Il coraggio DI SHIRA MERCATO NERO PER AIUTARE LA PALESTINA: la Gerusalemme celeste, per me
Michele Giorgio
Michele Giorgio
Gerusalemme - All’inizio per Shira recarsi a Wadi Fukin, vicino Betlemme, era solo una delle sue tante attività di protesta contro l’occupazione israeliana della Cisgiordania. «Ricordo che con alcuni amici - racconta la giovane israeliana - andavo in quel villaggio palestinese per esprimere solidarietà alla popolazione soffocata dalla costruzione del muro (israeliano in Cisgiordania, ndr) e ogni volta acquistavano un po’ di frutta ed ortaggi dai contadini».
Poi, quelle che erano solo iniziative spontanee si sono trasformate in un progetto politico ed economico. «La gente di Wadi Fukin da sempre coltiva in modo naturale, seguendo tradizioni antichissime - prosegue Shira, che da poco ha concluso i suoi studi all’università di Gerusalemme - così mi è venuta l’idea di avviare una vendita diretta di prodotti agricoli palestinesi ad israeliani interessati a sostenere da un lato l’economia (palestinese) e dall’altro ad incentivare (nei Territori occupati) la produzione naturale di frutta e verdura»Dallo scorso anno Shira, violando la legge israeliana che vieta ai cittadini dello Stato ebraico di entrare nelle aree autonome palestinesi, si mette alla guida del suo furgoncino e raggiunge Wadi Fukin. «Ai posti di blocco (militari) mi chiedono perché sono entrata in Cisgiordania e io rispondo che sono diretta ad una delle colonie ebraiche della zona. Poi, al momento giusto inverto la direzione e vado a Wadi Fukin». Per questa ragione Shira preferisce non rivelare il suo cognome. La giovane israeliana tutte le settimane corre volentieri quel rischio. «Sento di dover fare qualcosa di concreto - dice - perché l’occupazione militare e il muro hanno messo in ginocchio l’economia palestinese. L’agricoltura ha grandi potenzialità e potrebbe sostenere bene migliaia di famiglie in Cisgiordania, invece riesce appena a sfamare i contadini. Le limitazioni ai movimenti, l’accesso negato alle nuove fonti d’acqua e le difficoltà nell’esportazione dei prodotti legano le mani ai palestinesi».Shira sa che la sua iniziativa è solo una goccia d’acqua nel deserto ma si dice ottimista. Ogni settimana, al ritorno a Gerusalemme, consegna cassette di frutta ed ortaggi ad un elenco di decine di famiglie israeliane. «Il costo per chi compra è superiore a quello del supermercato ma i miei clienti pagano volentieri qualcosa in più perché sanno che, tolte le spese, il resto va ai contadini di Wadi Furin. Ci sono almeno 12 famiglie contadine che vanno avanti grazie a questo progetto», aggiunge Shira, che ora spera di poter allargare la sua iniziativa anche a Tel Aviv. Un suo amico si è offerto di seguirla al villaggio palestinese con un secondo furgone, per portare una quantità superiore di prodotti a Gerusalemme, in modo da garantire un reddito ad un numero maggiore di contadini palestinesi.a morsa dell’esercito israeliano sulla Cisgiordania - simboleggiata dai circa 500 posti di blocco sparsi in quel territorio - hanno messo in ginocchio l’economia palestinese. Nessun settore si è salvato.Tra quelli più colpiti c’è l’agricoltura che pure in questi ultimi anni ha assorbito parte della disoccupazione originata dalla chiusura dei transiti con Israele e la riduzione del lavoro palestinese pendolare nello Stato ebraicoIl venticinque percento della terra palestinese è agricola, con coltivazioni in buona parte permanenti, e in passato tante famiglie contadine, specie nella Cisgiordania occidentale, la parte più fertile, potevano contare su un buon livello di vita.Le continue restrizioni imposte dalle forze armate israeliane dopo l’inizio dell’Intifada nel 2000 hanno soffocato l’agricoltura. Infine é arrivato il muro che ha mangiato 4790 ettari di terra palestinese (il dato é del 2006) in gran parte coltivata, senza dimenticare che i coloni israeliani si oppongono allo sfruttamento da parte dei contadini palestinesi delle terre vicine ai loro insediamenti. «Tanti agricoltori non hanno più libero accesso alle loro terre e in molti casi il muro ha separato le coltivazioni dai pozzi dell’acqua. Inoltre siamo costretti a svendere i nostri prodotti perché riusciamo a raggiungere solo i mercati locali. Molti di noi piuttosto che veder marcire la frutta preferiscono venderla a prezzi stracciati ai grossisti israeliani che poi, dall’altra parte del muro, la mettono sul mercato a prezzi decisamente più alti», spiega Abdel Latif Khaled, del villaggio di Jayyus, uno dei più danneggiati dalla costruzione della barriera israeliana.Convinto delle enormi potenzialità dell’agricoltura e dell’allevamento in Cisgiordania, ma frenato nei suoi progetti dalle restrizioni israeliane, é l’agronomo italiano Stefano Baldini. Per conto dell’Ong Ucodep di Arezzo ha messo in piedi, assieme ai partner palestinesi, un centro di ricerca e formazione a Tubas (Nablus) che offre servizi agli allevatori ed allevatrici palestinesi di ventidue villaggi di quella zona e della Valle del Giordano. Una attività impostata su base collettiva e non individuale. «Con il passare del tempo il centro é cresciuto e ha anche sviluppato una produzione casearia di ottimo livello, fatta di formaggi locali ma anche di italiani, come il pecorino e il fior di latte, da destinare ai centri urbani», spiega Baldini, aggiungendo che i soci palestinesi sono passati da ottanta a duecentoquaranta e che l’aumento delle entrate ha consentito di offrire posti di lavoro e di generare un indotto significativo nella zona. Il progetto potrebbe avere ulteriori margini di sviluppo se soltanto, sottolinea Baldini, i prodotti potessero essere commercializzati senza difficoltà nel resto della Cisgiordania e nel settore arabo di Gerusalemme (occupato da Israele)«Contatti con negozianti e ristoranti sono già stati stabiliti - spiega l’agronomo italiano - ma le autorità israeliane vietano la commercializzazione a Gerusalemme di latticini provenienti dalla Cisgiordania sprovvisti di autorizzazioni che, di fatto, sono impossibili da ottenereQuesto rende praticabile solo una vendita porta a porta, basata su conoscenze». Ma anche raggiungere Ramallah non é facile a causa dei posti di blocco: «I soci palestinesi non possono superarli, cosi’ siamo noi italiani a dover effettuare la distribuzione grazie ai nostri passaporti che rendono i soldati israeliani più flessibili».
Baldini e il suo collega Matteo Crosetti, ogni settimana, con un furgone colmo di formaggi e yogurt, passano i posti di blocco disseminati tra Nablus, Ramallah e Gerusalemme e portano alle varie destinazioni i prodotti del loro centro che, una volta venduti, garantiscono la sopravvivenza di tante famiglie a Tubas.Gerusalemme - All’inizio per Shira recarsi a Wadi Fukin, vicino Betlemme, era solo una delle sue tante attività di protesta contro l’occupazione israeliana della Cisgiordania. «Ricordo che con alcuni amici - racconta la giovane israeliana - andavo in quel villaggio palestinese per esprimere solidarietà alla popolazione soffocata dalla costruzione del muro (israeliano in Cisgiordania, ndr) e ogni volta acquistavano un po’ di frutta ed ortaggi dai contadini».
Poi, quelle che erano solo iniziative spontanee si sono trasformate in un progetto politico ed economico. «La gente di Wadi Fukin da sempre coltiva in modo naturale, seguendo tradizioni antichissime - prosegue Shira, che da poco ha concluso i suoi studi all’università di Gerusalemme - così mi è venuta l’idea di avviare una vendita diretta di prodotti agricoli palestinesi ad israeliani interessati a sostenere da un lato l’economia (palestinese) e dall’altro ad incentivare (nei Territori occupati) la produzione naturale di frutta e verdura»Dallo scorso anno Shira, violando la legge israeliana che vieta ai cittadini dello Stato ebraico di entrare nelle aree autonome palestinesi, si mette alla guida del suo furgoncino e raggiunge Wadi Fukin. «Ai posti di blocco (militari) mi chiedono perché sono entrata in Cisgiordania e io rispondo che sono diretta ad una delle colonie ebraiche della zona. Poi, al momento giusto inverto la direzione e vado a Wadi Fukin». Per questa ragione Shira preferisce non rivelare il suo cognome. La giovane israeliana tutte le settimane corre volentieri quel rischio. «Sento di dover fare qualcosa di concreto - dice - perché l’occupazione militare e il muro hanno messo in ginocchio l’economia palestinese. L’agricoltura ha grandi potenzialità e potrebbe sostenere bene migliaia di famiglie in Cisgiordania, invece riesce appena a sfamare i contadini. Le limitazioni ai movimenti, l’accesso negato alle nuove fonti d’acqua e le difficoltà nell’esportazione dei prodotti legano le mani ai palestinesi».Shira sa che la sua iniziativa è solo una goccia d’acqua nel deserto ma si dice ottimista. Ogni settimana, al ritorno a Gerusalemme, consegna cassette di frutta ed ortaggi ad un elenco di decine di famiglie israeliane. «Il costo per chi compra è superiore a quello del supermercato ma i miei clienti pagano volentieri qualcosa in più perché sanno che, tolte le spese, il resto va ai contadini di Wadi Furin. Ci sono almeno 12 famiglie contadine che vanno avanti grazie a questo progetto», aggiunge Shira, che ora spera di poter allargare la sua iniziativa anche a Tel Aviv. Un suo amico si è offerto di seguirla al villaggio palestinese con un secondo furgone, per portare una quantità superiore di prodotti a Gerusalemme, in modo da garantire un reddito ad un numero maggiore di contadini palestinesi.a morsa dell’esercito israeliano sulla Cisgiordania - simboleggiata dai circa 500 posti di blocco sparsi in quel territorio - hanno messo in ginocchio l’economia palestinese. Nessun settore si è salvato.Tra quelli più colpiti c’è l’agricoltura che pure in questi ultimi anni ha assorbito parte della disoccupazione originata dalla chiusura dei transiti con Israele e la riduzione del lavoro palestinese pendolare nello Stato ebraicoIl venticinque percento della terra palestinese è agricola, con coltivazioni in buona parte permanenti, e in passato tante famiglie contadine, specie nella Cisgiordania occidentale, la parte più fertile, potevano contare su un buon livello di vita.Le continue restrizioni imposte dalle forze armate israeliane dopo l’inizio dell’Intifada nel 2000 hanno soffocato l’agricoltura. Infine é arrivato il muro che ha mangiato 4790 ettari di terra palestinese (il dato é del 2006) in gran parte coltivata, senza dimenticare che i coloni israeliani si oppongono allo sfruttamento da parte dei contadini palestinesi delle terre vicine ai loro insediamenti. «Tanti agricoltori non hanno più libero accesso alle loro terre e in molti casi il muro ha separato le coltivazioni dai pozzi dell’acqua. Inoltre siamo costretti a svendere i nostri prodotti perché riusciamo a raggiungere solo i mercati locali. Molti di noi piuttosto che veder marcire la frutta preferiscono venderla a prezzi stracciati ai grossisti israeliani che poi, dall’altra parte del muro, la mettono sul mercato a prezzi decisamente più alti», spiega Abdel Latif Khaled, del villaggio di Jayyus, uno dei più danneggiati dalla costruzione della barriera israeliana.Convinto delle enormi potenzialità dell’agricoltura e dell’allevamento in Cisgiordania, ma frenato nei suoi progetti dalle restrizioni israeliane, é l’agronomo italiano Stefano Baldini. Per conto dell’Ong Ucodep di Arezzo ha messo in piedi, assieme ai partner palestinesi, un centro di ricerca e formazione a Tubas (Nablus) che offre servizi agli allevatori ed allevatrici palestinesi di ventidue villaggi di quella zona e della Valle del Giordano. Una attività impostata su base collettiva e non individuale. «Con il passare del tempo il centro é cresciuto e ha anche sviluppato una produzione casearia di ottimo livello, fatta di formaggi locali ma anche di italiani, come il pecorino e il fior di latte, da destinare ai centri urbani», spiega Baldini, aggiungendo che i soci palestinesi sono passati da ottanta a duecentoquaranta e che l’aumento delle entrate ha consentito di offrire posti di lavoro e di generare un indotto significativo nella zona. Il progetto potrebbe avere ulteriori margini di sviluppo se soltanto, sottolinea Baldini, i prodotti potessero essere commercializzati senza difficoltà nel resto della Cisgiordania e nel settore arabo di Gerusalemme (occupato da Israele)«Contatti con negozianti e ristoranti sono già stati stabiliti - spiega l’agronomo italiano - ma le autorità israeliane vietano la commercializzazione a Gerusalemme di latticini provenienti dalla Cisgiordania sprovvisti di autorizzazioni che, di fatto, sono impossibili da ottenereQuesto rende praticabile solo una vendita porta a porta, basata su conoscenze». Ma anche raggiungere Ramallah non é facile a causa dei posti di blocco: «I soci palestinesi non possono superarli, cosi’ siamo noi italiani a dover effettuare la distribuzione grazie ai nostri passaporti che rendono i soldati israeliani più flessibili».
«Ma cosa accadrà quando noi andremo via, quando il progetto resterà, come é giusto, nelle mani solo dei palestinesi? Riusciranno i nostri colleghi a commercializzare i prodotti senza trovare ostacoli sulla loro strada? Oppure tante famiglie sono destinate a perdere quanto hanno ottenuto dopo anni di lavoro?», si domandano preoccupati i due cooperanti italiani. Nel frattempo le merci prodotte in Israele inondano i territori occupati palestinesi, senza incontrare alcun intoppo.
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