei europei? Provare empatia per le vittime del
genocidio degli ebrei europei e contemporaneamente anche per i milioni
di palestinesi profughi, cittadini discriminati in Israele e le vittime
palestinesi e arabe delle guerre di «difesa» che Israele conduce dal
1947?
Noi siamo convinti di si ed aggiungiamo che
questo è necessario, perché sostenere in modo oltranzista le politiche
di aggressione israeliane significa danneggiare in primo luogo la
comunità ebraica in Medio Oriente e quelle sparse nel mondo.
In altre parole: i rigurgiti di antisemitismo oggi trovano largo spazio e forte sostegno proprio a causa di quelle politiche.
Gli antisemiti in Europa non sono scomparsi
anzi a partire dagli anni ottanta del ventesimo secolo si sono
materializzati in modo sempre più subdolo anche in frange dell’estrema
sinistra.
Il fenomeno, tutto europeo, del
negazionismo e del riduzionismo, ossia il negare del tutto l’esistenza
del genocidio o ridurne la quantità (come se un numero inferiore di
assassinati possa cambiarne la qualità), è oggi assai diffuso e trae
grande vantaggio dall’uso politico che l’establishment israeliano e dei
suoi sostenitori più acritici fanno esattamente del genocidio.
Per fortuna, proprio all’interno delle
comunità ebraiche, a livello mondiale, compresa la stessa Israele, a
partire dall’invasione del Libano nel 1982, è iniziata una presa di
coscienza via via più diffusa che nuovi massacri non potevano essere
giustificati in nome di più antichi massacri e che soprattutto i nuovi
massacri non potevano essere perpetrati in nome di quei sei milioni di
ebrei sterminati in Europa.
In altre parole: la cacciata dei
palestinesi dal loro Paese e i massacri successivi non potevano e non
possono essere né fatti, né essere giustificati in nome di Anna Frank.
Un’equazione pericolosa: antisionismo=antisemitismo
Questa equazione è assai diffusa in Europa.
In Italia più volte è stato ribadito dalle alte cariche dello Stato, a
partire dal Presidente della Repubblica fino all’ «ex» antisemita
Gianfranco Fini, presidente della Camera dei deputati. Un coro ipocrita e
insopportabile, che verrebbe voglia semplicemente di ignorare, per
salvarsi la salute. Purtroppo, invece, ignorarli è impossibile.
È chiaro che oggi i vecchi e nuovi
antisemiti usano la causa palestinese per riciclarsi o nascondersi. Su
questo punto occorre la più grande decisione: l’antisemitismo di
qualunque origine e forma va rifiutato, denunciato e isolato
politicamente e culturalmente.
L’obiettivo di chi oggi usa questa formula indegna è altrettanto chiaro e pericoloso.
Prendiamo ad esempio l’Italia: un Paese
compromesso da accordi militari e politici con Israele fino al collo
(accordi stipulati e accettati dai diversi governi succedutisi in questi
anni). Oggi il nostro Paese è tra i più implicati nello sviluppo
dell’industria bellica israeliana, nell’occupazione dei Territori
palestinesi e nell’apartheid in cui vivono un milione e duecentomila
palestinesi all’interno dello Stato israeliano. Il coinvolgimento delle
università italiane in questo «campo di ricerca» è elevatissimo.
Mentre dall’interno di Israele le più
diverse tendenze antisioniste, seppur minoritarie, tentano di aprire gli
occhi alla propria società sul pericolo che per la stessa Israele
rappresenta possedere un arsenale di centinaia di testate nucleari, non
foss’altro per il fatto che altri Paesi della regione sono spinti a
dotarsi delle stesse armi (vedi il caso dell’Iran).
Criticare il possesso di testate nucleari
di Israele è antisemitismo? No, comune buon senso. È certo ben difficile
sostenere la declunearizzazione della regione mediorientale finché il
Paese con l’esercito più tecnologizzato dell’area non fa mistero di
essere in grado di colpire i propri vicini con armi nucleari «tattiche».
Coloro che oggi chiudono gli occhi su tutto questo si assumono la responsabilità di essere già complici di un atto criminale.
La vera ragione della equazione
antisionismo=antisemitismo, infine, risiede nel non voler ammettere che
Israele non è il Paese di tutti gli ebrei del mondo, ma di tutti i suoi
cittadini, palestinesi compresi. Per altro lo slogan: Not in my name!
è oggi molto diffuso proprio fra quegli ebrei ed ebree che non vogliono
essere complici di un’ingiustizia commessa anche in nome loro.
Far tacere chi invece ha ancora il buon senso di opporsi a tutto questo è non solo ingiusto ma anche molto, molto pericoloso.
Gaza o «dell’entità ostile»
La strage di massa che si è consumata poco
più di un anno fa a Gaza è esemplificativa dell’insensatezza generale
che caratterizza chi non vuol vedere.
Gaza, un’enorme gabbia a cielo aperto, in
cui vivono oltre un milione e mezzo di civili (nella striscia di terra
con la più alta densità di popolazione per chilometro quadrato al mondo)
, uomini, donne, vecchi e bambini, disarmati e da quattro anni sotto un
embargo feroce, è stata definita dal governo Livni-Barak, responsabile
dell’aggressione, come «entità ostile». Una disumanizzazione necessaria
perché l’opinione pubblica israeliana sostenesse un attacco premeditato
contro persone che non avrebbero potuto in nessun modo difendersi o
sottrarsi ai bombardamenti, dal cielo, da terra e dal mare. Purtroppo
l’operazione della coppia criminale Livni-Barak è riuscita: le 1400
vittime palestinesi (tra cui un numero impressionante e intollerabile di
bambini) di quell’aggressione, a fronte di 14 israeliani fra soldati e
civili, erano in quel modo annullate nella loro umanità. Non più bambini
o giovani o donne o uomini, ma «entità ostili» da soffocare e
«sradicare».
Neanche «effetti collaterali» cui ci hanno abituato le nostre «guerre umanitarie».
A fronte del massiccio sostegno
dell’opinione pubblica israeliana, in tutto il mondo quel massacro ha
avuto una risposta internazionale di solidarietà di massa che da molti
anni non si vedeva: da Kabul a New York, passando per Londra, Parigi,
Roma, Il Cairo…ecc. decine di migliaia di persone hanno risposto ad un
bisogno immediato: fermare un massacro tanto feroce quanto inutile.
Riprendere ora le fila di quello che è
avvenuto un anno fa parlando della giornata della memoria non significa
fare parallelismi inesistenti quanto dannosi e inutili, ma ascoltare un
possente campanello d’allarme.
Coloro che pensano di poter tutto rendere
«legittimo» in nome di vittime di ieri o dell’intramontabile
«integralismo islamico» non vedono una realtà che è sotto gli occhi del
mondo: l’impunità non rende legittimi i crimini, ma solo più
insopportabili.
Coloro che oggi difendono il «diritto
all’impunità» per le leadership israeliane sono i più falsi amici degli
ebrei israeliani, perché non si curano del fatto che l’impunità di chi
compie questi crimini rende solo più disperante il senso di impotenza e
la disperazione è sempre una cattiva consigliera.
Cinzia Nachira
29 gennaio 2010
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