Tom Segev:A Gaza, Golia parla in ebraico


Ai suoi tempi, l'ex primo ministro israeliano Golda Meir dichiarò di detestare gli arabi. Perché? Perché obbligavano gli israeliani a trattarli... come li trattano. L'ultimo attacco israeliano contro Gaza ricorda il suo atteggiamento farisaico, ma anche il suo pessimismo pieno di odio. La Meir non ha mai creduto alla pace con gli arabi.
La maggior parte degli israeliani non ci crede più.
Attesa e praticamente inevitabile, l'operazione «Piombo fuso» è stata scatenata nel momento ideale: i razzi di Hamas sparati da Gaza si abbattevano sulle città del sud d'Israele e la pressione dell'opinione pubblica sul governo cresceva man mano che si avvicinava la scadenza elettorale del 10 febbraio. Inoltre, il governo ha profittato della fine del regno a Washington e del fatto che le vacanze di capodanno distoglievano l'attenzione della «comunità internazionale». Infine, la situazione meteorologica consentiva attacchi aerei ininterrotti.
È stato lasciato nel vago quali fossero gli obiettivi esatti dell'operazione, ma i palestinesi avrebbero comunque «ricevuto una lezione», come tante volte in passato. Da quando è nato, il movimento sionista si è sempre ritenuto il depositario di giustizia, progresso e ragione a fronte di una massa popolare araba primitiva e violenta. È stato dunque necessario «far capire» agli arabi la vera natura del sogno sionista e in particolare quanto esso sia determinato a realizzarsi, costi quel che costi.
Coloro che venivano chiamati gli «arabisti» dell'Organizzazione sionista mondiale, e in seguito del governo israeliano, non
hanno mai smesso d'incoraggiare le forze «moderate» dei paesi arabi, in particolare i palestinesi, a rinunciare alle loro aspirazioni nazionali. Questa strategia, che fa ricorso a promesse e minacce, all'estorsione come alla corruzione, è stata definita la «politica della carota e del bastone».
A più riprese, Israele ha colpito civili palestinesi, nella speranza che si sollevassero contro i loro leader e li sostituissero con dirigenti «moderati». Una politica che non ha mai portato frutti. E che una volta di più è risultata fallimentare a Gaza.
Quando Hamas ha preso il controllo della striscia di Gaza, nel giugno 2007, dopo una breve e aspra lotta contro i rivali del Fatah, Israele ha imposto un blocco che ha precipitato un milione e mezzo di palestinesi sull'orlo della catastrofe umanitaria. Ha distrutto ogni speranza di una vita degna di essere vissuta per tutta una generazione di abitanti di Gaza. E questo non ha fatto che rafforzare Hamas.
Attaccare le città israeliane con lanci di razzi è chiaramente altrettanto crudele che attaccare la striscia di Gaza, e Israele ha, come ogni altro paese, il dovere di difendere i suoi cittadini. L'Egitto ha una pesante responsabilità negli ultimi avvenimenti, perché è stato a causa della sua corruzione e incompetenza che Hamas ha potuto far entrare clandestinamente il suo arsenale nella striscia di Gaza.
Un mito eroico di resistenza Tuttavia, Hamas non è soltanto, come sostengono Israele, Stati uniti e Unione europea, un'organizzazione «terrorista»: è anche un autentico movimento nazionale religioso, sostenuto dalla maggioranza degli abitanti di Gaza. Il tentativo israeliano di spazzar via il movimento bombardando la sua roccaforte non aveva alcuna possibilità di riuscire.
Nonostante il numero spaventoso di vittime, inclusa la scomparsa di intere famiglie e di centinaia di bambini, Hamas ha rifiutato di capitolare, il che ha evidentemente fatto aumentare il numero delle vittime, ma ha anche creato un mito eroico di resistenza. Di fatto, Hamas può far suoi molti elementi dell'arsenale mitologico israeliano, a cominciare dalla lotta che oppone i pochi ai molti, il forte al debole, Davide a Golia. A Gaza, in questi giorni, Davide parla arabo.
Questa guerra ha riportato nella regione giornalisti di tutto il mondo. Molti si chiedono perché israeliani e palestinesi non si mettono semplicemente d'accordo per dividere questa terra. I dirigenti israeliani affermano di sostenere la soluzione dei due stati, un tempo suggerita dalla sola sinistra radicale. Anche i dirigenti palestinesi, a eccezione dei capi di Hamas, hanno aderito a questa soluzione. In apparenza, restano da mettere a punto solo i dettagli dell'accordo. Ma purtroppo il problema è
infinitamente più complicato. Il conflitto non riguarda solo la terra, l'acqua e il mutuo riconoscimento, ma anche l'identità nazionale. I popoli israeliano e palestinese si definiscono entrambi in funzione di tutta la Terra santa. Qualsiasi compromesso territoriale li obbligherebbe ad abbandonare una parte della propria identità. L'ultima fiammata di violenza resterà probabilmente nel ricordo come una nuova tappa della lunga marcia dell'assurdo iniziata nel 1967.
All'indomani della guerra dei sei giorni, il governo israeliano ipotizzò di spostare centinaia di migliaia di palestinesi di Gaza in Cisgiordania, a meno di tre ore di macchina. Il che avrebbe reso l'attuale situazione meno esplosiva. Ma il progetto è rimasto nel cassetto: i membri più influenti del governo israeliano, in particolare Menahem Begin e Moshe Dayan, volevano riservare la Cisgiordania alle colonie di popolamento ebraiche. Questo è stato probabilmente l'errore peggiore commesso da Israele.
Con quasi trecentomila israeliani in Cisgiordania e altri duecentomila negli ex quartieri arabi di Gerusalemme, diventa quasi impossibile tracciare frontiere credibili e avviare la pace. Perché, oltre alle insormontabili difficoltà derivanti da un ritiro dalla Cisgiordania e da una qualche divisione di Gerusalemme, i palestinesi esigono anche un «diritto al ritorno» in Israele per i rifugiati fuggiti o espulsi dalle loro case durante i combattimenti del 1947-1949.
Molti dei quali vivono a Gaza con i loro discendenti.
Posizioni troppo lontane le une dalle altre Negli ultimi anni, con l'ascesa di Hamas e il radicalismo crescente di alcuni coloni ebrei, questo irrazionale conflitto ha assunto una dimensione più religiosa, che lo rende ancora più difficile da risolvere.
I fondamentalismi islamista ed ebraico hanno trasformato il controllo della terra in parte integrante del credo religioso, per loro più prezioso della vita umana.
Così, mentre molti israeliani, europei e altri partecipano a futili dibattiti morali sulla responsabilità degli uni e degli altri, aumenta il numero degli israeliani che non crede più alla pace. Sanno che, senza la pace, Israele rischia di non sopravvivere, ma, di guerra in guerra, hanno perso l'ottimismo. Proprio come me.
Appartengo a una generazione che ha sempre nutrito speranze di pace
Nel 1967, alla fine della guerra, avevo 23 anni ed ero sicuro che, quarant'anni più tardi, la guerra israelo-araba sarebbe finita da un pezzo. Oggi, non credo più alla risoluzione del conflitto. In questo momento, le posizioni sono semplicemente troppo lontane le une dalle altre.
Credo in compenso a una migliore gestione del conflitto, ivi compresi negoziati con Hamas. La maggior parte dei governi dichiara di non voler negoziare con organizzazioni terroriste, ma tutti finiscono col farlo.
È un'esperienza già fatta. Per molti anni, Israele ha rifiutato di parlare con l'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) di Yasser Arafat - si è arrivati anche a incarcerare alcuni militanti pacifisti israeliani per averlo fatto. Alla fine, nel 1993, Arafat, Yitzhak Rabin, primo ministro d'Israele, e Shimon Peres, ministro degli affari esteri, si sono stretti la mano a Washington, davanti alla Casa bianca. Gli israeliani si aspettano molto dalla nuova amministrazione di Barack Obama, che si dice amico d'Israele. Questa amministrazione potrebbe essere più efficace della precedente, semplicemente sforzandosi di raggiungere un obiettivo limitato, ma pressante: rendere più sopportabile la vita sia degli israeliani che dei palestinesi.


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