L'amore ai tempi della barriera di separazione

A metà fra Shakespeare e Kafka, il quotidiano israeliano Haaretz racconta oggi l'incredibile storia di amore e burocrazia di A., israeliana di Tel Aviv e M., palestinese di Gaza. Che oltre 25 anni fa, sfidando il conformismo, si innamorarono. E, a differenza di Giulietta e Romeo, riuscirono a coronare il loro sogno d'amore impossibile con le nozze.
Matrimonio benedetto dal cielo, peraltro, con ben cinque figli. Almeno fino a qualche anno fa. Nel 2000, infatti, con lo scoppio dell'Intifada di al Aqsa, la famiglia, che risiede in Israele, inizia a passare i primi guai. A M., che non ha mai chiesto nè ottenuto la cittadinanza israeliana, viene concesso di restare, in deroga alle nuove leggi, grazie a una norma sull'unità familiare che lo dispensa dal rimpatrio coatto. Dopo qualche tempo, però, è la stessa A., in rotta con il marito, a sollecitare il ministro dell'Interno israeliano perché non gli rinnovi il permesso di residenza.
A. che oggi non sa darsi pace di quella scelta, racconta afflitta che espresse qualche dubbio all'impiegato e gli chiese che cosa sarebbe successo se, per caso, avesse cambiato idea. E lui, con l'imperturbabile faccia tosta dei burocrati l'aveva tranquillizzata: Nulla, signora, nel caso deve solo scrivere una lettera al ministero. Ricordatevi queste parole.
Così, nel gennaio 2007 il povero M. ripudiato torna nella Striscia di Gaza. Solo. Da allora è diventato nonno - ma non ha mai potuto tenere in braccio il nipotino - e rischia seriamente di trovarsi davanti, non nelle vesti del figliol prodigo, il suo primo figlio maschio che ha iniziato, come ogni israeliano della sua età, il servizio militare e nella Striscia potrebbe finirci a inseguire terroristi e lanciatori di razzi.
Di cui M. peraltro non fa parte. Anzi. Gli uomini di Hamas si occupano di lui solo per perquisirgli di tanto in tanto la casa e per chiedergli conto dei suoi figli israeliani.
In tanta afflizione la cosa buona è che sua moglie, A. , ha cambiato idea e ora lo rivorrebbe a casa. Ma benché nel frattempo di lettere al ministero ne abbia scritto ben più di una, la missione sembra di quelle impossibili. Lo stato israeliano si rifiuta di riaccogliere M. e gli nega anche la residenza permanente a cui pure, prima di doversene andare, avrebbe potuto aspirare. A. ha rinnovato la sua richiesta più e più volte finché non ha scoperto che l'impiegato che aveva seguito il suo caso - anche questo è un classico - aveva cambiato lavoro, lasciando sospese tutte le pratiche, e che nessuno l'aveva sostituito.
A maggio la nascita del nipotino aveva concesso qualche speranza: M. aveva subito chiesto
all'amministrazione civile di Gaza un permesso temporaneo per andare a trovare la figlia e il bambino. Richiesta passata in carico all'ufficio di collegamento di Erez, il posto di frontiera fra la Striscia e Israele, e quindi inabissatasi nel nulla.
La coppia allora ha fatto appello alla corte distrettuale di Tel Aviv. Un appello dettagliato, persuasivo, dove si racconta di come M. abbia vissuto per 25 anni in Israele, dove ha lavorato come impiegato e come consulente. Dove ha allevato i suoi figli e trascorso il suo tempo libero. Dove ha imparato a parlare un ebraico perfetto e a considerarsi a tutti gli effetti israeliano. A. ha precisato che mai avrebbe fatto quello che ha fatto, confinare il marito nella Striscia, se avesse conosciuto le conseguenze del suo gesto.
In più, il ricorso parla della situazione in cui vive M. a Gaza, esiliato in patria. Il 31 luglio, ad esempio, racconta M., tre uomini di Hamas mascherati hanno fatto irruzione in casa sua e, dopo averla perquisista, hanno cominciato a interrogarlo : E' vero che hai una moglie israeliana? E' vero che la tua figlia maggiore ha fatto il soldato con l'esercito israeliano? E che adesso tocca al ragazzo? Lui ha provato ad abbozzare, ha detto, No, i miei figli sono arabi (lo sono, secondo la Sharia, e rischiano di essere uccisi per apostasia se allevati nella fede ebraica), ma quelli hanno tagliato corto: "Sappiamo tutto di te". In casa, ad ogni modo, M. cerca di starci meno che può, perché è convinto che i vicini lo spiino per conto di Hamas.
Tutto inutile. Appello respinto. La legge, secondo il ministero dell'Interno, parla chiaro. M. non ha diritto a risiedere in Israele. In più da quando Hamas controlla la Striscia, da Gaza si va in Israele solo per poche, selezionate occasioni. Cure mediche al limite. Le visite ai familiari non sono nella lista.
Tuttavia, aggiunge perfido il ministero, c'è una soluzione. Se A. proprio vuole stare con il marito può andare lei a vivere nella Striscia. Dopotutto, ai tempi delle nozze si era convertita all'Islam - anche se ora proclama di considerarsi ebrea - e il governo israeliano sarebbe pronto ad applicare in questo caso le norme sulla riunificazione familiare. Un'ipotesi dalle conseguenze difficilmente immaginabili o forse anche troppo ovvie. Così per ora si avanti con avvocati e carte bollate.
Lei di Tel Aviv, lui palestinese. Sposati in Israele per 25 anni, poi lui viene rispedito a Gaza e non riesce più a tornare

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