di Tahar Ben Jelloun Striscia di Gaza e di dolore
Le rappresaglie mirano a trasformare questa striscia di terra in una prigione dove tutti devono soffrire e anche morire per colpa degli attacchi sferrati dai combattenti di Hamas. I suoi abitanti vengono trattati come bestie, senza pietà, col risultato che l’embargo deciso dal governo israeliano provoca la fame, blocca il funzionamento dei già rari presidi sanitari, impedisce qualsiasi movimento. Il 70 per cento di quest’area ha subito interruzioni prolungate dell’elettricità; gli ospedali devono utilizzare generatori autonomi per poter affrontare i casi urgenti. Abbiamo visto immagini di bimbi che cercano di nutrirsi con cibi per cani e gatti, medici che non possono esercitare la loro professione, madri straziate perché messe in quarantena come se fossero delle criminali. Non è la prima volta che Israele ricorre a questa tattica e resta sordo soprattutto a qualsiasi protesta provenga dal Parlamento europeo, com’è accaduto il 24 novembre, o da organizzazioni umanitarie che rivendicano il diritto di inviare cibo e medicine a una popolazione isolata e senza voce. Come ha dichiarato la commissaria generale dell’Ufficio per i profughi delle Nazioni Unite: «Gaza sta per diventare il primo territorio volutamente ridotto a uno stato d’indigenza». L’Egitto, che ha un confine comune con questo territorio amico, ha bloccato, il 7 ottobre scorso, il convoglio di un gruppo di oppositori della sua politica che trasportava medicine destinate ai palestinesi. E ha chiuso la sua frontiera all’altezza di Rafah per impedire qualsiasi infiltrazione di questi uomini e donne condannati alla fame e costretti a scavare gallerie sotterranee per il trasporto di cibo e farmaci a una popolazione di un milione e mezzo di palestinesi. Questa politica è una forma di sterminio di massa. Cosa spera di ottenere il governo israeliano? Che questa gente umiliata e affamata si rivolti contro Hamas? È impossibile, perché questo partito ha conquistato democraticamente il potere e anche se non si è d’accordo sul suo modo di resistere all’occupazione, si tratta pur sempre di una resistenza. E lo stesso Mahmoud Abbas, che ne condanna la politica, è inevitabilmente indignato per il modo in cui una parte del suo popolo viene trattata da Israele.
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