IMPATTO GAZA : testimonianza di un'infermiera italiana



E' il primo giorno sotto il cielo di Gaza, sono nella Striscia, Medio Oriente.Oltre lo sguardo si stende il mare, tranquillo e azzurrino, sorvolato dai gabbiani.Un pallido sole, oltre le nubi lontane, mi accompagna ad Al Alawda, dopo aver percorso strade, che spesso non lo sono più, circondate da cumuli di macerie. Al Alawda: poco più che una palazzina di alcuni piani. Definirlo ospedale è fin troppo gratificante.Circondato da fatiscenti strutture, non da meno un pollaio, dove le pecore belano assieme alle galline, sotto vecchi assi di legno, in un cortile sterrato.Sarà il canto continuo del gallo che mi accompagnerà quotidianamente, nelle ore che alternerò fra lì e altri presidi ospedalieri, mentre mi troverò ad aiutare tante donne palestinesi a diventare madri. Sentirsi infermieri in un tale contesto è pressoché riduttivo: mi accorgo infatti che, data la situazione di degrado del paese ( vuoi per motivi politici, vuoi per motivi di guerra perenne ), ed all'alba di un giorno d'inverno, dopo un massiccio attacco aereo, marittimo e terrestre durato 22 giorni e 22 notti, chiamatooperazione “ Piombo Fuso “, noi internazionali siamo accolti ovunque con entusiasmo e gioia, quale simbolo di una speranza di vita di un popolo oppresso.Se poi si accorgono che siamo giunti fin lì non solo per documentare una tragedia umanitaria, ma per entrare anche nelle loro case e in ciò che resta degli ospedali,per prendersi cura dei loro feriti, allora l'accoglienza di tutti, con centinaia di bambini urlanti e sorridenti che ci sommergono, si trasforma in una generale euforia, che mi ha portata a pensare......<<> “solo “ un'infermiera>> ... ma per questi poveretti è come se vedessero in questa figura un'ancora di salvezza, per l'immenso dolore che li sovrasta.E così, quei piccolini che vedono la luce accompagnati dalle mie mani, su di un semplice e spoglio ripiano ,privo anche di lenzuola, in quelle due stanzine che si affacciano sul pollaio, il cui primo vagito si mischia alcanto del gallo, mi riflettono l' immagine di un mondo passato, un mondo in cui il tempo si è fermato, quando ancora alle infermiere non era stato insegnato di “ lavarsi sempre le mani “ o “ usare i guanti “, per ogni pratica di contatto con liquidi organici; dove le donne , in procinto di diventare madri, sollevano il lungo vestito quanto basta per dare spazio al bambino nell'uscire, rimanendo infagottate nei loro stracci casalinghi, e riabassando le vesti, una volta espletato il partoltro che “ camicia da notte “, altro che “ contatto amorevole sul seno materno “, altro che attesa nel taglio del cordone ombelicale, per favorire il fluido magico che s'instaura col proprio bambino, nei primi attimi di vita, e prolungare così il contatto col ventre materno.Niente di tutto questo.E come se non bastasse, nemmeno la possibilità di ripulirsi dei liquidi del parto, che vengono piacevolmente assorbiti dalle lunghe tuniche palestinesi, e con cui se ne vanno tranquillamente via, dopo pochi minuti, col loro fagottino fra le braccia.
Le tre infermierine velate , Imaan, Sabreen e Amira, si dimostrano molto incuriosite dai miei gesti igienici, perlomeno tentativi di pulizia, tant'è che mi sorridono ma contemporaneamente mi fanno segno di scorrere, lì “ usa “ così, senza tanti “ preamboli “.Non solo, ma mi abituerò anche a vederle “ sparire” ogni tanto, almeno 5 volte al giorno, quando si alzerà nel cielo il lamento del Muezzin, e loro alternandosi, s'inginocchieranno su di un tappeto in un angolino dietro una porta, per pregareEppure ho imparato ancora qualcosa: la naturalezza primitiva, con cui si viene alla vita, al di là di ogni progresso professionale, di ogni clausola igienica e preventiva, che fanno nella nostra professione la colonna portante dell'assistenza infermieristica.Ho imparato a trascurare tante manovre di approccio e di contatto, sia con la partoriente che col neonato :la madre che non si spoglia e che non viene pulita; il piccolo che , una volta appoggiato sul piccolo ripiano, sotto quella misera lampada che emana calore spandendosi tutt'intorno, anche su chi è lì vicino , in pochi minuti viene avvolto da più coperte di grossa lana , senza né essere lavato , né tanto meno il cordone ombelicale isolato e disinfettato. Dopodiché si fa tutto un “ pacchettino “ ( con un metodo insegnatomi dalle donne palestinesi ), in cui le braccine dei neonati vengono alternativamente allungate lungo i fianchi e fermate. E poi di corsa , fra le braccia della mamma ....e via . Avanti un'altra, c'è la coda fuori, neanche fosse un banale ambulatorio di visite. E' impressionante il numero di parti, solo ad Al Alawda si arriva a circa 15 al giorno, circa 500 al mese. Ed è “ solo “ una palazzina, un “francobollo “ d'ospedale. A pochi metri dai lettini di parto ( chiamare Sala Parto quelle due stanzine è un complimento ), si aprono le porte ( a pensarci bene non c'erano porte ) di piccole camerette fatiscenti, con due-tre letti ravvicinati, sempre separati da grandi e polverosi tendaggi ( per garantire la privacy ), non solo perché uomini e donne sono assemblati, ma la religione stessa, a prescindere dai due sessi, impone alle donne l'assoluta riservatezza .Tant'è che, nei piccoli ritrovi, dove si può consumare un pasto a base di “ bite “ ( piadine rafferme riscaldate ) e polpette di verdure, o chissà mai cosa c'è dentro, diversi tavoli sono circondati da tendaggi polverosi, entro i quali famigliole intere con presenze femminili delimitano i loro confini, isolandosi dagli astantiMi appaiono i primi feriti che, nonostante sia stato dichiarato il “ cessate il fuoco “ da dieci giorni, e l'emergenza del grande attacco sia oramai superata, ancora persistono in qua e là, spesso avvolti in poveri stracci e grosse coperte di lana colorata, passate di paziente in paziente, e forse mai lavate. Mi sono chiesta spesso, inopportunamente date le circostanze, chissà mai se esisteva un protocollo per le infezioni ospedaliere. Pensavo al “ nostro Clostridium “ e alla “ nostra Legionella “, in compagnia dello Streptococco, se mai conoscevano quei luoghi medio-orientali; o se quantomeno il vento del Sinai, soffiandoli oltre il deserto, mosso a pietà, avesse avuto l'accortezza di risparmiare quella terra da un simile contagio. Alternando turni di attività da un presidio all'altro, giungo ad Al Shifa, l'ospedale centrale di Gaza city, dove i segni del bombardamento si presentano fin dal piazzale antistante l'ingresso: due ambulanze lasciate lì, a cuocere sotto il sole che già accende il cielo di un fine gennaio, sono solo ammassi di lamiere contorte, silurate da carri armati, dove i resti dei corpi disintegrati e appiccicati ovunque, appaiono ai miei occhi comedisegni di una funesta tappezzeria, che nessuno ha provato a rimuovere; ci pensa un gattino , a leccare le lamiere, per poi riposarsi sul sedile accartocciato, incurante del mondo.
Poco distante, un cumulo di macerie, che mi dicono essere state la Moschea dell'ospedale, mi fanno fremere di timore ; non è difficile intuirlo: decine di tappeti multicolori sono distesi alla belle meglio sui calcinacci, e sopra, coi piedi scalzi, i fedeli pregano, inchinandosi al Muezzin. Entrando in Al Shifa, mi assale una sensazione di estrema impotenza e vulnerabilità, di fronte ad un pericolo occulto, che non è più in questo contesto rappresentato da germi e batteri che provocano malattie e loro complicanze, infezioni ospedaliere e chirurgiche; come non è più prioritario pensare all'igiene ambientale e alla prevenzione: no, prevale sopra ogni cosa la consapevolezza della precarietà della vita stessa, dovuta essenzialmente all'interagire di “ semplici “ esseri umani, che decidono della vita e della morte di loro simili
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