«Tutto ciò - osserva - avviene perché è stata contravvenuta la legge divina: l'esilio del popolo ebraico doveva finire, afferma la Torah, con il ritorno del Messia, e non con la creazione di uno Stato secolare».Tzvi, come tutti i suoi coetanei di Mea Shearim si rifiuta di prestare il servizio militare. «Per noi è un grave peccato ammazzare in nome dello Stato sionista», afferma. Ma con Israele, non avete trovato anche voi una casa? «Niente affatto - risponde scuotendo la testa -. I nostri antenati vivevano qui, prima dello Stato ebraico, ed erano in pace con i loro vicini. Poi tutto è cambiato con l'arrivo dei sionisti».Quasi tutti gli abitanti maschi di Mea Shearim trascorrono le loro giornate nelle preghiere e nello studio, contando sulla carità per sostenere le loro numerose famiglie; 7-8 figli per coppia sono la norma in questo quartiere.Ogni azione, ogni momento della giornata quotidiana, il cibo, l'igiene, il riposo, il lavoro, la scuola, sono scanditi ineluttabilmente dalle regole solenni della Torah e diventano rituali sacri. Ogni straniero è un disturbo, ogni cambiamento rappresenta il Male. Il quartiere è tappezzato di manifesti che lanciano anatemi contro le piscine miste, contro la televisione, contro le donne scollacciate. In polemica con il Gran Rabbinato di Israele, colpevole di aver riconosciuto lo Stato sionista e di esserne complice, gli abitanti del quartiere gestiscono le proprie corti rabbiniche, le proprie macellerie kosher, i propri bagni di purificazione. A Mea Shearim si trovano cinquanta sinagoghe e una cinquantina di yeshiva, alcune con centinaia di studenti, altre con pochi bambini, magari inzeppati in una stanza a livello stradale.I più estremisti tra gli abitanti del quartiere vedono il moderno Stato di Israele come un nemico, un abominio: non pagano le tasse, anche se poi vivono dei sussidi pubblici, e si rifiutano persino di parlare ebraico, perché una lingua sacra non può essere profanata in discorsi quotidiani o triviali; conversano in inglese se sono neo-immigrati dagli Stati Uniti o in yiddish se appartengono alle famiglie dei primi ebrei giunti dall'Europa; non votano. Tra loro vi è persino chi ritiene che la Shoah sia stata una punizione divina a causa dei tentativi dei sionisti di creare uno Stato secolare. Si tratta, ovviamente di voci isolate, però attive: nel 2006 una rappresentanza di questi rabbini si recarono a Teheran, poco prima che scoppiasse la guerra in Libano, per esprimere simpatia al nemico giurato di Israele, il presidente iraniano Ahmadinejad. I più moderati parlano ebraico, considerano lo Stato di Israele prematuro e comunque in mano a impostori e peccatori; però votano per i partiti confessionali ebraici: lo Shas (sefardita) e, soprattutto, l'Unione della Torah (ashkenazita) che, in cambio di sostegno al governo di turno in carica, ottengono sempre e comunque generose sovvenzioni alla scuole rabbiniche e sussidi per le famiglie. Un tempo, le due formazioni politiche seguivano una linea assolutamente neutrale in materia di sicurezza, interna ed esterna. Adesso si sono spostate su posizioni di estrema destra, pro-coloni e anti-arabe. Entrambe sono presenti nell'attuale governo Netanyahu: lo Shas ha ottenuto due ministeri pesanti, gli Interni e l'Edilizia (che avrà voce in capitolo sugli insediamenti ebraici in Cisgiordania e Gerusalemme Est); per l'Unione della Torah, nel governone israeliano di 30 dicasteri, sono stati trovati due posti: uno strategico di vice ministro dell'Istruzione ed uno alla Sanità. E condizionano non poco la vita politica nazionale.
Il popolo dell'esilio
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